Dibattito/Riforma scuola: in difesa del preside


Insegnanti
da Il Foglio – 09.06.2015 di Mastrocola
C’è quello rassegnato. Il professore allunga l’occhio sconfortato sul vasto atrio dell’Istituto Tecnico. Periferia romana. Annusa l’aria – venti contrari, venti di sempre, mai un refolo a favore. C’è odore di caffè in giro. Pizzette e cornetti. Pizzette con mortadella. Prosciutto e formaggio. “Ancora ’sta mortadella? Volemo pure er chebbabbe, prima o poi! Famose moderni!”. Ecco. Zaino/alunno/smartphone compongono un tutt’uno – creatura aliena, diversi pezzi montati insieme, il piccolo implacabile Frankenstein – un po’ così carino, un po’ così stronzetto – che moltiplicato per trenta e trenta e trenta, trenta per classe per tre classi, ogni giorno occorre fronteggiare. Passa, urta, corre – smanettando sempre, sempre cibo per il mondo esterno famelico, l’alieno. Voci: “Aaaaa-mongoloide!”. “Aaaaaa-andicappata!”. “Aaaaaaa-anarfabetica!”. Geniale, quasi. Sospiro del professore: “Come entri qui dentro, la mattina, ti pare di essere la balena che ha capito di essere finita spiaggiata…”. C’è quella entusiasta. Di solito è una professoressa (pure i professori sono entusiasti, mica tutti abbattuti o ansimanti, pancia all’aria, sulla sabbia: ma le donne il loro entusiasmo comunicano meglio). “Alla fine, sono meravigliosi i ragazzi…”, e rimira, la prof. di italiano e storia, il battaglione foruncoloso dalle braghe calate, la mutanda nera con teschi a vista e il WhatsApp perennemente alleprato su altre direzioni – ogni altra direzione, tranne questa che conduce alla terza A o alla quinta B o alla seconda C. La prof. come vice mamma, teneramente materna, un filo affaticata, capace di annusare il genio adolescenziale (quando c’è) e di sorvolare sullo svaccamento adolescenziale (che spesso c’è), che quasi pare di sentir canticchiare la canzone del cantautore e illustrissimo collega prof. Vecchioni, “figlio, figlio, figlio / disperato giglio, giglio, giglio / luce di purissimo smeriglio…”. C’è il prof. che molla, c’è quello che non molla. Quello che si appassiona e quello il cui scoglionamento rivaleggia con lo scoglionamento dello studente/ssa che ha davanti. L’unghia di nero laccata, il rimmel stratificato, il jeans che cinge un voluminoso girovita che disperatamente s’avventa fuori: “A professo’, nun se capisce…”. E quel groviglio esistenziale tra le cose che sai, magari non semplicissime da spiegare, ma neanche particolarmente complicate, e il vetro infrangibile verso il quale si dirigono e sul quale si frantumano, e tornano polverizzate in un aggrovigliarsi di “amò cvd x axitivo”, di “nn”, di “xchè”, di “qnd” e di “qnt”, figurarsi perciò se uno può stare dietro al Boiardo, il principio di un attacco di panico nella prospettiva di altri sinonimi & contrari – e pure un verso di Prévert (Prévert a quindici anni nel terzo millennio fa lo stesso effetto che a quindici anni negli anni Settanta: al facile poetare un occhio si può sempre gettare) trova una sua geniale riduzione: “Kuest amo tt int ankor kosi vivo tt pien d sol è tt m” – e dicono prof., tutti ormai diciamo prof., scriviamo prof. – il prof. stesso, chiamato professore, forse non si girerebbe più. Il Maalox, ché le budella bruciano. La pazienza. La complicità a volte. Tra cattedra e banchi. Discente e maestro. Qualcosa poi sempre resta. Magari. Forse. Dicono (sappiamo che resta). Carezza esistenziale agli sbracati lì davanti. Carezza (più rara e più ruvida) degli sbracati al piccolissimo potere issato sulla cattedra. Poi dicono che è stato il meglio – una vita dopo, però. Ma solo alcuni, lo dicono. Sorride il prof. Piergiorgio Mori, vicepreside dell’Istituto Professionale “Giorgio Ambrosoli” di Centocelle – quartiere periferico della capitale: “Stanchezza? Noia esistenziale? Beh, sempre lo stesso posto… E poi, questi qui davanti, i ragazzi, hanno sempre e per sempre diciotto anni, e tu invece ogni anno un anno in più…”. Che furono quaranta e poi cinquanta e magari sessanta – un po’ ti pieghi, inevitabile, e loro immutabili come pietre di Stonehenge, purtroppo non altrettanto immobili, sempre con ossa integre. Moltiplicati all’infinito – e diciotto anni non mutano mai, né oggi né trent’anni fa. Poi, ci sono pure i prof. della Mazzucco.
Melania G. Mazzucco è una scrittrice. Una delle tante. Dei tanti. Chi pensa sia brava. Chi pensa che non lo sia. Chi non perderebbe due minuti tra le sue pagine. Chi le considera pilastri della infinita liberazione nostra. Certo, da una cattedra forse chissà se qualcuno sospettava potesse mai essere evocata. Per esempio, la preside del liceo “Giulio Cesare” – la prof. Micaela Ricciardi, pensa sia brava, dice che “il libro è bello e serve per parlare di temi come le famiglie di nuovo tipo e l’omofobia. I ragazzi lo hanno apprezzato”. Il “Giulio Cesare” – quello cantato e ricantato da Venditti, quello che, allora, figurarsi, “le otto e mezza tutti in piedi / il presidente, la croce e il professore / che ti legge sempre la stessa storia / sullo stesso libro, nello stesso modo / con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione”. Ecco, per dire: tra precariato che s’allunga fin dentro la maturità della gente, adesso quarant’anni di onesta professione pure il più onesto dei prof. se li sogna. E soprattutto, né più la stessa storia né lo stesso libro né lo stesso modo. Il Mazzucca style, là dove il cantautore evocava Paolo e Francesca, pure Nietzsche e Marx, intesi il fascio e la zecca, che “si davano la mano”. Il libro in questione s’intitola “Sei come sei” (Einaudi) – bimba figlia di una coppia gay (con utero procurato oltreconfine), e precoce vedovanza di uno dei due. A un certo punto, c’è il racconto/resoconto di un giovanile pompino: “Si inginocchiò, fingendo di cercare l’accappatoio nel borsone, e poi, con un guizzo fulmineo, con una disinvoltura di cui non si immaginava capace, ficcò la testa tra le gambe di Mariani e si infilò l’uccello in bocca. Aveva un odore penetrante di urina, e un sapore dolce. Invece di dargli un pugno in testa, Mariani lasciò fare. Giose lo inghiottì fino all’ultima goccia e sentì il suo sapore in gola per giorni…” – volendo, appunto: resoconto più che racconto. (Quelli del Messaggero hanno premesso un piuttosto comico avvertimento alle righe sopra riportate: “Avvertiamo i lettori che il brano sotto riportato ha dei contenuti particolarmente espliciti” – a timore dei turbamenti della pensionata di Tor Marancia, si suppone). E’ seguita denuncia dei professori che il testo avevano proposto, difesa della preside, del ministro dell’Istruzione – che però “certo non lo leggerei in classe a ragazzi di quindici anni”, turbolenta presa di posizione di Iva Zanicchi con invocazione di fame/licenziamento/calci-nel-culo e, dulcis in fundo, come si dice (a proposito, nel caso), “quella cosa dolciastra gliela vomiterei in bocca”. Per i prof. proponenti il mazzucchiano elaborato, persino interrogazione al Senato (l’implacabile Giovanardi), non ammessa dal presidente Grasso, “il documento in oggetto non corrisponde pienamente ai requisiti di proponibilità degli atti di sindacato ispettivo parlamentare”, insomma: è osceno, si turba il Senato e chissà cosa può passare per la testa del senatore, se casomai si arrapa – ché di sicuro gli studenti, Mazzucco o non Mazzucco, prof. o non prof., sulla faccenda saranno già di loro parecchio addottrinati. Poi, manifestazione di gruppuscoli di estrema destra davanti al liceo – a motivo di scandalo del pompino gay. “Maschi selvatici, non checche isteriche!” – spiccava sullo striscione fesso, e siamo a un passo dal mitologico “l’omo, pe’ esse omo, a ’dda puzzà”, che quasi quasi veniva da invocare “Priscilla, la Regina del Deserto”, checca sì e neanche isterica, e decisamente più rassicurante. E di là, sull’altro fronte, i giornali democratici, i democratici insegnanti, le associazioni Lgbt (schiatteremo sotto gli acronimi), i gay impegnati (“Se era un rapporto orale eterosessuale tutti zitti, eh?”. “Dici?”. “Dico. Hai mai visto qualcuno impressionato per un pompino eterosessuale?”. “Boh… Dici?”. “Dico”), la sinistra indignata (“Ma tu l’hai letto, il libro della Mazzucco?”. “Manco una pagina”. “E allora?”. “E allora è il principio”), i percorsi formativi, la sacrosanta lotta all’omofobia, la scontata accusa di omofollia di quelli che ogni gay ce l’hanno per frocio – a insulto, ce l’hanno… Solito teatrino. Solita scena. Solita pena.
