Chi governerà le scuole autonome ? Gli atti del Meeting


CHI GOVERNA LE SCUOLE?  

DIRIGERE SCUOLE TRA AUTONOMIA E REGIONALIZZAZIONE

 

Atti della Tavola rotonda in collaborazione con il Meeting per l’amicizia dei popoli

Fiera di Rimini,  martedì, 24 agosto 2004

 

 

Roberto Pellegatta, presidente DiSAL, moderatore.

Benvenuti. Prima di iniziare, abbiamo ospite il Sottosegretario all’Istruzione on. Silquini, che ha accettato di venire a farci un saluto e che poi è impegnato in un’altra tavola rotonda sulle libere professioni.

 

Sottosegretario Maria Grazie Siliquini.

Grazie. Stamattina mi sono incontrata al loro stand, ho saputo di questo vostro incontro di scambio di notizie importanti, di valutazioni e riflessioni. Volevo, quindi semplicemente, augurarvi una buona giornata. È un momento importante, perché riuscire a dibattere come si fa al Meeting di Rimini, credo che non si riesca da nessuna altra parte, e quindi anch’io vado di corsa di là a dibattere di università e libere professioni. Non volevo  farvi mancare un saluto molto affettuoso e una buona giornata.

 

Pellegatta. Benvenuti. Sono il presidente di DiSAL. Grazie per aver accettato il nostro invito. DiSAL che con il Meeting promuove l’incontro di questa sera, è un’associazione giovane che da cinque anni accomuna dirigenti scolastici di scuole statali e non statali di ogni ordine e grado attorno ad una visione del capo di istituto radicata nel più grande compito educativo e culturale della scuola. Su questa questione abbiamo iniziato a discutere con le altre realtà associative e sindacali e con il Ministero.

Questa sera proponiamo al Meeting il primo di una serie di incontri sulla scuola. Innanzitutto mi perdonerete una cosa a cui tengo moltissimo: prima di iniziare il nostro lavoro vi chiedo un attimo di silenzio, perché purtroppo abbiamo perso questa estate un carissimo amico che l’anno scorso è stato qui relatore al Meeting di Rimini, Marino Bassi, responsabile all’Assessorato Regione Lombardia per la formazione. Il buon Dio l’ha voluto con sé, e lo vogliamo per un attimo semplicemente ricordare, perché attraverso o una preghiera o un ricordo personale, ognuno abbia presente questo caro amico che tra l’altro è anche una grave perdita per la Regione e per la scuola italiana. Era diventato consulente per il Ministro per il futuro secondo canale, colonna portante della riforma scolastica. (Silenzio)

Stiamo affrontando in questi mesi nodi fondamentali per il futuro della scuola, ognuno di noi l’ha visto. Che anche un’istituzione come la scuola abbia bisogno di progresso di cui si parla al Meeting, è una affermazione talmente ovvia - si dice di riforma in politica - da diventare in taluni casi addirittura insignificante. Nella vita concreta delle singole scuole l’aspirazione al cambiamento, al miglioramento, non è sempre scontata, non è sempre così riconosciuta. Sia che spesso si difenda l’esistente, o magari anche che si sbandierino innovazioni che in realtà poi non cambiano nulla nella sostanza della vita della scuola. I ministri hanno pagato in passato e pagano tuttora tentativi, discutibili magari, ma sicuramente interessanti e seri di cambiamenti. Lo stesso destino così combattuto dell’attuale riforma mostra che la necessità del progredire in realtà è una lotta, un combattimento, intendo in senso positivo, non sempre sul cuore dei problemi. Chi ha vissuto questi decenni, chi ha vissuto dentro questi decenni un’aspirazione sincera al cambiamento della scuola, si è accorto quanto spesso è stato difficile sfuggire agli schieramenti predefiniti nel discutere i problemi,  bloccati in situazioni precostituite, quando non bloccati nella difesa dell’esistente.

Alla storia del Meeting appartiene, invece la voglia di discutere al di là dei pregiudizi, al di là degli schieramenti, per andare alla radice dei problemi, e da lì cogliere criteri, punti di riferimento per soluzioni operative.

