DibattitoRiordino/Come avviare il tema delle competenze


Ci proponiamo di arricchire il lavoro di ricerca ed elaborazione a scuola sull’avvio applicativo dei Regolamenti di Riordino del II Ciclo, assumendo come riferimento le ipotesi lanciate dai comunicati e dalla valutazioni che DiSAL ha proposto. Secondo noi la vera grande occasione che è possibile cogliere negli Istituzioni Scolastiche non si colloca innanzitutto nei vari conteggi attorno alle modifiche del quadro orario, quanto invece nel rinnovamento della didattica, cominciando dalla riflessione ed applicazione critica del tema delle competenze.

Alla ricerca di interessanti spunti per questo, iniziamo a pubblicare contributi che riteniamo culturalmente significativi o provocanti nei confronti della grave crisi della scuola secondaria superiore, specie dei Licei che con Riordino hanno visto ben poche novità e rischiano di restare scuole immobili. (DiSAL)

 

 

da Il Sole 24 ORE -  7 aprile 2010
Più che sapere, saper imparare
di Andrea Casalegno
La scuola dell'obbligo deve insegnare "conoscenze" o "competenze"? La domanda apparentemente è astratta, ma dalla risposta discendono conseguenze concrete, perché ne dipendono i contenuti e i metodi dell'insegnamento. Fino a pochi decenni or sono era considerato ovvio che la scuola dovesse impartire nozioni. Ma oggi il mondo è cambiato. Si constata sempre più spesso che le conoscenze non servono a chi non è in grado di usarle per risolvere problemi nuovi. E sono soprattutto le imprese a insistere sulla svolta.
«Oggi le imprese non sono più disposte a insegnare il mestiere per anni, si aspettano piena efficienza sin dal primo giorno di lavoro. E i lavori cambiano: non sono più uno o due nell'arco della vita ma 10-15, e saranno sempre di più. Non serve "sapere" ma "saper imparare"». Chi parla è Charles Fadel, responsabile Global Education della Cisco, autore del best seller XXI Century Skills e cofondatore del P21 (Partnership for XXI Century Skills): un gruppo che comprende 40 fra grandi aziende e altri enti, e che ha convinto 14 stati Usa, tra cui il Massachusetts, ad adottare il proprio progetto educativo. Il presidente Obama ha proclamato che «nel XXI secolo le abilità fondamentali saranno il pensiero critico, l'intraprendenza e la creatività». Per svilupparle la scuola dovrà insegnare in modo nuovo.
La produttività degli individui dipenderà sempre più dalla capacità di adattarsi, innovare, lavorare in gruppo, pensare in modo critico. «Se un dottore di ricerca cinese costa cinque volte meno di un europeo o un americano – continua Fadel – quest'ultimo dovrà essere cinque volte più produttivo, o finirà fuori mercato». È questa la premessa della svolta pedagogica «dalle conoscenze alle competenze», cioè a un sapere conquistato in modo attivo attraverso la soluzione di problemi tratti dalla vita reale. «Attenzione però – sottolinea Fadel –: non bisogna contrapporre conoscenze a competenze, bensì sviluppare le seconde dalle prime». L'insegnamento di base non va abbandonato, va potenziato. Restano validi gli obiettivi tradizionali: ridurre l'abbandono scolastico, accrescere il numero dei laureati, rafforzare le conoscenze nelle lingue, in matematica, scienze, storia, educazione civica.
A questi temi è dedicato il seminario che si tiene oggi a Roma alla Luiss, organizzato dalla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo e da Treellle. «Oggi gli studenti – conclude Fadel – vogliono "imparare facendo". Già Confucio diceva, 500 anni prima di Cristo: se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio comprendo». È ora che la scuola italiana lo ascolti.

 

 

Sapere o saper fare? Senza competenze non si impara nulla

IlSussidiario.net  -  Tiziana Pedrizzi -  giovedì 1 aprile 2010

Il Regolamento dei Licei ha il pregio di una ragionevole ristrutturazione degli indirizzi esistenti e della riduzione dello sventagliamento di materie. Su ciò si è appuntata l’attenzione, mentre meno riconosciuto è il pregio di introdurre modalità aggiornate di determinazione dei contenuti della scuola. Presente nella identica formulazione in tutti i Regolamenti, anche per i Licei l’art 10 infatti così recita “…i risultati di apprendimento sono declinati in conoscenze, abilità e competenze in relazione alle Raccomandazioni del Parlamento Europeo… sulla costituzione del Quadro Europeo delle Qualifiche per l’Apprendimento Permanente (EQF)…”.