La Mazzucco è relativa – è relativo pure Dante, figurarsi. Forse la questione allora sono gli insegnanti, i prof. – quella stanca figurina sul fondo della nostra quotidianità, che una volta spiccava, per autorevolezza e compostezza, tra la divisa del maresciallo dei CC e la tonaca del prete e il camice del medico. E se il prof. i genitori chiamava, lo scapaccione per lo studente, fosse pure ancora stabile sulla soglia rassicurante del semplice seppur accanito onanismo, era assicurato. Ora vagano, giorno dopo giorno, Consiglio d’Istituto dopo Consiglio di Classe, su un terreno minato, contano morti e feriti, depressione e stanchezza, alzate di genio e occhiate impazienti all’orologio – il loro piccolo “ospedale da campo” dove pure la Mazzucco può sembrare portare sollievo e comprensione. Molti, di diverse altre scuole, difendono la scelta dei colleghi del “Giulio Cesare”. Altri, sorvolano: nel parapiglia, una Mazzucco chissà che non possa capitare pure a me.
Altri, una minoranza, dissentono. “Per quella roba lì basta leggere Catullo. O magari Petronio”, dice la prof. Maria Grazia Ascoli, che insegna storia e filosofia al Liceo Scientifico “Kennedy”, sul Gianicolo. Perché infine, ciò che la Mazzucco come sapeva e come poteva ha rielaborato, senza affondare nei classici si trova pure (per stare agli scrittori italiani) in Umberto Saba, nel suo “Ernesto” da quarant’anni in libreria: “L’uomo accarezzò la parte che aveva lentamente messo a nudo, ma poco, perché temeva di impazientire il ragazzo… Poi provò una strana indefinibile sensazione di caldo (non priva, in principio di dolcezza) come l’uomo trovò e stabilì il contatto…”, ecc. ecc. – e qui siamo più decisamente sul versante racconto piuttosto che resoconto. “Pure Boccaccio, allora, quando lo hanno letto in classe la prima volta…” – azzarda un prof. “Pure Boccaccio cosa? Come la Mazzucco? Ti sei fatto la canna di un tuo studente?”. “Ma scusa, è il principio…”. Oddio, riecco il principio.
“L’autorevolezza sociale degli insegnanti è caduta molto, molto in basso. Questo non inficia l’autorevolezza personale di ognuno di noi, ma… Ecco: il discredito che copre la classe insegnante è un po’ anche colpa nostra”. Così ragiona, nella sala professori del Liceo Scientifico “Nomentano” la prof. Piera Nardi, italiano e latino, dal 1975 dietro la cattedra. Scuote la testa: “Gli insegnanti hanno troppo facilmente accettato la linea dei loro sindacati, che li ha ridotti a impiegati. Io sarei stata una che nella vita poteva iscriversi alla Cgil, però mai ho trovato un atteggiamento che valorizzasse la qualificazione, il merito. Anzi: ‘Ma tu fai il concorso? Ma sei matta?’. Il sindacato poteva fare molto per non rendere questo un lavoro impiegatizio. Invece ha cercato di appiattirlo al livello più basso, di darci piccoli contentini più per difenderci dal nostro lavoro che per farcelo amare”. Ha lezione, tra poco, la prof. Nardi. Le carte, il registro, l’elegante foulard. “Ma questa tendenza impiegatizia è forte anche per colpa nostra. Abbiamo barattato piccole garanzie con qualità e personalità di un lavoro. E poi, il solito scontato atteggiamento di fronte alle riforme, come se fosse sempre una cosa di destra. Come se uno si dovesse giustificare tutte le volte che vuole provare a migliorare la propria personalità”. E la storia del “Giulio Cesare”? Né si scandalizza né si stupisce, la prof. Nardi. “Io non avevo preso in considerazione questo suo ultimo libro, pure se c’è una riscoperta della letteratura femminile del Novecento… Anche se poi l’intera vicenda va riportata dentro il progetto scolastico contro l’omofobia. C’è un percorso attraverso il quale si fanno le cose”. Come al colonnello di Garcìa Màrquez, nessuno più scrive al prof. O alla prof. Come fece don Milani con i suoi ragazzi, in quell’Italia degli anni Sessanta – quella scandalosa “Lettera a una professoressa”, scandalosa perché allora qualcosa significava, una professoressa, “per prima cosa ho scoperto l’ingiuria giusta per definirvi: siete soltanto superficiali. Siete una società di muto incensamento che si regge perché siete pochi”. Ora pochi non sono, i prof. Un pattuglione sterminato, un’armata – però un po’ spersa, come quelle che nei film di fantascienza mandano nello spazio a vagare e buonanotte, come se la scuola fosse diventata un pianeta ostile a loro e trascurabile per il resto del mondo. Un’armata di terracotta – come quella del Primo Imperatore Qin Shi Huangdi: immensa e imperiale e impotente. Tranne, si capisce, per chi ha lì il figlio o la figlia – il poco studio, le troppe canne, le cattive compagnie. E soprattutto, che non crei problemi, la scuola, che già tanti ne abbiamo a casa! Lì stanno, i prof. – in una sorta di terra di nessuno, né padri né madri, vice padri e vice madri, la testa dei ragazzi spesso altrove, come altrove è la testa dei genitori. Là dove va lo sguardo: sul maledetto smartphone.