E la radice dei problemi per noi è la persona, che a scuola vuol dire ragazzi, docenti, genitori, presidi. La scommessa sulla dignità della persona, sulle qualità personali di chi impara, di chi insegna, di chi dirige, sulle risorse irripetibili di ognuno. È una scommessa unica, così che ogni persona costituisce una risorsa per la scuola. È la radice, questa, del vero progresso, come il cristianesimo, per quanto mi riguarda, ha insegnato alla storia. Vogliamo quindi dialogare liberamente, con tutti coloro che hanno un’intelligenza educativa, culturale, politica, tali da non affrontare i problemi con massimalismi ma, appunto, partendo dalle loro radici, perché possano meglio le soluzioni trovate, rispondere ai bisogni delle persone.

A partire dal riconoscimento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, si è cominciato a cercare forme più adeguate di decentramento delle competenze, si stanno cercando forme più adeguate di governo della scuola, più adeguate ai mutamenti culturali e sociali o economici. Allora il ragionamento di oggi vuole partire da qua. A chi appartiene la scuola? Chi la deve governare? Non certo alla burocrazia e, intendiamo dire, ai sindacati quando escono dalla loro funzione. La cultura che la scuola deve trasmettere è il comune patrimonio della tradizione del nostro popolo. Ma il governo delle decisioni deve appartenere all’autonomia delle scuole, delle comunità locali, degli enti che ad esse servono.

Nessuno è padrone della scuola. Chi la deve governare, deve innanzitutto riscoprire di esserne servitore, del più grande aspetto della vita: educare, far crescere, aiutare a scoprire sé stessi e la realtà. Quindi non un bambino, una classe, un istituto da possedere, da determinare, ma un “capitale umano”, come abbiamo detto anche già dall’anno scorso a questo Meeting, da far fruttare, su cui investire, invece che risparmiare, visto che tutti continuano a dire che persino gran parte della sfida della globalizzazione dipende dalla qualità della cultura, dell’istruzione, della ricerca degli uomini e delle donne che lavorano.

Abbiamo proposto ai nostri invitati di aiutarci quindi a mettere a fuoco le domande e i problemi attorno a questa questione: chi deve governare la scuola ? In questo passaggio a cui stanno contribuendo mutamenti costituzionali, mutamenti legislativi in atto o allo studio in parlamento o al governo. Non è certo possibile, nel tempo previsto della tavola rotonda nel contesto in cui ci troviamo, esaurire questo confronto, arrivar gia alle risposte, noi ci accontenteremo gia di inquadrare con chiarezza le domande più importanti, più significative e DiSAL si impegna a riprendere questo argomento nel proprio convegno nazionale che terrà l’11-13 novembre. Quanto dei poteri del centro trasferire alla periferia e a chi? Nessuno di noi pensa certo a nuovi ventuno ministeri regionali. Quale potere alle scuole autonome ? Quali organi le debbono governare? Sono alcune delle domande che cerchiamo arricchite dal confronto con il contesto europeo, dal punto di vista di chi dirige scuole statali e non statali, dalle riflessioni in atto nelle regioni, dal dibattito in parlamento. Purtroppo quest’ultimo argomento vede l’assenza di un invitato: l’onorevole Bianchi Clerici, che è il referente al Parlamento per gli organi collegiali, ci ha comunicato di non poter venire.

La focalizzazione del dirigere la scuola vuole poi rappresentare un punto di vista che sappia tener presente tutti i fattori in gioco. Infatti la funzione di chi dirige le scuole ha un significato, se finalizzata a realizzare le condizioni che favoriscano l’avvenimento di un’esperienza educativa, di  un’esperienza di cultura, di istruzione. Hanno accettato e ringrazio per questo confronto, l’assessore Paolo Benesperi, e mi diceva prima non solo assessore all’istruzione ma anche alla formazione professionale e al lavoro in Toscana. Antonio Petrolino, non solo membro dello staff dell’Associazione Nazionale Presidi, ma anche presidente dell’ESHA, ente europeo che raggruppa l’associazione dei dirigenti scolastici. E padre Bruno Bordignon responsabile da tempo del Centro Nazionale delle Opere Salesiane. A loro la parola, poi magari qualche brevissimo tempo per domande, prima di concludere il lavoro. Grazie. Cominciamo con l’assessore Benesperi.

