EDUCAZIONE/
IlSussidiario.net - Pubblicato il 23/06/2008
In occasione della terza prova scritta di maturità per 500mila studenti italiani, ilsussidiario.net ha intervistato Paolo Sanna,
Come è nata l'idea di fare una scuola, e cosa vuol dire educare per un insegnante che si trova a lavorare in quel contesto sociale?
L'idea di fare una scuola è nata nel 2004 (e realizzata poi nel 2005) da un gruppo di insegnanti con i quali riflettevamo già da alcuni anni sul valore dell'educazione e che insegnavano in scuole statali o private di Nairobi. L'idea era di realizzare una scuola in cui questo desiderio di comunicare ciò che per noi è importante anche dal punto di vista umano potesse trovare un luogo adeguato. Sarebbe stato innanzitutto un luogo di crescita per noi insegnanti. Quindi il realizzare una scuola che creasse un contesto educativo di un certo tipo era innanzitutto un'esigenza nostra: non siamo partiti da una analisi sociologica, ma da questo desiderio.
Quali sono le differenze tra aprire una scuola in Kenya e aprirne una in Italia?
La differenza principale non è di tipo amministrativo o didattico, ma sta negli studenti. In Kenya solo poco più del 50% di quelli che finiscono la scuola primaria approda poi a quella secondaria. Perciò raggiungere la scuola secondaria viene visto come una grande opportunità e addirittura in molti casi come un vero e proprio privilegio. Io come insegnante ho notato che gli studenti sono motivati e hanno il desiderio di lavorare e di impegnarsi, anche perchè dal risultato scolastico della scuola secondaria dipende poi quella che sarà la loro possibilità di lavoro successiva, perchè l'accesso all'università è determinato in base ai risultati della scuola secondaria.
In questo quadro molto selettivo, nel contesto di una società povera e arretrata, qual è il compito principale di un insegnante?
Qui come in ogni altra scuola del mondo, il problema dell'intervento educativo su un ragazzo è che c'è il rischio di ridurre la propria missione a un "addestramento" all'esame, e credo addirittura che sia un rischio che si avverte più qui che non in Italia. In realtà, il problema principale è riuscire ad aiutare la persona nella scoperta di se stessa. L'esame è un momento, certo fondamentale, e qui lo è davvero, ma l'obiettivo non è questo.
Cosa significa aiutare uno studente a scoprire se stesso in Kenya?
Significa innanzitutto rimuovere due grandi impedimenti. Il primo è la mentalità assistenzialistica. Ad esempio, circa il 50% dei nostri ragazzi arriva mandato da una serie di Ong che operano negli slum, le baraccopoli della città di Nairobi: sono abituati ad essere assistiti, molti hanno ormai acquisito questa forma mentis. Se hanno un bisogno, qualcuno deve soddisfarlo. Qui imparano che non è così. Li aiutiamo a scoprire che la prima risorsa per rispondere al bisogno sono loro stessi, con i loro desideri e le loro capacità. L'altro grande scoglio è l'individualismo. La possibilità invece di imparare a lavorare insieme, di aiutarsi reciprocamente vedendo nell'altro studente non un avversario da battere, ma come qualcuno con cui si sta condividendo del tempo, con cui è possibile un rapporto. Due episodi mi sembrano significativi: all’inizio dell’anno, durante il momento degli scontri più accesi in seguito ai contestati risultati elettorali, negli slum si era accentuata la divisione fra i diversi gruppi etnici, per cui era molto difficile per chi apparteneva ad una certa tribù passare nella zona abitata e controllata da un’altra tribù. I nostri studenti aspettavano i compagni di altre tribù per attraversare le zone pericolose. Un secondo episodio: la nostra scuola sorge alla periferia di Nairobi e dista oltre
Qual è la missione educativa di un insegnante nella vostra scuola? È diversa da quella di un insegnante in Italia?
Non credo sia diversa, si tratta di accettare la sfida di crescere insieme ai ragazzi.
Ci descrive come affrontano i suoi studenti la vita all'interno della scuola?