Ha scritto ai prof., invece, un altro prof., un super-prof., ecco. Sulla Stampa, Luca Ricolfi, esaminati i test Invalsi (una di quelle trovate che già solo al primo accenno filologico generano noia e disattenzione: insomma, prove sui livelli di apprendimento degli studenti), ha lanciato pesanti accuse. Intanto, che “i risultati dei test sono manipolati. Molti insegnanti, infatti, aiutano direttamente i loro allievi o li lasciano copiare”. Dilagante asineria, ha rilevato il super-prof. Grullerelli e ciuchini collodiani futuri, ha segnalato. E di ciò, i prof. ha incolpato. “Gli insegnanti che concedono la maturità (e, prima della maturità, la licenza media) ad allievi che non hanno nemmeno lontanamente raggiunto gli standard previsti da questi ordini di scuola, ad allievi che non sono in grado di scrivere o comprendere un testo, ad allievi che hanno cancellato quasi del tutto quel poco di matematica che la scuola ha loro comunque insegnato, ad allievi che sono perfettamente ignoranti in storia, geografia e scienze, questo tipo di insegnanti lo stato penoso dei loro allievi lo conoscono benissimo, perché si vede ad occhio nudo, senza bisogno di alcun raffinato strumento di valutazione. Per alzare i livelli di apprendimento, basterebbe che gli insegnanti rispettassero i programmi e non abdicassero al loro ruolo”. Questo e altro, scrisse Ricolfi. Rispettare? Abdicare? Per Gabriella Bertero, “insegnante, da trent’anni in un istituto professionale”, facile, troppo facile – “tutti, Lei compreso professore, mi scusi, pensano di sapere sempre ciò che si può o si deve fare”, e un lungo elenco di doglianze, a sua volta, sull’illustre critico rovescia: “A me piacerebbe che ognuno di voi che scrivete, parlate, decidete per gli altri, veniste a vedere che cosa c’è in un’aula: il ragazzo con le crisi di panico, l’allievo che arriva pieno di lividi per le botte in famiglia, il cinese (o l’indiano, il rumeno, il marocchino) che arriva a metà anno senza sapere una parola di italiano (e che deve essere seguito, inserito, aiutato…), il disabile senza sostegno e altro ancora…”.
 
Cena a casa di amici. Giorgio è un giornalista – de sinistra, si direbbe: de sinistra, però con juicio. Leandro Sorrentino è professore di ruolo dopo diciotto anni di precariato, “quando cambi due scuole l’anno”. Adesso mette la giacca e la cravatta sempre, per rispetto, “in qualche modo sono l’estrema propaggine delle istituzioni”. E’ pure musicista. Gran suonatore di sax. Ha suonato alla Biennale, “sto in una storia del jazz napoletano”. Dice: “Secondo un report del ministero, quando ho cominciato, nel ’94, la soglia di attenzione dei ragazzi era di circa venti minuti, ora al massimo di sei, sette minuti. Uno su tre è perennemente online. Ho trovato presidi che si raccomandavano: non dovete bocciare, ricordatevi che gli studenti sono i nostri clienti. Proprio così dicevano: clienti”. Adesso insegna italiano e storia all’Istituto Tecnico Commerciale “Leonardo Pisano”, vicino Bagni di Tivoli, sulla Tiburtina, in parte sprofondato e finito nei container, racconta, in parte ancora sulla terraferma – come una grande nave saccheggiata dai pirati e arenata sul bordo della statale. Ma felice di esserci, dice: “A me non mi frega se, come dicono i colleghi, siamo pagati poco. Questo è il nostro lavoro”. Dice pure: “Siamo a volte gente un po’ triste, un po’ stanca”. Dice degli studenti: “Capaci di mettersi a piangere come vitellini, se gli sequestri il cellulare”. Dice dei genitori, che di solito si precipitano a dar man forte – al figliolo, quasi sempre praticamente ignoto: “Arrivano da me incazzati: professo’, ha messo quattro a mio figlio, ho speso pure 400 euro di libri! Ma se non li apre? Difendono i figli a ogni costo, sempre. Ci sono di quelli che si mandano le mail per aprire la discussione sui vari professori… Altri, per fortuna, capiscono che tu sei un loro alleato, non un nemico, che con i figli passiamo più ore noi che loro…”. A volte è così, la scuola, “dove nessuno chiede conto di niente, dove tutti non vogliono rotture di coglioni”.
Discussione, tra melanzane e parmigiano, del caso Mazzucco. Il prof. Sorrentino, al sax, dice che è contrario “agli insegnanti che fanno leggere in classe giornali sportivi o i libri di Moccia”. Dice che casomai, per parlare di erotismo in letteratura, “Aminta” del Tasso va pure meglio. Il prof.: “E’ il nuovo civismo, col rischio della deriva ideologica. Ci si sente parte della missione di chi vuole costruire il cittadino nuovo. Per quello che riguarda la Mazzucco, intanto un primo problema di qualità letteraria. Tu puoi parlare di Achille e Patroclo e metterci questi temi, non ti pare?”. L’amico giornalista: “Una follia che porta a costruire dei piccoli manifesti pret-à-porter che non fanno i conti con la realtà. Che fai, mi fai leggere la Mazzucco? Invece di rispondere con una discussione all’altezza della questione, mi proponi le tue idee di mondo?”. Il prof.: “E’ vero quello che dici. Non devi vendere te stesso, sedurre intellettualmente i ragazzi con le tue letture. Devono lavorare loro, io metto un argomento al centro. Loro si facciano avanti con le proposte: poi, può essere ‘Madame Bovary’ o un eccesso di pornografia su internet”. L’amico giornalista: “Non c’entra niente l’omosessualità. Questa è solo un’operazione ideologica per convincere ragazzini di diciotto anni che farsi i pompini tra di loro sia normale – quando magari, sotto i banchi, se ne sono già fatti chissà quanti… Un’operazione speculare a quella dei preti che dicono: niente sesso prima del matrimonio. Insomma, per me pensare all’equazione Muzzucco = liberazione è impossibile”. Il prof.: “Io non credo che la scuola debba andare a vedere qual è la scelta erotica di ognuno, ma rendere più elastica la capacità di accogliere gli altri”. L’amico giornalista: “Ecco: vi porto il mio mondo, i miei pomeriggi televisivi con le Concite di turno…”. Dal forno si tira fuori la torta. Calda.
“Animula vagula blandula” – come i versi dell’imperatore Adriano, che sempre qualcuno fa tradurre in classe, così un po’ vanno smarriti i prof., mentre fra i denti tengono quel poco (nei casi felici anche quel molto, ma sono casi molto più sporadici) dell’antica autorevolezza che resiste, come certi popoli che rimpiangono e rivangano sempre vecchi splendori sepolti da secoli. Il trascinare registri, carte, circolari, normative, decreti, graduatorie (a esaurimento, pure: la vita dell’insegnante è inseguita da tali paranoici abbinamenti lessicali) – il buon senso, il senso comune, il dover piacere, la fatica, il peso degli anni o sennò il peso dell’incertezza, e spesso entrambi i pesi. L’aula, raggiunta dopo tanto deambulare tra logica e illogico, finalmente serrata, pur se approdo faticoso, dove una trentina di creature in fase di eruzione ormonale sono persino più scoglionati di te, è come la Fortezza Bastiani – arriveranno i tartari della quinta A? quelli del provveditorato? i nuovi turni del preside? Ecco, che poi neanche più preside è, adesso Dirigente Scolastico s’appella, e dunque DS, e galleggia l’esistenza del prof. che a volte fa venire in mente il fuochista del Titanic di Francesco De Gregori, “quando mi mettono a faticare / per pochi dollari nelle caldaie / sotto il livello del mare / in questa nera nera nave / che mi dicono che non può affondare”. Neanche la “nera nave” della scuola italica dicono può affondare – e anzi, scommette adesso il trionfante Matteo Renzi sul ritorno dell’autorevolezza persa dei prof., la “la recupereremo centimetro dopo centimetro”, stiamo freschi: è risalita da Muraglia Cinese, chilometri bisogna fare, migliaia di chilometri, altro che centimetri. Però, almeno provare a cominciare. E invece, come dopo l’avvenuto affondamento, galleggiano i prof. tra oggetti che accompagnano la deriva, una vita tra la cabala e la modulistica e l’acronimo: il personale ATA, la SSIS, il MIUR, la A037, i test dove ti chiedono: “Chi ha detto: ‘L’uomo schiavo è della società?’: a) Marx, b) Freud, c) Marcuse, d) Aristotele”, i concorsi per il TFA, la A036, i CDC, il DSGA, l’Open day (che non è night diurno), il master on line, “la nostra utenza”, la 104 (per chi ha un familiare in difficoltà: oggettivo diritto, spesso insensata baraonda, di solito appellata “lacentoeeeeeequattro”, così a cantilena), il POF – ecco, ecco: il fondamentale Piano per l’Offerta Formativa: pof/pof/pof/pof/pof/, che a un ronfare di gatto somiglia, il dilagante “cretinismo genitoriale” (“genitoriale” è altra parola che appesta ogni documento scolastico) con cui ogni prof. prima o poi fa i conti, che porta le pizzette calde ai figlioli che fanno le occupazioni, il Che bello di mamma sua!, che difende lo smartphone della creatura con le unghie e i denti, che trova sempre una giustificazione e mai un limite. Limite loro, magari. La sensazione di trovarsi dentro un mondo come quello indecifrabile dell’Istituto Benjamenta di Robert Walser, “qualche volta succede che tutta la mia vita qui dentro mi appaia come un sogno incomprensibile”. E la cattiva (e ingiusta: giurano, e vagando per licei e istituti tecnici pare così) fama di sfaticati dalle poche ore di lavoro quotidiano e dai molti mesi di ferie estive. “Una fama pessima, è vero. Poi, se li conosci, i professori non sono così brutti come li dipingono”, ride (ruggisce) la prof. Ascoli, quella del “Kennedy” sul Gianicolo.