E’ un’indicazione per certi versi preziosa, per altri obbligata. Ma intenderla in senso meramente strumentale sembra poco accorto. E’ vero che la ragione fondante di EQF è quella di permettere il riconoscimento reciproco fra i paesi europei dei loro titoli di studio e perciò la mobilità delle persone. L’Unione Europea non ha le competenze istituzionali per proporre una nuova pedagogia. Ma sembra difficile pensare a dichiarazioni trasparenti di competenza, senza una corrispondenza con ciò che è stato fatto nelle aule.

E se non è previsto un indirizzo istituzionale ragionevolmente omogeneo intorno alle competenze da raggiungere, ma solo intorno alle conoscenze su cui basarle, come sarà possibile fare dichiarazioni che non siano “aria fritta”? Se il passaggio dalle conoscenze alle competenze avverrà solo a carico della singola scuola, del singolo docente o addirittura del singolo studente come evitare che non se ne faccia nulla? Oppure che, nel migliore dei casi, ognuno vada per la sua strada?

C’è anche da dire che i bisogni della struttura economica, di cui si fa interprete in questo caso il EQF, sono singolarmente convergenti con le riflessioni pedagogiche e didattiche degli ultimi tempi, nella valorizzazione del concetto di competenza. Che per certi versi riscoprono l’ovvio, cioè che si studia con un fine formativo; diversamente non si studia e non si impara. Che è ciò che sta avvenendo anche nei nostri Licei (vogliamo fare una indagine sull’apprendimento del latino?).

Sarebbe ardito affermare che l’abbassamento dei livelli di apprendimento dei liceali – che sono poi quelli che non sanno scrivere le tesi, perché gli studenti che escono dai professionali e dai tecnici arrivano decimati alla meta della tesi - sia dovuto ad un dilagare della “pedagogia delle competenze”. Si tratta invece evidentemente di uno scadimento della impostazione esclusivamente per conoscenze, che non ha più gli strumenti sociali per essere convincente. Punto di partenza comune dovrebbe essere, per evitare la guerra fra guelfi e ghibellini, la convinzione che se, da un lato, non si danno competenze, se non in riferimento ad abilità e conoscenze, dall’altro solo l’acquisizione della competenza costituisce il vero oggetto dei processi di apprendimento.

Perciò da dove bisogna partire: dalle conoscenze o dalle competenze? Domanda importante, che cela un problema tutt’altro che risolto. Innanzi tutto – si è detto sopra - sarebbe utile accettare che i due capi del filo debbano ambedue essere definiti, per permettere un avanti-indietro efficace. Ma le aree disciplinari debbono essere necessariamente proposte secondo i loro statuti interni di carattere logico o addirittura cronologico oppure si potrebbe sceglierne la parti da trattare, in relazione alla loro utilità nel fondare le diverse competenze, che a questo punto costituirebbero le scelte prioritarie?

Sembra un’ipotesi lontana dalle storicistiche aule italiane, ma che non porterebbe necessariamente all’annichilimento delle conoscenze, anzi forse ne potrebbe costituire la palingenesi. Ricordiamo che in altri Paesi europei, come la Francia, la trattazione per problemi da sempre praticata non sembra avere abbassato il livello degli apprendimenti. In un momento in cui dilaga il discorso sui “nativi digitali” un’impostazione di questo genere sarebbe forse più vicina a modalità di apprendimento possibili. Non può costituire un ostacolo il fatto che la generazione che oggi si trova a prendere decisioni in proposito sia stata personalmente formata secondo parametri rigidamente sequenziali.

Le Indicazioni proposte per i Licei proposte sembrano impegnarsi in un’embrionale delineazione di finalità formative solo in sede di definizione dei profili. Sembra mancare invece, nei testi relativi alle diverse partizioni temporali, il ponte di una definizione di competenze reali, mentre è molto frequente trovarsi di fronte un mero e discutibile - anche perché molto datato - elenco di argomenti. Va dato per scontato che la dimensione ridotta, che tutti hanno apprezzato insieme al linguaggio non iniziatico, non poteva consentire una reale applicazione dell’art 10 sopra citato. Ci si aspetta però che un impasto delle tre categorie dell’EQF faccia da punto di riferimento ad ulteriori necessari sviluppi.