Anzitutto con la consapevolezza di quel che dicevamo prima, cioè di essere inseriti in un contesto che per quasi tutti i propri amici o coetanei è proibito. Vivono quindi tutto con grande impegno, le faccio un esempio: nella nostra scuola anche ai borsisti è chiesto un piccolo contributo agli studi, anche proprio per una educazione alla responsabilità nei confronti dell'istituzione scolastica. Alcuni, che magari provengono da una famiglia particolarmente disagiata, e sono un po' grandicelli (parlo del nostro quarto anno, quindi 18 o 19 anni) il sabato e la domenica vanno a lavorare per poter pagare questo minimo contributo richiesto alla famiglia.
L'esame di maturità (di cui oggi In Italia si svolge la terza prova scritta) per molti studenti italiani segna solo un "contrattempo" prima delle vacanze estive. Cosa vuol dire "maturità" per un studente della vostra scuola?
Qui l'esame è più sentito: come dicevo è realmente determinante per il futuro dello studente per cui gli esami finali (che saranno a novembre) stanno già catalizzando tutta l'attenzione e l'impegno. Il problema del superamento dell'esame è qui una questione di sopravvivenza vera e propria e non separa dalle vacanze, ma dalla possibilità di una vita più o meno dignitosa da un punto di vista economico. Dal voto dipenderà se riusciranno ad andare all'università (cosa che riesce solo al 10-12%) o comunque per accedere a uno dei corsi professionalizzanti successivi alla scuola secondaria. Anche questi corsi triennali, indispensabili per accedere al mondo del lavoro, hanno un accesso rigidissimo e dipendente dal voto ottenuto alla fine dell'esame di maturità. Quindi è una questione di sopravvivenza. Ma quello che fa la differenza a livello di maturità è che gli anni passati insieme ai propri compagni possono anche in questo contesto così violentemente competitivo essere un patrimonio a livello umano. La sfida è la ricostruzione dei rapporti, visto che il Kenya è una società comunque basata su una forte appartenenza tribale: costruire rapporto con i propri compagni vuol spesso dire farlo con persone di provenienza diversa, vuol dire superare un individualismo strutturale in questa società. La sfida è imparare a vedere l'altro come una risorsa "per me" a livello umano, e questo si capisce alzando lo sguardo al di sopra della circostanza dell'esame.
Questa è una sfida su cui ci siamo sentiti di provocare i nostri ragazzi e che per alcuni ha segnato un cambiamento.
La scuola secondaria “Cardinal Otunga” sorge alla periferia nord di Nairobi.
Nel corrente anno scolastico è frequentata da oltre 100 alunni ripartiti nelle quattro classi del corso di istruzione secondaria previste nell’ordinamento keniano. La scuola è ospitata, da gennaio, in un nuovo edificio di 750 mq, costruito grazie a fondi privati e pubblici messi a disposizione dall’Avsi. L’edificio può ospitare due sezioni di quattro classi ciascuna, un laboratorio di Chimica e Fisica, una sala utilizzata come mensa e sala riunioni, una sala professori e gli uffici.
Gli alunni, della fascia di età tra i 14 e i 19 anni, provengono da differenti ambienti sociali e appartengono a differenti tribu. Circa il 50% degli alunni, meritevoli e provenienti da situazioni familiari disagiate, possono frequentare la scuola grazie ad un programma di borse di studio.
Tutti gli insegnanti e il Preside sono keniani. Nel corrente anno scolastico due italiani collaborano alla scuola insegnando rispettivamente “Matematica e Fisca” e “Storia”. La scuola e’ intitolata al Card. Maurice Otunga, che è stato Arcivescovo di Nairobi e che ha sempre mostrato una viva preoccupazione per l’educazione dei giovani. Il Card. Otunga è morto nel 2003.
La scuola è nata da un gruppo di insegnanti e genitori, uniti dal desiderio di costruire un luogo in cui fosse possibile una reale crescita umana sia degli insegnanti e che degli studenti.