Fenomale testimonianza di un paio di anni fa di Christian Raimo, professore e scrittore, sul lieto addottrinamento che l’insegnamento precede: “I corsi – biennali – costavano circa 3.000 euro, era obbligatoria quanto inutile la presenza, erano ridicoli al 90 per cento, irritanti nella loro vaghezza e mancanza di programmazione, quasi nulli – spesso controproducenti – da un punto di vista didattico. I rari casi li posso citare con un paio di nomi e un paio di cognomi”. E rammenta di quando “un pomeriggio siamo stati obbligati in seicento (tutti partecipanti delle SSIS delle classi umanistiche)” a seguire un convegno su Didone, pensa tu, “l’idea era quella di far vedere come un argomento potesse essere trattato in modo multidisciplinare. Di fronte a seicento persone a cui di Didone quel giorno non fregava molto e che magari avevano dovuto pagare la babysitter pur di essere presenti, sei professori facevano battutine tra loro e snocciolavano i loro pareri su Didone in letteratura, arte, filosofia, con una capacità retorica che avrebbe raccolto a stento una decina di persone tra gli uditori solo se già molto interessati all’argomento”. Così andò: “Gli esami finali per l’abilitazione sono stati puerili, siamo usciti praticamente tutti con il massimo punteggio, 42. Tutti tranne io e un mio collega, praticamente, 41, perché la mia tutor mi disse che le dispiaceva ma non aveva capito come si assegnavano i punteggi”. E dunque: “Quel che si sta venendo a creare è una sorta di ‘bolla finanziaria dell’istruzione’…”. Bella intuizione.
Al Liceo Classico “Pilo Albertelli” – e l’Albertelli era un prof. del liceo stesso, storia e filosofia, allievo di Gentile, ammazzato dai nazisti – già Regio Liceo, hanno studiato Enrico Fermi, “al termine di un brillante percorso scolastico”, racconta credibilmente la targa sul muro, Massimo D’Antona, trucidato dalle Br, Ettore Scola e Carlo Cassola e Carlo Salinari. Sta a fianco di Santa Maria Maggiore, due passi appena da Termini. Pavimenti liberty, vetrine con angoscianti animali impagliati, specchi concavi e binocoli dell’Ottocento nell’apposito museo. In biblioteca si intravede pure un sopravvissuto saggio di Ceausescu sulla pace nel mondo, acquistato chissà come e perché. Mi dicono i suoi amici: vai a parlare col prof. Ricciardi, è uno dei pochi che ha fatto innamorare i suoi studenti dei “Promessi sposi” – di solito una croce di cui ci si libera a maturità avvenuta. Giovanni Ricciardi insegna da venticinque anni. Greco e latino. E scrive. Gialli – col suo commissario Ottavio Ponzetti, che “invece di seguire le nuove tecnologie cerca sempre di seguire il suo fiuto”. E più o meno, racconta, così ha fatto per imbrigliare l’attenzione spesso in contumacia dei ragazzi sulla sorte amorosa (e piuttosto tediosa) di Renzo e Lucia. Alla fine, basta leggere. “Basta portare i testi come sono, leggerli spiegandoli il meno possibile, con una sorta di lettura rapsodica. Per i ‘Promessi sposi’ come per ‘Iliade’ e ‘Odissea’. Accostare gli studenti al testo senza mediazione, un insegnamento di tipo artigianale. Puntare in alto, non dimenticare di stimolare lo studente. Certo, se si preferisce Baricco a Dostoevskij e Tolstoj…”. Sfuggire la peste della “narratologica” (pure questo pare esistere), “c’è una superfetazione sulla presunta ricerca dello studio della narrativa”. Ricciardi è uno di quei prof. contenti del lavoro che fa – “non è la mia unica fonte di gratificazione”, ma sa che pure qui, tra i corridoi e le aule di un liceo storico, non meno che nei corridoi e le aule di un professionale di periferia, la sua è figura sminuita, socialmente, diciamo così, evirata. “Il ruolo sacrale è andato perso, adesso non è più garantito. Te lo devi conquistare sul campo, magari essere un po’ televisivi. Poi, ormai neanche si capisce più come si diventa insegnanti…”. Dice che questa tendenza c’è da una ventina d’anni, da quando lui era ancora un giovane insegnante. “Adesso, appena c’è un problema, l’insegnante viene messo in discussione dai genitori. Se non piace, una loro delegazione va subito dal preside: se non mandi via il professore ritiriamo i nostri figli… C’è sempre più la tendenza della scuola pubblica ad assumere gli atteggiamenti della scuola privata. E a non far mai scontrare i ragazzi con la vita, ad accettare i fallimenti”.
Qualche personale fatica, sempre lì dentro tra le aule dell’ “Albertelli”, tra il grifone impagliato e la foca carnivora, ha da lamentare Andrea Monda, che insegna religione e cura una sua rubrica su Avvenire. Ora, se ogni cosa con difficoltà compete con lo smartphone, figurarsi religione. “Il pregiudizio ci precede”, sorride Monda. Tra gli studenti e pure tra i prof., “non state a sentire il collega, non ha serenità di giudizio, è stato scelto da un vescovo… Più o meno, una spia del Vaticano: il mio voto non fa media, non incide. Io non ho un voto, ho un giudizio”. Dice che c’è il sospetto e a volte il processo verso la “strega cattolica”, pure quando si è trattato di andare a San Pietro dal Papa – più o meno precisare, a qualche atterrito genitore molto laico, e quindi al mondo genitoriale (ahi!) tutto, che andava il prof. in quanto prof. di religione, non andava il prof. in quanto prof. del liceo. Monda scuote la testa, e morde un panino al bar all’angolo: “Insegnare religione vuol dire credere, e non puoi farlo se non credi. Ma è difficile farlo anche quando credi. Ho fatto il corso di abilitazione in Vicariato, ci hanno spiegato: non siete catechisti, ma insegnanti”. E di cosa parlate? “Domande filosofiche e teologiche ne arrivano sempre meno. E complessivamente riflettono il contesto in cui vivono. E allora, il gusto della provocazione: la ricchezza della chiesa, le nozze gay… Lo sento, il pregiudizio su di me. Così spesso non rispondo apposta, spesso loro vanno in bestia perché sono ormai abituati ad avere sempre le risposte. E sempre si aspettano la risposta che già sanno. Per poi dirmi: eh, certo, lei è amico del vescovo… Provo a rompere il gioco, a non farmi chiudere nel pregiudizio”. Sono piccoli squali – quelli lì davanti, fiutano il sangue che scorre dalla cattedra, sanno dove è il rischio e dove la quiete. Umanamente opportunisti. O forse no, forse tutto è ancora più complicato. “Noi, come docenti, siamo una generazione un po’ stanca, spompata, spossata, un po’ burocrazia e un po’ ufficio del catasto. I genitori, poi… Loro non sanno dire di no, ma se lo diciamo noi arrivano arrabbiati. E’ paradossale…”. E la Mazzucco? Il panino del prof. Monda è finito. L’acqua pure. Caffè. “Non ci siamo mai arrivati, alla Mazzucco. Il gusto di essere sempre all’avanguardia, mi sembra di vedere un basso livello di noi insegnanti. Tutti i colleghi si riempiono la bocca: uguaglianza! Mai discriminazione! Tutti i diritti! Libertà di insegnamento! Ma dovremmo preoccuparci un po’ meno della norma e offrire più bellezza”.
