SCUOLA/ Così
Il Sussidiario - 4 gennaio 2011 - di Tiziana Pedrizzi
Dal 19 ottobre abbiamo di nuovo in Italia la possibilità per i quindicenni di completare l’obbligo di istruzione entrando in apprendistato e, attraverso quella via, perfezionare le competenze di base ed iniziare ad acquisire quelle professionali. Questa possibilità si aggiunge a quella di frequentare i percorsi di istruzione e formazione professionale di competenza regionale per completare l’obbligo di istruzione. Contro questi due istituti continuano le polemiche da parte di chi ritiene che l’equità sociale venga garantita solo se si frequentano fino a 16 anni corsi di istruzione generalista uguali per tutti e, perciò, teme sfruttamenti precoci e la rinuncia ad elevare il livello culturale dei cittadini.
Ma in Francia, società per tanti versi affine a quella italiana dal punto di vista culturale ed educativo, da tempo circolano forti dubbi addirittura sull’efficacia di quella che è per noi la scuola media unica.
Il 1° ottobre 2010 l’HCE (Haut Conseil de l’Education), un organo formato da esperti indicati dalle diverse istituzioni rappresentative del paese, ha presentato alla Presidenza delle Repubblica un rapporto sullo stato del Collège Unique. È da ricordarsi che il Collège francese dura per 4 anni fino all’equivalente della nostra classe prima superiore ed ha una funzione orientativa vincolante per l’iscrizione al triennio successivo finale. L’HCE prende atto del suo scacco, di cui sarebbe indice il fatto che 1 allievo su 5 ne esce con gravi lacune in francese e matematica.
Malgrado gli sforzi degli insegnanti - afferma l’HCE - la sua struttura si è dimostrata incapace di tenere in conto delle grandi differenze fra gli allievi e di ridurle, di organizzare un sostegno efficace e, in definitiva, di garantire una maggiore equità sociale. Le riforme miranti alla personalizzazione ed al recupero non hanno mai funzionato, secondo l’HCE, anche perché alla scuola non sono stati dati abbastanza formazione e mezzi. Il risultato è che in questi anni sono aumentati i suoi avversari. L’HCE auspica, in conclusione, il passaggio da un Collège “copiato dal liceo” ad una “scuola dello zoccolo comune”, che elevi il livello medio ed allarghi la base della selezione delle élites (questo obiettivo non è mai indicato nel nostro Paese). Si torna dunque a riparlare di quello “zoccolo comune” della Commissione Thélot del 2005, che era stato affossato da resistenze culturali e corporative.
Come spesso avviene, il dibattito francese sulle “cose di scuola” riguarda gli stessi argomenti su cui ci si arrovella in Italia, ma ha il pregio di farlo in modo più autorevole istituzionalmente e con una maggiore limpidezza concettuale. Le opposizioni culturali - e non solo corporative - allo “zoccolo comune” sono le stesse: timore di un impoverimento generale della cultura del Paese e della creazione di una scuola di serie A - in cui si vada oltre i minimi e si trasmettano anche i contenuti culturali - ed una scuola di serie B, in cui si impara solo a leggere ed a scrivere (ovviamente in chiave 2010). Del resto in Francia il dibattito dura da tempo. È del 2003 un inserto speciale di Le Monde de l’Education in cui veniva già messa a fuoco la difficoltà a tenere insieme il must democratico dell’unicità e l’aspirazione al raggiungimento di alti livelli di formazione. La scuola francese infatti, a differenza di quella italiana, continua a tenere alti (troppo alti?) i suoi obiettivi, tanto è vero che al bac è quasi impossibile ottenere il massimo dei voti (The Economist, ottobre 2010).