Il lavoro da farsi per applicare davvero l’art 10 è tutt’altro che semplice, come dimostra l’esperienza di chi ha già percorso questa strada. Si licet magna componere parvis (sic), un’esperienza anticipatoria è stata quella relativa alla determinazione degli Obiettivi Specifici di Apprendimento dei percorsi triennali di Istruzione e Formazione Professionale lombardi, deliberati nell’aprile 2007. Con un significativo anticipo rispetto agli Assi Culturali all’Obbligo del Ministro Fioroni e degli attuali Regolamenti, era stato scelto come modello, all’interno del quale collocare gli esiti formativi attesi, proprio quello stesso dell’EQF, allora ancora in attesa di approvazione definitiva.

Oggi, dal punto di vista normativo, quegli OSA sono stati in parte superati dall’assunzione di Standard Minimi Nazionali, ma rimangono come un primo esempio metodologico. Questa elaborazione è stata effettuata in Lombardia da Gruppi di lavoro aggregati per aree disciplinari, che hanno lavorato per parecchi mesi. Un lavoro lungo e problematico, da cui trarre alcune riflessioni altrettanto problematiche sui nodi essenziali.

Definire per le diverse aree disciplinari delle competenze non generiche e non fumose, ma al contempo non troppo limitatamente operative, richiede un equilibrio difficile. Soprattutto il problema è quello di non scrivere libri dei sogni: elenchi interminabili e non controllabili con realistici strumenti di valutazione. Scegliere le conoscenze richiede una dolorosa capacità di rinuncia, oltre che un minimo di aggiornamento scientifico. Le scelte non dovrebbero avere come unico punto di riferimento i canoni interni delle discipline, ma anche le capacità formative dei diversi temi. E’ il caso di sottolineare che non si tratta solo di riprodurre passivamente le conoscenze stesse, ma anche di farne il materiale per l’esercizio delle abilità in relazione alle loro caratteristiche.

Le abilità equivalgono sostanzialmente a quelli che a livello internazionale vengono definiti come skills ed hanno forti assonanze con le abilità trasversali o le competenze di cittadinanza. Qui il problema è quello di individuare il corretto legame con le conoscenze da sviluppare e considerarle anche in parte come una articolazione ed una premessa alle competenze. Un rapporto flessibile di interrelazione deve comprendere varie combinazioni reciproche tra abilità e conoscenze e tra queste e la competenza da attendersi. Ad esempio ci sono conoscenze che si prestano al consolidarsi di alcune competenze ed abilità.

Il lavoro in particolare è reso difficile dalla grave carenza di riflessioni teoriche concrete in proposito, oltre che di rielaborazioni interessanti di esperienze operative in questo campo.

 

 

Ribolzi: i licei? Per favore non dividiamoci in guelfi e ghibellini

IlSussidiario.net  -  Luisa Ribolzi -  lunedì 29 marzo 2010

Quando mi si chiede di esprimere un parere sulle varie indicazioni relative alla riforma dei cicli, devo sempre superare una certa riluttanza a rispondere. Cinque ministri fa, sono stata coinvolta nel lavoro della Commissione dei Saggi che elaborarono le linee dei saperi essenziali, e ne porto ancora le cicatrici. Qual è allora il mio personale parere su queste prime Indicazioni, che per la stesura definitiva terranno conto degli esiti di un’ampia consultazione, che nel caso nostro diede origine a due ponderosi volumi che quasi nessuno lesse?

I tre criteri guida indicati da Giorgio Chiosso (la valorizzazione dell’autonomia, la responsabilizzazione degli insegnanti, il processo di crescita della persona come obiettivo della scuola) mi trovano d’accordo, ma richiedono provvedimenti tempestivi e diffusi in termini di formazione iniziale e in servizio, contratto di lavoro, finanziamento delle scuole, sistema di valutazione. A oggi e senza aiuto, secondo me, non più del 20 per cento delle scuole secondarie è in grado di attuare pienamente la progettazione autonoma delle azioni educative che “traducono i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalle Indicazioni”.

Mi sembra positiva la deliberata scelta di un linguaggio piano e comprensibile, anche se a tratti la semplificazione sfocia in un eccesso di genericità, soprattutto nell’indicazione degli obiettivi specifici dei singoli licei, e restano non poche tracce del buon vecchio programma prescrittivo. Il desiderio di costruire un percorso coerente collegando la scuola secondaria con quel che sta prima e dopo mi pare lodevole, ma andrebbe riproposta, come negli istituti tecnici, una progettazione sui quattro assi previsti per la scuola di base.