Un’altra scuola, all’altro capo di Roma. Borgata La Rustica. Istituto Tecnico per il Turismo “Livia Bottardi” – qui fu girato il film “La scuola”, quello tratto dai libri di Domenico Starnone, che qui ha insegnato: la sala professori come ultima ridotta nell’incertezza che tutto circonda, la Fort Alamo che difende e imprigiona, la diligenza serrata – minacciose “ombre rosse” tutto intorno. (In uno dei libri di Starnone, “Fuori registro”, c’è il ritratto della professoressa Marotta, dentro questo mondo di scuole superiori “freneticamente immobile”. La prof. Marotta forse non esiste più. Eccola: “Amo molto gli insegnanti come la collega Marotta. In vita loro hanno soltanto insegnato. Di pomeriggio preparano le lezioni sugli stessi libri su cui studiavano da giovani con ottimi risultati. A sera correggono compiti usando gli stessi segnali in rosso e in blu che usava il loro insegnante del liceo. La mattina arrivano sempre puntuali, fanno l’appello, interrogano con metodo partendo un giorno dalla A, un giorno dalla Z, e poi ripetono ad alta voce agli studenti le cose che impararono decenni prima all’università. Hanno poco da spartire con gli insegnanti-architetti, gli insegnanti-ingegneri, gli insegnanti-pubblicisti, gli insegnanti-sindacalisti, gli insegnanti-artisti, gli insegnanti-bottegai, gli insegnanti coi grilli per la testa. Non c’è una virgola in comune tra loro e quelli che arrivano a scuola con auto portentose, il telefono attaccato alla cintola come una rivoltella. La collega Marotta ha visto poco o niente del mondo di fuori, e intanto vede sempre più cose dentro il suo cassetto…”. Gli altri, tutto del mondo vedono – credono di vedere – ma intanto “questi colleghi nel loro cassetto non vedono niente di niente. A volte non vedono nemmeno i loro allievi”).
Al “Livia Bottardi” insegna Fernando Battista. Dal 2000 insegnante di sostegno. “Sostegno a ragazzi ‘con abilità speciali’, ragazzi ‘diversamente abili’: cambiano sempre i nomi, non la sostanza che sta dietro al cambiamento dei nomi”. Madre, sorella, fratello – tutti insegnanti, in famiglia. Lui ha fatto volontariato pure a Calcutta, ha la passione per la danza (meglio: danzaterapia) che a volte ha incrociato, quando possibile, anche il suo lavoro di insegnante. Passione nata a sedici anni, e pure quando faceva il militare “nascondevo in caserma le cose da danza, e facevo lezione nelle ore di libera uscita”. Ha avuto, quest’anno, anche un gruppo di rifugiati politici. “Relazionarsi con il corpo, l’apertura verso i diversi, la tolleranza verso i diversi”. E’ un punto di vista un po’ particolare, quello del prof. Battista. “Non si può pensare a un insegnante che non sia anche pedagogo, un po’ come un danzatore bravissimo nella tecnica che però non comunica nulla”. Ma al Turistico di La Rustica, come allo Scientifico con elegante mattonellato del centro storico, poco cambia. “Ruolo dell’insegnante svalutato”, dice il prof. che danza. “I genitori per assicurarsi l’affetto dei figli li difendono sempre a spada tratta, e questo fa perdere autorità a noi professori. Ci succede di dover svolgere anche parte del ruolo della famiglia. Dovrebbero esserci delle regole, ma a casa questi ragazzi fanno quello che gli pare, così a scuola vogliono fare quello che gli pare”. Alzale spalle: “Però gli adolescenti fanno il mestiere di adolescenti. Siamo noi adulti che dovremmo ricominciare a fare quello di adulti”. Certo non è un prof. da bastone, il prof. Battista, non è il professor Aristogitone di Mario Marenco – “quarant’anni di insegnamento nella scuola, quarant’anni di duro lavoro fra questa quattro mura scolastiche!” – pure se rammenta che “a volte serve il bastone”, si dialoga, certo, “se io do attenzione, faccio vedere che mi accorgo di loro, loro di questa attenzione se ne accorgono”, ma lo stesso “non devono avere la pretesa di aver ragione. Bisogna ricordare sempre che di là ci sono degli adolescenti e di qua un adulto. Non devi lasciare il comando a loro, sennò ti fregano”. E soprattutto, “non cadere mai nelle provocazioni, non reagire dando in escandescenza, non diventare inutilmente autoritario. L’unico risultato è che allora, appena possibile, provano a fregarti”. Ed è un po’ quello che spiega, dall’altro capo della città, la prof. Ascoli: “Non devi mai sbottare quando ti arrabbi, mai andare fuori dai binari, metterti a urlare. Vuol dire che la classe l’hai persa. Vuol dire che sono loro i più forti”.
E’ pure un esercizio di tauromachia, tenere per ore, nella minuscola arena dell’aula venticinque o trenta adolescenti che a tutto pensano tranne (spesso) a quello che tu dici dalla cattedra. Sandra Suraci insegna matematica allo Scientifico “Nomentano”. E’ di ruolo dall’84, fa un trentennnio esatto quest’anno. Si sistema sul divano. Il gatto nero e lucido di casa mostra uno scarso interesse, al primo accenno di conversazione vira decisamente verso croccantini e cesta. Disinteresse felino. Prima dello Scientifico, per anni ha insegnato all’Istituto Professionale del Tufello, “dove gli studenti ti mandano a quel paese, e ti ci mandano pure i genitori. Allo Scientifico è diverso: ti vorrebbero mandare a quel paese, ma non lo fanno. I genitori, invece, ti dicono cosa devi fare. Trasmettono ai loro figli il concetto che, siccome ti pago lo stipendio, possono dirti loro cosa fare”. Questa faccenda dei genitori sempre torna a galla – in ogni scuola, pregevole liceo o più sgarrupato professionale, prof. giovane o prof. vecchio, di destra o di sinistra, entusiasta o scoglionato: i bamboccioni dopo la cameretta hanno invaso pure la camera matrimoniale. “Una volta si dava sempre ragione ai professori, adesso sempre ai figli. Persino quando i ragazzi dicono: mamma, ha ragione la prof., non ho studiato… Non hanno capito che stiamo dalla stessa parte. Certo, per fortuna ci sono pure quelli che vogliono che il ragazzo studi bene, ma molti proprio non si rendono conto che il fronte è comune. L’autorevolezza con i ragazzi te la puoi conquistare, ma ai genitori non gliene frega niente. Alcuni ti vedono più o meno come la parrucchiera, come l’estetista: io ti pago, tu mi dai un servizio”. E’ pure uno slalom, quello quotidiano del prof., “essere assertivi senza essere aggressivi” – il filo di lama, la permalosità di ognuno messa alla prova (il prof., l’allievo, il genitore). E perciò, si possono pagare raffiche di ripetizioni, ma per carità, l’estate no: il volo è prenotato, l’albergo pure, non s’intrometta, professore, con le nostre vacanze! Dice la prof. Suraci che ha deciso di diventare insegnante perché alle medie le capitò la fortuna di una prof. completamente pazza, “voglio diventare come lei!”. Pentita mai, magari a volte si sente la stanchezza, fisica anche, “quelli della mia età dovrebbero metterli da un’altra parte, magari in segreteria”, perché appunto di quotidiana tauromachia si tratta, “provo a insegnare matematica ma anche a far crescere i ragazzi”, neanche un attimo ti puoi distrarre – e il mare che ti rumoreggia davanti è sempre di ormoni in crescita, mentre sulla riva della cattedra c’è un maggio-adagio-adagio che s’insinua. “Stare con i ragazzi stanca. Ci sono quelli tra di noi che, negli ultimi anni di insegnamento, entrano in classe aspettando solo che l’ora finisca… Poi, mediamente i professori maschi hanno un altro lavoro: chi fa l’ingegnere, chi l’architetto, chi ha dieci condomini da mandare avanti, per noi donne è diverso…”. Qualche settimana fa, la prof. Suraci è andata a teatro, a vedere “La scuola” – dal libro di Starnone, poi film di Lucchetti, poi di nuovo testo teatrale: la stessa filiera – con Silvio Orlando: quell’aula professori come una cittadella assediata, fare lo scrutinio ed essere scrutinati, prof. che a loro volta assediano se stessi. Ed ecco, calato il sipario: “Gli spettatori non insegnanti uscivano disgustati, per noi è stata una bella sofferenza: ti ci riconosci, ti fa ridere. Certo che quelli che non sono insegnanti non ci si riconoscono, sennò non direbbero la solita cazzata: c’avete tre mesi di ferie…”.