I dubbi della Francia non sono isolati. Da tempo le ricerche ed il dibattito internazionale sembrano mettere in discussione il mito della scuola unica fino a 16 anni, che ha dominato nella pedagogia progressista europea nei decenni postbellici e che qui da noi sembra ancora per molti indiscutibile. Molte ricerche sembrano affermare che la canalizzazione a 11 anni incide negativamente sull’equità (ma i Paesi di lingua tedesca continuano a praticarla, pur registrando un’articolazione della società civile sostanzialmente equilibrata). Affermano però anche che l’unitarietà fino a 15-16 anni non ha grandi doni di efficacia: in questa struttura non si riesce a raggiungere una vera equità, perché spesso i ragazzi dei livelli di apprendimento bassi, nel coacervo degli input, non imparano neppure l’indispensabile. Da parte loro i ragazzi dei livelli di apprendimento alti si demotivano e le loro famiglie reagiscono con varie forme di segregazione sociale o cercando attività formative aggiuntive. Forse il problema sta anche nel fatto che l’utopismo progressista europeo degli ultimi due secoli ha affidato troppi compiti di carattere sociale alla scuola, che invece spesso riflette più che determinare il livello economico, sociale e culturale delle nazioni.
L’idea francese dello “zoccolo comune” sembra offrire una via mediana fra canalizzazione precoce ed unitarietà totale. Essa permette di sottolineare la necessità di innalzare le competenze di base per tutti, ma, a fronte della persistente difficoltà a farlo attraverso l’impostazione degli studi tradizionale, cerca di dare spazio anche a strade differenziate. Non si tratta dunque di esaltazioni rétro della scuola anni ’50 in chiave di “ritorno al futuro”: la lingua nativa e la matematica che devono essere valorizzate non sono quelle del sapere un po’ asfittico e “disinteressato” degli anni Cinquanta.
Questa impostazione è spesso accusata di funzionalismo antiumanistico. Infatti l’allargamento della scolarità si è accompagnato, soprattutto nei paesi latini ed in Italia, al tentativo generoso e “democratico” di consegnare a tutti il patrimonio storico e culturale del proprio Paese e poi dell’Europa e poi ancora dell’umanità tutta. Sembra però che si tratti per i più di una medicina amara o, se va bene, di un frutto insipido; spiace dover constatare che questo sentimento sembra allignare anche nei Licei.
Assistiamo dunque ad una perdita di prestigio della tradizionale cultura storico-letteraria? Sembrerebbe in forte crisi il tentativo di diffondere a tutti la cultura umanistica europea di carattere storico-artistico-letterario, come pilastro e strumento culturale della democratizzazione della società. La sua finalità era quella di formare l’uomo completo ed il cittadino consapevole e critico. Ma sembrerebbe che le tracce, nella pratica comune dei cittadini italiani (e non solo), della civilizzazione che quel tipo di cultura avrebbe dovuto indurre siano labili e non proporzionali all’impiego di tempo e di risorse.
Da qui nasce anche la recente riflessione sul ruolo della letteratura o della storia della letteratura nel piano studi degli studenti italiani. C’è chi chiede che la sua conoscenza sia riservata a coloro che sono in grado, per capacità e volontà, di apprezzarne il fascino ed il valore. C’è chi invece continua a rivendicarne il ruolo insostituibile, sia per la formazione linguistica che per quella umana e culturale; in questo secondo caso non sempre si capisce se il perdurante ottimismo derivi da una diversa lettura della realtà o dalla persistente speranza di un suo miglioramento.
Molti però pensano che dobbiamo cominciare a riconoscere che parti rilevanti della popolazione giovanile, per taluni aspetti addirittura maggioritarie, rifiutano di nutrire per questo tipo di cultura l’interesse che dice di nutrire l’intellettualità piccolo-borghese che ne ricava il pane. Colpa delle tv di Berlusconi? Colpa di come viene presentata?
Forse dobbiamo cominciare a sospettare che, a forza di insistere nel somministrarla a tutti forzosamente, essa rischi di non sopravvivere più per nessuno, tanto caricaturale e poco attrattiva ne diventa l’immagine. E che pertanto può sopravvivere solo diventando un’opzione, forte ed appetibile e non mettendosi in contrapposizione con il possesso generalizzato di strumenti di alfabetizzazione strumentale, che ne sono il presupposto.
Il tipo di giovane disinvolto che sdottora criticamente infilando solecismi non solo è sgradevole esteticamente, ma sembra eticamente appartenere ad una società di raccomandati incompetenti, se non imbroglioni.