 

Paolo Benesperi, Assessore Regione Toscana per l’Istruzione e Formazione.

Sono io che ringrazio dell’invito che ho accettato molto volentieri, perché concordo sulla necessità che è stata evidenziata. Cioè che in materia di educazione, di istruzione, di organizzazione scolastica, le scuole insomma, c’è un deficit di luoghi di discussione, di luoghi di discussione libera aperta, senza pregiudizi. Sono anch’io d’accordo che un peso eccessivo di schieramento politico e di sovrapposizione ideologica, oggi c’è e non è produttivo. Per cui ho accettato ben volentieri, invece per venire ben volentieri in questo luogo di discussione. Questo ragionamento è tanto più valido sul tema specifico che affronterò in questo intervento chi governa la scuola, insomma dal punto di vista di assessore regionale, quale rapporto tra le istituzioni e le autonomie scolastiche, quale rapporto all’interno delle istituzioni, tra il livello nazionale e il livello regionale. Tema che ovviamente parte dalla legge tre e dal nuovo titolo quinto della costituzione. Ma che ha segnato proprio dal momento del varo di quella revisione costituzionale, ad oggi secondo me, naturalmente posso essere smentito, di nuovo un eccesso non di ragionamento, ma un eccesso di schieramenti e ha fatto perdere di vista di raggiungere un sistema equilibrato di competenze tra istituzioni e autonomie scolastiche. Lo ha impedito tante che siamo ancora qui a discutere che cosa il titolo quinto prevede, quale è il modello al quale arrivare dopo diversi anni. Allora io cercherò di attenermi hai fatti, a ciò che è avvenuto, alle decisioni prese alle istituzioni che oggi è difficile mettere in discussione. Sicuramente il fatto, è ovviamente un fatto giuridico, ma per quel che vale continuo a chiamarlo fatto per la sua importanza. Oggi questo fatto esiste ed è una recente sentenza della corte costituzionale del 13 gennaio. La quale di fronte ad un ricorso della regione Emilia Romagna, rispetto alle modalità, il tema era l’assegnazione degli insegnanti alle scuole, su questo tema la corte costituzionale si è pronunciata dicendo: anche l’assegnazione degli insegnanti alle scuole è, dopo il titolo quinto della costituzione, materia regionale, poi naturalmente fa un inciso, c’è bisogno di una legge regionale, ovviamente. Fin tanto che la legge regionale non esiste, ovviamente non si può paralizzare il sistema e allora continueranno ad essere le direzioni scolastiche regionali, però la competenza stabilità dalla costituzione, noi in Toscana ad esempio ci siamo apprestando a varare la legge, non so se c’è la faremo in questa legislatura, però il quadro offerto dalla costituzione stabilisce che anche la competenza della assegnazione degli insegnanti alle scuole è competenza della regione. Come arriva a questa conclusione la corte costituzionale. Arriva con un ragionamento di questo tipo: il titolo quinto della costituzione stabilisce in materia di istruzione le competenze statali, come competenze che riguardano le norme generali, affida alle regioni il potere regolamentare e amministrativo,tornerò su questo, e dunque nell’ambito di questa suddivisione di competenze, un argomento, una decisione come quella dell’assegnazione degli insegnanti che è atto amministrativo, regolamentare forse, più amministrativo che regolamentare, non può che essere regionale. Allora, da questo bisogna partire, ovviamente. Una sentenza della corte costituzionale è un atto giuridico pesante, molto pesante, che nel corretto ordinamento dello stato della costituzione bisogna partire. Allora questa sentenza della corte costituzionale, ci consente di leggere nella maniera corretta il titolo quinto della costituzione e di vedere complessivamente cosa il titolo quinto della costituzione dice in materia di istruzione e di formazione nel rapporto delle competenze fra diversi livelli. Debbo dire, per la verità, scusate se lo dico che sono contento di poter dire che con questa interpretazione noi ci siamo presentati al dibattito politico, fin dai giorni successivi alla legge tre, debbo anche dire che eravamo in grande solitudine, oggi siamo contenti di non essere soli e di avere il conforto della corte costituzionale. Il quadro tutto sommato poi è complicato ma abbastanza semplice, perché il titolo quinto dice che in materia di istruzione professionale e formazione professionale la competenza è esclusiva delle regioni. In materia di istruzione tutta l’instruzione abbiamo competenza concorrente. Competenza concorrente vuol dire che le funzioni legislative generali sono