La prof. Maria Grazia Ascoli, con un passato anche all’ufficio stampa della Sellerio, ha almeno l’aggancio salvifico della filosofia. E a volte il “Simposio” di Platone come la “legge morale” di Kant come la metafisica sembrano accendere piccoli fari di attenzione. Pure Nietzsche va forte. “A diciotto anni sono sempre fantastici, comunque. Possono essere insopportabili, ma ti sorprendono sempre. Molto meglio degli adulti. E i prof. sempre più vecchi, più frustrati, più stanchi, più avviliti…”. Ma lo stesso, dice la prof. Ascoli, né con gli studenti ci si deve mostrare deboli, né lei sui suoi colleghi infierisce. “I lavativi tra di noi sono al massimo il cinque per cento. E poi, se non hai un minimo di passione, guarda che è tremendo entrare in una classe. E non è vero che lavoriamo tre ore al giorno, che abbiamo tutti i pomeriggi liberi, che abbiamo tre mesi di vacanza. La maggior parte di noi lavora moltissimo. E magari molti sono avviliti per questo: perché non hai più prestigio sociale, succede spesso quando dici a qualcuno: io insegno, di essere guardata con commiserazione… I genitori stanno col fiato sul collo, ma in fondo, quando li incontro, non mi dispiacciono affatto… Poi, ci sono pure di quelli che hanno voluto comunque che il loro figlio facesse il liceo, perché c’è anche il prestigio, mentre lui avrebbe voluto fare il cuoco o lavorare la terra. Una ragazza voleva fare l’estetista, la madre le ha imposto il liceo: mai l’estetista! E così abbiamo avuto un’alunna infelice invece di un’estetista felice… E comunque fuori li aspetta il nulla, non capiscono che aggancio c’è con quello che gli diciamo… Sono molto più fragili, di quelli che ricordo anni fa. E la nostra condiscendenza di comodo su tutto non li aiuta…”.
 
Sandro Onofri era un insegnante. E uno scrittore. Insegnava a Pomezia, litorale romano. E’ morto a soli 44 anni, nel 1999 – brutta malattia, poi, come si dice. Brutta e ingiusta e fulminante. Nel suo computer trovarono un diario. Parlava della scuola e del suo lavoro di insegnante. Autoritratto – forse pure perfetto ritratto di chissà quanti altri. “Sono disgustato da tutto questo, dagli alunni che pensano a quanto prendono i compagni invece di mettersi con la testa a studiare, dalla mia rassegnazione a fare il minimo indispensabile e niente di più per non perdersi per strada la maggior parte degli studenti, dall’impossibilità sempre più evidente, tutto sommato, di portare dentro scuola la mia vita. E’ ogni giorno più consistente il bagaglio che devo lasciare ogni mattina fuori dal cancello: nessuno dei miei poeti preferiti, nessuno dei miei film, nessuno dei miei musicisti preferiti (…) Entro e porto in classe sempre più la mia maschera, non me stesso. Insegno non il mio sapere, con i suoi limiti ma anche con le sue urgenze, bensì un sapere impersonale, agnostico, ragionevole. Sono non un pedagogo né uno scrittore che insegna ma un professionista dell’educazione, che fa onestamente ma non in maniera brillante – perché non può, non gli interessa – il suo mestiere. Mi guadagno il favore degli studenti non con la simpatia né con la generosità dei giudizi (a questo punto non sono ancora arrivato) ma con una scandalosa volgarizzazione dei contenuti” (Sandro Onofri, “Registro di classe”, Einaudi). Paola Mastrocola è insegnante – lettere in un liceo scientifico a Torino. E scrittrice. Dice (scrive) che un giorno, dopo qualche anno di assenza, è tornata a scuola “e il mio mestiere non c’era più”. “Peccato, perché era un bel mestiere. Non so spiegare con esattezza cosa sia avvenuto; mi dicono che la scuola era vecchia e quindi andava rinnovata, e che per questo si è finalmente avviato un lungo processo di riforme. A me è sembrato un lento e inesorabile movimento verso il basso. Una specie di valanga, una frana, una ‘caduta massi’ che ha prodotto in pochi anni, ai piedi della montagna-scuola, un’enorme e infinita pietraia: la ‘lapedicina’, direbbe Michelangelo. Non so perché adesso mi viene in mente la parola ‘lapedicina’, forse perché è una parola bellissima, di quelle che ti restano appiccicate in testa. Viene da lapis, che vuol dire pietra” (Paola Mastrocola, “La scuola raccontata al mio cane”, Guanda). Traboccano, le aule, di prof. pure scrittori – ché la professione certo aiuta, e magari la contingenza impone qualche forma minima di distrazione, di gratificazione. Così – per non fissare solo l’orizzonte da adunata condominiale, e spesso con lo stesso identico tedio, del Consiglio d’Istituto o di quello di Classe: il romanzo magari di discreto successo o le poesie in dialetto calabrese.
Quasi mai autoconsolatori, i professori che scrivono. Magari qualcuno di vanità pecca – l’arcaico selfie del dettagliato resoconto che segnala il tuo quotidiano impegno sul fronte, contrapposto al più sbrigativo selfie fotografico degli alunni che stringono d’assedio la tua giornata – ma è persino più crudele delle cronache giornalistiche ciò che registrano sulla loro professione.