Vedo tre elementi di possibile debolezza nelle indicazioni:

1. al di là delle affermazioni di principio, ancora una volta si trascura l’unitarietà del processo di insegnamento /apprendimento, e si oppone all’eccesso di valorizzazione dell’apprendimento un recupero, abbastanza tradizionale, delle tematiche legate all’insegnamento, e per di più un insegnamento tutto centrato sulla dimensione cognitiva, ignorando le acquisizioni più recenti delle scienze educative.

2. I licei (ma anche gli istituti tecnici, in misura di poco minore), non tengono conto delle profonde trasformazioni che le tecnologie hanno portato in questo processo, modificando in modo radicale e probabilmente irreversibile gli ambienti di apprendimento. Pare evidente che oggi il modo e i luoghi in cui i ragazzi imparano non sono più quelli della mia generazione, ma nemmeno quelli della generazione dei quarantenni, che pratica gli ambienti mediali ma non ci è cresciuta dentro. Questo non significa abdicare al rapporto educativo in favore della LIM (lavagna multimediale interattiva, ndr): possiamo trasmettere contenuti del tutto tradizionali in modo del tutto tradizionale, ma dobbiamo tenere conto che il mondo in cui vivono i ragazzi a cui li trasmettiamo è cambiato irreversibilmente.

3. Da ultimo, mi pare che l’attenzione ai contenuti abbia penalizzato troppo il tema delle competenze, che sta certamente diventando una specie di coperta lunga buona a tutti gli usi, ma non può essere ridotto né ad una formuletta che ne sottolinea solo gli aspetti operativizzati, né ad una pur necessaria elaborazione personale successiva alle conoscenze. A livello europeo, è su questo che si fanno i confronti, e nel nostro paese gli istituti tecnici sono tutti centrati su di una progettazione per competenze: non mi pare possibile immaginare una maggiore integrazione fra indirizzi se si esclude questo fondamentale elemento. C’è una certa confusione fra conoscenze, abilità e competenze, con una visione riduttiva che vede queste ultime come estranee ad una cultura “alta” (si veda la riduzione, negativa, dei laboratori).

Infine, vorrei esprimere una personale preoccupazione: mi pare che la riforma stia costituendo un’ulteriore occasione per l’implacabile tendenza degli italiani a dividersi in guelfi e ghibellini, in questo caso fra  sostenitori del Contenuto e fautori del Metodo, quasi fossero due partiti politici o due squadre sportive, e non due componenti irrinunciabili tra cui cercare un equilibrio. Sarei piuttosto d’accordo con Diane Ravitch, una politologa americana, secondo cui “abbiamo dimenticato che una persona non può pensare criticamente, se non ha nulla intorno a cui pensare, paragonando e sintetizzando quello che ha imparato”.

 

 

Chiosso: meno Stato, più autonomia e più sapere, così cambiano i licei

IlSussidiario.net  -  Intervista a Giorgio Chiosso  -  giovedì 18 marzo 2010

Sono state rese note le Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento per i licei. Ora si apre la discussione con il mondo della scuola: un confronto ad ampio raggio che coinvolge scuole, associazioni, accademie e enti di ricerca. Giorgio Chiosso, pedagogista e docente all’Università di Torino, fa parte del gruppo tecnico di lavoro che lunedì ha consegnato le Indicazioni al ministro Gelmini.

Professore, quali sono i criteri che hanno fatto da guida al vostro lavoro?

Penso di poter dire che il principale criterio che ha orientato la stesura delle Indicazioni è stato quello della coerenza con il principio dell’autonomia delle scuole. È un aspetto finora poco sottolineato da quanti in questi giorni hanno commentato i documenti provvisori resi noti dal Ministero. Questa è la scelta e al tempo stesso la novità strategica delle Indicazioni. Non più i Programmi prescrittivi dall’A alla Z secondo una pedagogia ministeriale che, nel trascorrere delle stagioni politiche, è di volta in volta cambiata, ma la semplice indicazione di ciò che non si può non insegnare e non sapere per essere un cittadino italiano ed europeo consapevole.

Detta così sembra semplice. Lo Stato ha fatto «marcia indietro»?