di competenza statale, gli indirizzi fondamentali sono di competenza statale, però tutto ciò che è regolamentazione e amministrazione nella competenza concorrente è competenza regionale in tutta l’istruzione. Poi lo stesso titolo quinto mette tra le competenze specifiche dello stato gli ordinamenti generali dello stato, ecc., ecc.. questo a convalida dell’interpretazione che sto dando. Quindi da questo punto di vista il panorama è: lo stato deve legiferare, deve stabilire i grandi ordinamenti e legittima secondo me la legge Moratti, qualcuno sostiene il contrario, secondo me è legittima perché cicli e ordinamenti sono per definizione di competenza statale. Poi se la legge va oltre e inclina il potere parlamentare, sbaglia. Gli ordinamenti generali, non possono che essere statali. Tutto ciò che programmazione, regolamentazione e amministrazione, in virtù di questa definizione di competenza concorrente è materia regionale. Nell’istruzione e nella formazione professionale la competenza aumenta perché qui siamo di competenza delle regioni, che però non incrina il principio che anche nell’istruzione e nella formazione professionale sta allo stato, gli ordinamenti generali, i principi e così via. Ma il titolo quinto non dice solo questo, fa una aggiunta piccola ma significativa, salvo l’autonomia scolastica, salvo l’autonomia delle scuole. Questo e importantissimo. Se mettiamo insieme queste diverse affermazioni, debbo dire nel testo costituzionale un po’ scombinate, comunque la sentenza della corte costituzionale conferma questa interpretazione, arriviamo ad un quadro si fatto: la scuola è un fatto nazionale, il fatto nazionale della scuola è determinato dagli ordinamenti dai principi nazionali, dalle finalità, ecc, ecc.. che la scuola ha però bisogno ad un’aderenza alle necessità del territorio, programmazione, regolamentazione, amministrazione e questa funzione sono di livello regionale, a queste funzioni non possono essere la riproposizione in ventuno edizioni del vecchio centralismo nazionale che diventa centralismo regionale. Perché in questa costruzione nel modello di programmazione che stabilirà ogni regione deve essere fatto salvo il valore dell’autonomia scolastica. L’autonomia scolastica lo sappiamo qual è il punto di riferimento il dpr varato a suo tempo, ne discutevamo precedentemente, mi sembra che siamo tutti concordi su questo, va ampliata, il raggio dell’autonomia scolastica va ulteriormente ampliata. Questo è una materia di discussione, ci porterebbe troppo in la, però insomma in questa costruzione di forti poteri regionali c’è un limite che è determinato dalla autonomia scolastica e io dico che da un punto di vista delle politiche regionali, va valorizzata. Perché il modello del federalismo non è il modello di vintun burocrazie, il modello giusto del federalismo, è quello che in chiave di sussidiarietà verticale e orizzontale esalta le autonomie presenti in ogni regione. Che da al potere regionale funzione di programmazione, ma la programmazione non è una programmazione dall’alto che impone. La programmazione indica degli indirizzi e, nell’indicare questi indirizzi, valorizza nella fase propositiva e nella fase attuativa le autonomie che si trovano nelle istituzioni e nella società. Debbo dire che questa visione non mi pare che sia quella della proposta di devolution. Forse se abbiamo tempo ne parleremo dopo. E poi non so nemmeno francamente a quale testo di devolution devo fare riferimento. Sto al testo ufficiale che ho letto che trasferisce alla competenza esclusiva regionale, l’organizzazione e la gestione delle scuole. Io su questo non sono d’accordo. Sono tanto più federalista e tanto più regionalista, quanto più si segnano quei confini che ho detto. Invece mi pare che la proposta di devolution, spinga invece nel senso che io voglio evitare. Di un forte regionalismo ma burocratico, di questo credo che la scuola non abbia bisogno. Ma, un’ultima considerazione, questa visione di un equilibrio tra competenze istituzionali dei diversi livelli e valorizzazione dell’autonomia scolastica, porta un altro vantaggio che è la risposta che oggi si richiede anche all’istituzione scolastica rispetto ad un impegno educativo generale, perché noi dobbiamo, quando parliamo di scuola, sempre avere il riferimento più largo della scuola. Perché la scuola si colloca in un contesto, ma non è solo la scuola che fa il contesto. Qual è il contesto che dobbiamo avere come riferimento. Secondo me il contesto che dobbiamo avere come riferimento è l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita e l’elaborazione europea in materia di life long learning. Allora se il contesto è quello li la scuola diventa parte, ma deve essere parte che interagisce con altri elementi: con la società. Voi sapete la divisione classica nel life long learning: formale, non formale, informale; istituzioni e società e così via. Se noi vogliamo creare un sistema di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, bisogna creare un sistema educativo integrato, nel quale vi sono tanti pezzi che realizzano il sistema educativo integrato, ma non sono pezzi separati si integrano, ognuno porta le proprie capacità e le proprie esperienze. Se la linea è quella che va verso l’esaltazione dell’autonomia scolastica, nell’ambito di una programmazione complessiva, si da la possibilità all’autonomia scolastica di interagire con altre autonomie e di essere parte della realizzazione, ma non parte chiusa, parte aperta, per la realizzazione di quello che io chiamo sistema formativo integrato oppure un sistema di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, integrato. Questo consente le relazioni tra scuole e formazione professionale, fra formazione professionale e lavoro, fra scuola ed educazione degli adulti, ecc.. Mi sembra un’apertura di cui la scuola ha bisogno, è un dato e ha bisogno il territorio, e qui torniamo di nuovo alle funzioni delle istituzioni, degli enti locali o del livello regionali, di cui ha bisogno il territorio nella globalizzazione, nella costruzione dell’economia e della società della conoscenza cioè creare una comunità educante. In questo modo la scuola può diventare parte della realizzazione di questa comunità educante e soprattutto, cessa di essere, se lo è e credo che lo sia, parte separata rispetto a questo processo ma può contribuire l’integrazione con altri soggetti educativi alla rivalutazione di questo modello territoriale complesso che di nuovo abbiamo il sistema integrato territoriale per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Non credo di avere altro tempo, se c’è vi racconterò qual cosa di quello che stiamo facendo in Toscana.  In coerenza con questo ragionamento, noi ci siamo dotati in Toscana di una legge, luglio 2002, la legge 32, che è il testo unico di politiche regionali in materia di educazione, istruzione, formazione, orientamento e lavoro in un’unica legge, tutte questa politiche. La coerenza rispetto a ciò che dicevo, l’integrazione la realizzazione di un sistema territoriale di apprendimento lungo l’arco della vita. Nell’attuazione di questa legge diciamo così, cerchiamo sempre di seguire la linea dell’integrazione delle politiche e dell’integrazione dei soggetti. Ed esaltiamo tutti i momenti di integrazione tra scuola, informazione professionale e lavoro. Ad esempio, nella sperimentazione che stiamo producendo e che stiamo portando avanti da qualche mese, in risposta al famoso buco, creato dalla legge Moratti, l’obbligo scolastico che scendeva a 14 anni e l’obbligo formativo che continuava a 15 anni. Il modello su cui stiamo lavorando è quello di una integrazione all’inizio tra istruzione professionale e formazione professionale, ma nel continuare tra istruzione professionale formazione professionale e lavoro e ancora tra dal 2005al 2006 anche tra il sistema dei licei, formazione professionale e lavoro. Il tutto poi si colloca in un contesto di costruzione di altri apprendimenti di tutto l’arco della vita e, la dove è possibile, cerchiamo di fare interagire scuole e associazionismo del modo dell’educazione degli adulti, oppure scuole, mondo delle agenzie formative e mondo del lavoro. L’esempio classico è quello dell’istruzione e formazione tecnica, professionale, superiore, integrata. Un modello che vede quattro soggetti per ognuno di queste attività, scuole medie superiori, agenzie formative, imprese ed università, oppure i moduli formativi dentro le lauree, integrazione fra formazione professionale e università. Questo è un po’ il nostro modello, il nostro diciamo modello integrato. Le scuole, naturalmente, possono entrare se accreditate e se richiedono l’accreditamento e una loro scelta, anche nel mondo della formazione professionale. Questo avviene sia per la formazione professionale esterna, sia per la formazione professionale ai diversi livelli. Insomma questo è il nostro modello, il nostro modello territoriale, integrato, nell’ambito di programmazione regionali, ma con valorizzazione delle singole autonomie e con un incentivo regionale perché le singole autonomie parlino e lavorino insieme.