Alessandro D’Avenia, sul frequentatissimo blog, foto con ammirevoli riccioli biondi, così scrive – dopo il caso Mazzucco al “Giulio Cesare”, pur se “non conosco il libro in questione”: “Denunciateci, cari genitori, ma non per quello che facciamo leggere ai vostri figli, ma per quello che non facciamo leggere loro. Noi insegnanti, frequentatori delle belle lettere a volte rinunciamo alla bellezza. Per questo dovete mandarci in galera. Denunciateci perché non facciamo leggere che una vivisezione de ‘I promessi sposi’ (chi non odia quel romanzo dopo la scuola?). Denunciateci perché non facciamo leggere Dante, perché è difficile, perché tanto non lo capiscono, perché parla troppo di Dio. Denunciateci perché non facciamo leggere i classici per intero ma li facciamo a brani, come in macelleria. Denunciateci perché facciamo credere ai ragazzi che le poesie siano inutili coriandoli…” – insomma, se volete denunciatelo. Sul filo del paradosso procede invece Marco Lodoli, altro prof. e altro scrittore: “Sono i professori la piaga della scuola, rubastipendi senza passione, anacronistici difensori di antichi valori privi di senso. Tutto funzionerebbe a meraviglia, se queste cariatidi superbe fossero più preparate. Il mondo va avanti e loro sempre indietro, gessetto e autobus, Aristotele e Leopardi, giacchetta striminzita e bella ciao…”. E dentro il quadretto neorealista, invece, perigliosamente e coraggiosamente lottano, assicura Lodoli, “con una lancia di legno in mano devono affrontare draghi fiammeggianti”. Perché hanno, i temerari, spiegava su Repubblica oltre dieci anni fa sempre Lodoli, un Grande Nemico davanti – non gli studenti, ma il demone che li infiamma: la Facilità. “La Facilità è la dea che divora i nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita. La Facilità non va certo confusa con la Semplicità, come ben sintetizzava il grande scultore Brancusi, ‘è una complessità risolta’…”.
Erano un’autorità, i prof., sono diventati un enigma. Magari pure a se stessi. Inventarsi/reinventarsi/sopravvivere. Provare ogni giorno a sfondare un muro: chi con la Mazzucco, chi con Platone. Le mani che una volta intimorivano, adesso sono vuote. C’è molto di più nello smartphone che in tutto quello che in un anno intero quella poveretta/quel poveretto dietro la cattedra possono far conoscere/apprezzare. E tutto meno interessante – pare. Pure meno interessante di quello che c’è a casa, comunque. Le mani sono vuote – la lotta è a mani nude. “Guadagnavo di più quando facevo il cameriere o il Babbo Natale nei centri commerciali”, raccontano i prof. Che sono, scrivono gli analisti, circa 770 mila. Qualche anno fa, secondo la Fondazione Agnelli, erano 840 mila – e per dire del groviglio e della matassa, la stessa Fondazione Agnelli, dopo mesi di studio alzava bandiera bianca: “Il numero esatto non lo conosce nessuno”. Far leggere un libro è difficile – lo scarico da Wikipedia quasi automatico. “Se volessimo veramente che i giovani leggessero – ha scritto sul Corriere della Sera Paola Mastrocola – faremmo un’altra scuola, non questa, che li fa tranquillamente uscire a quindici anni incapaci di parlare, scrivere, leggere ad alta voce e capire il senso”. C’è la sensazione, racconta un prof., di custodire solo un ampio infinito parcheggio. Quasi soccorrere, prima che insegnare. Le parole, i numeri, la geometria, la storia, le lingue – però c’è innanzi tutto il versante assistenziale (di “scuola assistenziale” parlava l’articolo sul Corriere): il disabile, l’immigrato, la dispersione scolastica, “i bisogni educativi speciali”, e allora sei un po’ insegnante e un po’ vice qualcos’altro, un po’ psicologo e un po’ amico/a, un po’ complice e un po’ carnefice, un po’ educare e un po’ spiegare: e nelle mani disarmate finisce anche la Mazzucco e l’adolescenziale pompino gay, che ha reso isterici gli ometti selvatici protestatari. Media, media, sempre la media di tutto – il percorso per l’esatta finale mediocrità su tutto. E allora inventare, inventare sempre, per tenersi a galla, per non scomparire tra quei flutti adolescenziali. Il prof. Sorrentino, quando insegnava a Napoli, in certi quartieri, diciamo così, complicati, si ritrovava l’alunno bullo, il teppista in evoluzione che picchiava i compagni, che arroventava con l’accendino la chiave di casa e poi la spiaccicava sul collo del vicino di banco. Come lo tieni fermo, questo, con la monaca di Monza? E perciò: “C., fammi trenta flessioni!”. Al criminale in erba s’illuminava lo sguardo, scattava in piedi sull’attenti: “Subito, professo’!”. Uno, due, tre… ventisei… trenta!”, ed eccolo domato per quella mattina. E il suo primo sguardo grato, tra l’affanno e il sudore, così saliva verso l’intruso oltre la cattedra. Eraldo Affinati, altro prof. scrittore, insegna lingua italiana a studenti stranieri. Ed ecco cosa ha scoperto – la differenza tra questi alunni e gli altri: “Molti di questi ragazzi provengono da civiltà antiche e, anche se talvolta sono analfabeti, hanno nel sangue una tradizione che noi stiamo dimenticando. Certi afghani, di fronte a un testo, sanno concentrarsi in un modo che i loro coetanei europei non conoscono. Vedendo la pazienza certosina con cui studiano l’alfabeto, mi sembra quasi di riconoscere il vecchio studiolo medievale. E mi chiedo se è stato giusto per noi esserci lasciati alle spalle quella serietà applicativa”. E Silvia Avallone, la scrittrice di “Acciaio”, ha annotato sul Corriere della Sera: “Ho visto troppi aspiranti professori con i volti segnati dalla disillusione mollare tutto all’ultimo momento perché ‘così, a questo prezzo, non ne vale la pena’. Non sei nessuno. Non hai più nemmeno un centesimo di quell’autorevolezza che avevano i tuoi insegnanti dieci, vent’anni fa. Sei in graduatoria, sei un supplente. Uno che supplisce a un vuoto pazzesco”.
E appunto “Acciaio” di Silvia Avallone, per esempio, il prof. Piergiorgio Mori – vicepreside all’Istituto Professionale “Giorgio Ambrosoli”, Centocelle, avrebbe voluto dare da leggere ai suoi ragazzi. “Mi sarebbe piaciuto”. Ma ha preferito non farlo. “Anche lì, ci sono pagine con scene, diciamo difficili, di rapporto tra le due protagoniste. Rischiavo magari di mettermi nei guai, senza per questo voler passare da bacchettone. O di offendere la sensibilità di qualcuno. Il libro della Mazzucco? Io non lo avrei scelto. Magari una o due persone potrebbero sollevare scandalo… Farlo leggere a tutti, non so…”. Dice il prof. Mori che ci vuole pazienza – “vedere una lampadina che si accende, in alcuni si semina, in altri no”. Riecco sempre il filo, il bordo, la lama del rasoio: il mutare, piuttosto che lo scandalizzare, allora. Racconta: “Qualche anno fa ho dato a un ragazzo un lavoro sui romanzi di Pasolini. Dopo un po’ mi dice: ‘Professore, non la posso fare quella ricerca su Pasolini, perché ho letto su Wikipedia che era un pedofilo’. ‘Prova a studiarlo, non lo era’, dico io. Dopo qualche giorno mi arriva un suo biglietto: ‘Anche se Pasolini faceva cose odiose, era un grande poeta”. E tre anni dopo, insieme alla sua ragazza, mi ha invitato alla mostra su Pasolini al Palazzo delle Esposizioni…”. E perciò, più che impazienza il prof. Mori la pazienza invoca, “i risultati si vedono a lungo termine, quando sono cresciuti, quando sono diventati adulti, magari tu non li vedrai mai. Come su un astronave, immagini il paese che verrà”. Lavorava alla Telecom, il prof. Mori. Il famoso concorsone del Duemila – che è come epica, nel racconto di molti insegnanti, sorta di saga di Gilgamesh da tramandare nei decenni dei patimenti successivi – fa quasi per caso, spinto dagli amici. Vince. Passa dietro la cattedra. “Mai pentito. Il lavoro più bello del mondo. Tranne un giorno, quando ricevi lo stipendio: deprimente”. E’ vero, dice, si pensa più agli insegnanti che ai ragazzi, nell’organizzazione sindacale che la vita (e la lotta) dei prof. sovrintende, “una specie di ammortizzatore sociale, tanti lavorano così”. Dice pure: “L’altra tragedia è la burocrazia, il microlinguaggio settario, il festival della 104. Viviamo ormai nel terrore delle querele, in classe e soprattutto durante le gite. Lo dicessero, se vogliono consegnare la scuola in mano agli avvocati… Mica sono cambiati tanto, i ragazzi. E’ cambiato il mondo intorno a loro. E la scuola è vista come un grande parcheggio. Jean Vilar, che fu praticamente l’ideatore del Festival di Avignone, diceva: ‘Dateci una buona società e vi daremo un buon teatro’. Ecco, possiamo dire: dateci una buona società e vi daremo una buona scuola”.