Lo Stato non ha una sua pedagogia. Spetta alle scuole tradurre in processi di apprendimento e in azioni educative i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalla Indicazioni. È su questa base che ogni studente è tenuto ad acquisire le proprie conoscenze e a maturare le competenze personali. Dico competenze personali perché le competenze non possono essere definite una volta per tutte, ma rappresentano una laboriosa conquista personale rispetto alle conoscenze acquisite.

Questo per quanto riguarda l’autonomia. E poi?

Il secondo criterio è quello della essenzialità e della irrinunciabilità delle conoscenze. Nelle Indicazioni non c’è tutto quello che le scuole debbono fare: se così fosse saremmo nella logica dei Programmi tradizionali. Le Indicazioni segnalano ciò è irrinunciabile secondo una logica inclusiva e non esclusiva. Intorno al nucleo essenziale spetta infatti ai collegi dei docenti e ai singoli insegnanti - anche in relazione alle quote di flessibilità previste dagli orari - articolare i percorsi scolastici integrando la parte essenziale con altre conoscenze in modo adeguato e coerente con il Profilo in uscita previsto per ciascun liceo.

Qual è il valore aggiunto di questo approccio?

Questa impostazione - che anche in questo caso non mi pare sia stata finora colta in tutta la sua densità - assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa. Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere. C’è bisogno dunque non solo di docenti «tecnici esperti», ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura.

Come dobbiamo orientarci nei documenti?

Sono fruibili da un vasto pubblico. Mi pare molto importante segnalare lo stile con cui le Indicazioni sono state elaborate e scritte. Non più di due pagine per ciascuna disciplina, con l’impiego di un vocabolario alla portata di tutti, senza specialismi e senza i gergalismi tipici di una certa letteratura ministeriale. Mi sento di poter dire che dalle Indicazioni viene una lezione di chiarezza, semplicità, trasparenza. Ognuno ha ovviamente il diritto di esprimere consenso o dissenso, ma nessuno può lamentare oscurità, ambiguità o indeterminatezza.

Si è molto discusso in questi giorni se la scansione cronologica prevista dalle Indicazioni non rischi di esagerare sul versante della contemporaneità. Insomma, è sempre il ’900 a far discutere.

Era prevedibile. Penso anche ad alcune annotazioni critiche circa le difficoltà a esplorare in modo adeguato la letteratura italiana contemporanea o alcune scottanti e delicate vicende della storia più recente. Ma non dobbiamo dimenticare che il Novecento è «il secolo scorso» e che la scuola ha il dovere di esaminarlo criticamente, con la problematicità delle questioni aperte e adottando gli stessi strumenti metodologici impiegati per indagare altri momenti della nostra storia. Anche sul Risorgimento, per fare un solo esempio, c’è un dibattito aperto, ma nessuno si sognerebbe di sostenere che la diversità di interpretazioni è di ostacolo all’insegnamento scolastico.      

Le Indicazioni sottendono una precisa idea di liceo. Quale?

Per noi il liceo è la scuola che preferenzialmente - ma non esclusivamente - fornisce una cultura di accesso universitario. Abbiamo interpretato quest’idea in senso ampio, perché da un lato ci siamo ricollegati alla storia della tradizione liceale italiana, centrata sul liceo classico, ma dall’altro l’abbiamo innovata, evitando di restarne prigionieri. In caso contrario avremmo detto che il liceo classico è la scuola dell’eccellenza, e che gli altri licei vengono di conseguenza. No: la licealità è una ma declinata in modi diversi. Basta vedere le Indicazioni: italiano, storia, filosofia e lingua straniera sono uguali per tutti i licei.

Una delle parole chiave più controverse della riforma è quella delle competenze. Anche lei vi ha fatto cenno all’inizio. Qual è la sua opinione?

Penso che questa parola sia ormai abusata. Preferisco partire dal concetto del sapere. La scuola ha come scopo di fornire il sapere, che poi si traduce in competenza nella misura in cui è un sapere che ciascuno personalizza. Non immagino un concetto di competenza oggettivistico, con un’autorità che definisce le competenze per tutti. Lo Stato ha l’obbligo di definire le cose irrinunciabili perché Tizio sia una persona che ragiona con la sua testa. La competenza deve essere una conseguenza del sapere, una rielaborazione e una traduzione personale della capacità di apprendere. Inoltre è una nozione che può presentare dei rischi. E il primo di questi è senz’altro un eccesso di proceduralismo: che facilita forse il lavoro degli insegnanti, ma che rappresenta certamente una delle tante forme dell’anticultura di oggi.

 

 
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