 

Pellegatta.    Grazie all’assessore che non solo ci riconferma la legittimità di una riforma, ma ribadisce che il percorso delle riforme deve essere un percorso continuativo perché la scuola possa crescere e non sempre andare a singhiozzi avanti e indietro. Ma anche ci ricorda in modo interessante - noi al Meeting usiamo in questo senso il concetto di sussidiarietà - che per affrontare in modo adeguato la questione dell’autonomia delle scuole non si può non tenere presente che la scuola non è l’unico soggetto, ma che appartiene ad una pluralità di agenzie educative che devono in un qualche modo trovare modalità con cui lavorare tra loro e collaborare per rispondere ad un comune servizio. Il preside Petrolio ritengo non solo rappresenta il punto di vista dei capi di istituto, ma attraverso la sua esperienza europea può aiutarci ad un confronto più ampio sul governo delle scuole, grazie.

 

Antonio Petrolino, presidente ESHA e staff nazionale ANP

Grazie ovviamente da parte mia all’organizzazione del convegno. Grazie al di là dell’evento, dell’invito specifico a partecipare, perché questo ci dà modo di riprendere quella che è in qualche modo la nostra ragione sociale fin da quando esistiamo come associazione professionale, cioè da quasi vent’anni.    Noi abbiamo cominciato la nostra battaglia nell’ambito delle riforme scolastiche proprio all’insegna dell’autonomia, in un’epoca in cui - si era a metà degli anni 80 – questo era termine sconosciuto, o addirittura oggetto di derisione fra coloro che si occupavano di cose di scuola. Ormai si discute su cosa l’autonomia essere debba e non se debba essere: e almeno questo risultato possiamo portarlo a nostro attivo. Quindici anni fa, questo obbiettivo sembrava fuori dal mondo.    Quando abbiamo cominciato a muoverci in questa direzione, sapevamo che questo avrebbe comportato un ridisegno della mappa dei poteri. Sapevamo cioè che mettere in discussione il governo centrale dell’istruzione (che allora era assoluto e sembrava indiscutibile), in favore dell’autonomia scolastica, significava necessariamente mettere in discussione anche la grande questione di chi governa la scuola.

Ha ragione il collega Pellegatta, nell’introdurre il dibattito, a dire che la domanda: chi governerà le scuole? ne sottende necessariamente altre. E infatti ha usato in funzione di sinonimo un’altra domanda: a chi appartiene la scuola? Perché questo è il vero senso della questione.   Io vorrei spostare ancora un passo di là questa seconda domanda. Ci è stato chiesto, del resto, visto che il tempo a disposizione non consentirebbe risposte esaustive, di contribuire a far chiarezza formulando almeno qualche domanda rilevante dell’argomento. Ecco, io vorrei fare una domanda, per così dire di secondo livello, rispetto a quella: a chi appartiene la scuola? Chiedersi a chi appartiene la scuola, vuol dire chiedersi a chi appartiene il bene istruzione. Chi è il proprietario dell’istruzione? È una domanda che è apparentemente priva di senso, ma in realtà è la domanda che fa il senso: perché se l’istruzione è un bene che appartiene ai singoli, allora il servizio di istruzione è evidentemente un servizio alla persona. Non è un servizio dell’istituzione o per l’istituzione. Ma se l’istruzione è un bene che appartiene alle collettività organizzate, allora deve essere governato dalla collettività organizzata e dai suoi rappresentanti politici.