Che figurarsi, poi, lo studiolo medievale da Tommaso d’Aquino – mentre Facebook reclama, WhatsApp pretende, lo smartphone tutto sovrintende… Appunto Lodoli, nel suo “Il rosso e il blu” (i colori dell’antica autorità andata in disarmo, che maneggiava la prof. Marotta di Starnone nei suoi tediosi, eroici pomeriggi), fa questo illuminante racconto: “Un giorno ho detto in classe: ‘Scrivete sul quaderno questi titoli di romanzi, per chi quest’estate avesse voglia di leggere qualcosa di interessante’, e quasi tutti i miei alunni hanno preso il telefonino. “Dico, scrivete questi titoli”, e una simpatica ragazza di Tor Bella Monaca ha replicato seria seria: “Li sto scrivendo sul cellulare così stanno al sicuro”. Consiglia questo, la prof. Ascoli: “Macché letture d’estate. Al massimo, dico loro se vogliono leggere qualcosa di classico: Platone, le tragedie greche… Ecco, le tragedie greche: tutto il resto che viene è già stato detto…”. Al prof./sassofonista Sorrentino (per dire di come e quanto salvare il salvabile sia difficile, e della vastità di quello che la scuola assedia), capitò che, quando stava a Napoli: a) non aveva il televisore; b) voleva preparare una lezione su Costantino, sull’ultima parte dell’impero romano. “Andai alla Feltrinelli di Napoli. ‘Scusi, vorrei una biografia di Costantino’. ‘Ecco’, e mi diedero un libro con la foto di un tizio in copertina. ‘E chi è questo?’. ‘Costantino’. ‘Mah, io veramente cercavo l’imperatore’. ‘Ah, scusi… Tutti chiedono questo Costantino, appena arrivato’. ‘E l’imperatore Costantino?’. ‘Ah, lo trova al piano di sotto’. Costantino Vitagliano, quello di ‘Uomini e donne’ stava sopra, Costantino l’imperatore stava nel sottoscala…”. Perciò, non appena il prof. Sorrentino in aula apre bocca e cita Costantino, quale dei due – quello in piena vetrina o quello nel sottoscala – avrà mai raggiunto l’immaginazione dei ragazzi (di allora, però, ché già adesso il Costantino televisivo trionfante pare antico come quello imperiale)? Meglio il jazz.
Curioso paradosso: tanto scarsa la considerazione sociale, tanto poca la residua autorevolezza, tanto carente la soddisfazione personale, eppure il prof. è personaggio mediatico di primo piano. Almeno in televisione. Tra le fiction di maggior successo, ecco appunto “Provaci ancora prof” e “Fuoriclasse”. La prima serie con Veronica Pivetti (prof. Camilla Baudino, ispirata al personaggio di Margherita Oggero, altra prof./scrittrice, versante thriller), la seconda con Luciana Littizzetto (prof. Isa Passamaglia, ispirata ai racconti di Domenico Starnone, versante cuore di mamma). Il genere è sempre quello: prof. bruttina ma tanto sensibile, di mezza età ma di vivace intelligenza, materna eppure ferma. La prof. ideale, insomma. La prof. Baudino, di suo, è più portata agli intrighi gialli – tutto un affollarsi di cadaveri, di morti ammazzati, una vita costellata più di assassini che di rime petrarchesche; la prof. Passamaglia, sempre di suo, è più portata al sollecito intervento verso i pargoli in dotazione – spinelli, scompensi ormonali, giovanili cazzate. Intorno a loro, la vispa scuola italica: presidi matti, colleghe femmine in depressione, colleghi maschi piacenti ma purtroppo gay, mariti sospesi tra comprensione e stronzaggine. Qualche amorazzo qua e là – ma rispetto alle impennate della Mazzucco, quasi edificanti carmelitane. Le attrici protagoniste sono brave, le serie non sono male: se non s’innalza la qualità della scuola almeno s’impenna quello dello share. Piace il prof. – virtuale, però, piace. Come Costantino.
Massimo Recalcati è psicoanalista. Lacaniano. Scrive sui meglio giornali (Repubblica). Partecipa ai meglio festival (della Mente). Appare nelle meglio trasmissioni – sotto la libreria pensosa di Concita De Gregorio nel “Pane quotidiano” (a proposito: ma com’è prof. la Concita! Anzi preside, perlomeno, di quelle da temere!), nel non meno pensoso studio di Fabio Fazio. Capello sapientemente scomposto, giacca blu professorale, occhiali adeguati, barba di un paio di giorni – che uno lo vede e dice: lo psicanalista! Scrive cose appropriate, il prof. Recalcati, per esempio sull’illusione (così la definisce) dell’insegnante-psicologo, dopo averne sentito un degno rappresentante di un liceo vantarsi del fatto di scansare da parte i programmi ministeriali “per dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi raccogliendo le loro confidenze più personali”. Matita rossa – saggia matita rossa – da parte dello psicanalista (a tali faccende espressamente addetto) su Repubblica: “Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com’è noto, i programmi didattici si disinteressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni insegnante – lascia il posto a una supplenza diretta del mestiere del genitore. Mentre l’informatizzazione cognitiva della scuola esalta un sapere senza vita, questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare una vita senza sapere”. In una nuova transumanza da Fazio, ha poi difeso i prof. che hanno proposto la Mazzucco in classe (quella pagina della Mazzucco: pure Fazio, diligentemente, ne ha evitato la lettura al pubblico addottorato di Rai Tre), “hanno fatto il loro lavoro, portato gli allievi verso la lettura, verso la letteratura”, ma soprattutto ha dato precisa, e sorprendente, indicazione su come indirizzare il lavoro in classe: “Trasformare gli oggetti del sapere, tutti gli oggetti del sapere, da una poesia a un teorema di matematica, in corpi erotici che catturano il desiderio degli allievi. Questo è il lavoro degli insegnanti”. Pure questo?
Si capisce che il prof. un po’ si perda – dover trovare una punta di erotismo non tanto in Carducci, magari col soccorso dell’aspro odor dei vini si fa, ma pure nella successione di Fibonacci o nel triangolo isoscele, ecco, come si procede? L’apposita circolare c’è? Che dice? Però almeno un prof., alla fine, magari quarant’anni dopo, lo ricorderemo. Perché era molto bravo. O perché era molto stronzo. Perché eravamo molto giovani – e davanti al prof. (malinconico) sempre tutti hanno (abbiamo) diciotto anni. Tutti ricordano. Magari male. Come quel ministro democristiano, al quale un giorno, si favoleggia, in un ristorante torinese, presentarono Norberto Bobbio. “Ministro, il professor Bobbio…”. E quello, allungando la mano: “Molto piacere, professore. E, mi dica, in quale liceo insegna?”. Bobbio precisò. Seccato. Peccato. Per la gloria del liceo – e dei suoi prof.
 
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