Questa domanda non ha una risposta scontata, e valida in ogni tempo e in ogni luogo, tant’è vero che in tempi e luoghi diversi ha avuto, ed ha tuttora, risposte diverse. Uno dei motivi per cui sono stato invitato a parlare qui oggi è che parte del mio tempo viene spesa nell’occuparmi, attualmente con funzione di Presidenza, dell’Associazione Europea dei Capi d’Istituto, che raggruppa associazioni di dirigenti scolastici di diversi paesi europei, sia dell’Unione europea che non. In occasione di incontri, di confronti di studio e di approfondimento, è facile rendersi conto che le risposte date nei diversi paesi al problema di chi detenga il bene istruzione - e quindi di chi è legittimato a governare la scuola - sono molto diverse.

Le risposte che vengono tradizionalmente dal mondo anglosassone, o comunque dall’Europa del Nord, dall’Europa scandinava, sono di segno completamente diverso da quella che è stata la risposta, latina, mediterranea: italiana, francese, spagnola. Sono risposte che vanno nel senso della più puntuale e più estrema individualizzazione del servizio di istruzione. L’istruzione è per quei popoli un bene che appartiene ai singoli: si istruisce in funzione della persona. Quello che la persona farà di questo bene che le viene consentito di acquisire attraverso il servizio di istruzione è, in qualche modo, un problema che riguarda lei sola: con tutto quello che questo comporta, sia in termini di ricchezza e diversificazione, sia anche di rischi. Evidentemente il bambino, o comunque i suoi genitori, di questa facoltà può fare anche un uso distorto, negativo. Ci sono rischi: ma sono gli stessi rischi connessi con la libertà.

A ben guardare, è lo stesso principio che come collettività nazionale, come collettività politica, abbiamo oggi assorbito e metabolizzato, ma che fino a 60 anni fa non era così scontato: non era cioè scontato che una democrazia libera, in cui tutte le opinioni sono accettate, ha il diritto di autogovernarsi, di fare le sue scelte ed anche di sbagliare. Questo è un rischio che oggi noi consapevolmente accettiamo e che consideriamo come un prezzo accettabile da pagare a fronte della libertà. Fino a 60 anni fa, questo non era scontato per tutti, perché avevano corso legale, per non dire forza anche di legge, opinioni e tendenze di tipo completamente diverso. Si riteneva cioè preferibile rinunciare a molte delle opportunità della libertà individuale, in cambio della garanzia che qualcuno si incaricasse per tutti di assumere scelte dichiarate corrette ed eventualmente di riparare con la forza a scelte sbagliate. Il rischio della libertà era considerato un rischio da non correre.   In qualche modo il governo centralizzato dell’istruzione da parte di un solo soggetto, il Ministero dell’Istruzione, era l’altra faccia di questa stessa concezione dell’uomo o della società, per cui era preferibile che ci fosse un solo soggetto legittimato a decidere, a fare le grandi scelte in materia educativa, in materia d’istruzione, perché questo garantiva due beni: il primo, un’assunta competenza tecnica, professionale, filosofica, pedagogica, che ponesse al riparo la collettività dal rischio di scelte locali o individuali sbagliate. C’è uno che pensa, c’è uno che decide, uno che è qualificato a farlo, che ha tutti i numeri per farlo, e che pone al riparo dagli errori. L’altro rischio paventato era che ci fossero delle disparità nell’erogazione del servizio, tali che, in alcuni contesti l’istruzione fosse di un certo livello, e in altre di un altro livello.

La convinzione che fosse preferibile in assoluto avere un solo soggetto (il Ministero, con il suo corpus di esperti, ricercatori e studiosi) a decidere cosa e come studiare per tutte le scuole del Regno, e poi della Repubblica, è caduta da tempo. Ma per molto tempo, i suoi benefici sono stati considerati superiori ai sacrifici che imponeva alla libertà dei singoli e delle famiglie. Questo perché la maturazione collettiva della popolazione scolastica e degli utenti del servizio era ad un livello embrionale, tale cioè, che l’affidare ad essi le scelte rilevanti in materia educativa presentava pericoli superiori ai vantaggi. Ma il crescere della cultura, della maturità politica, democratica, culturale della popolazione hanno fatto sì che il rapporto si sia invertito e che i benefici della libertà possano superare i rischi. Infatti la scelta dell’autonomia alla fine è questa: di considerare che l’alea che si corre nella diversificazione, sia pure parziale, sia pure garantita, sia pure protetta, delle opportunità educative, sia inferiore alle opportunità di una personalizzazione, di una differenziazione del servizio.

Ecco, questa considerazione mi riconduce al punto da cui ero partito, cioè il discorso sull’autonomia scolastica. Chi deve governare la scuola, quindi?     In altri contesti si è accettato, da sempre, o almeno da molto tempo, che a governare la scuola debbano essere sostanzialmente gli utenti: o almeno che gli utenti debbano avere nel governo della scuola un peso molto maggiore di quello che tradizionalmente hanno avuto da noi. Si dirà, sono contesti diversi: storicamente, culturalmente, filosoficamente, istituzionalmente diversi, ed è vero. E’ anche vero che questi contesti non sono caduti dal cielo, non sono nati come i funghi dopo la pioggia: ma si sono sviluppati in un ambito in cui si sono accettati certi rischi a fronte di certe opportunità. Questo ha fatto crescere le persone, certo attraverso errori, attraverso rischi, ma le ha fatte crescere: ed ha permesso che determinate istituzioni si consolidassero e che, quindi, nella coscienza collettiva delle famiglie degli utenti, il senso che la scuola appartiene primariamente a loro, che ne devono far buon uso, che le scelte su cui devono orientarsi non devono essere di comodo, di facilità o moda, ma di maggior coinvolgimento, si è radicato poco a poco.   Il comportamento opposto, volendo richiamare una metafora giocosa, è simile a quello di chi dicesse al bambino che non gli permetterà di salire sulla bicicletta perché rischia di farsi male, finché non ha imparato ad andarci. Non imparerà mai ad andare su una bicicletta se non sale sulla bicicletta. Il rischio della libertà, anche in campo educativo, è questo: se non si fa mai uso della libertà per il timore dell’errore, non si saprà mai fare uso della libertà.

Il problema, o la domanda, a cui ritorno, e da cui ero partito, è dunque: a chi appartiene il bene istituzione? La risposta è: a chi può farne un uso corretto. Fino a tempi più o meno remoti, certamente, la risposta circa l’uso corretto del bene istruzione, in Italia, era univoca. Potevano farne buon uso soltanto coloro i quali ne possedessero almeno i rudimenti, e questi erano pochi. Oggi non è più così, per fortuna. In qualche modo la pre-condizione per il superamento del monopolio statale dell’istruzione è stata posta proprio dal successo del di quel modello: più la scuola centralistica ha funzionato, più ha assolto alla funzione assegnatale di far crescere il livello medio di istruzione, di cultura, di consapevolezza dei cittadini, più ha posto le premesse per il proprio superamento. Ha consegnato, sostanzialmente, ad una generazione di adulti, quello che ad una generazione di minorenni, culturalmente parlando, non poteva essere prudentemente affidato.

Oggi non è più così: abbiamo accettato per legge che nell’ambito dell’istruzione, della formazione, dell’avviamento dei cittadini alla vita attiva, non sia più presente un solo soggetto, il Ministero, ma siano presenti più soggetti, che non sono soltanto enti locali e Ministero. Ricordava bene l’assessore Benesperi, il dualismo che la costituzione prevede, a livello di istituzione, tra lo Stato e le Regioni. Ma io vorrei aggiungere che il famoso piccolo inciso, “fatta salva l’autonomia dell’istituzione scolastica”, introduce un terzo attore, che è evidentemente l’autonomia scolastica: ma, all’interno di essa, l’autonomia degli utenti, delle famiglie. La legge Moratti, lo ricordava Benesperi, introduce questo principio. Lo introducono anche alcuni dei decreti di attuazione: ma è un principio che si stenta ancora a percepire con chiarezza, pur essendo a mio avviso estremamente fecondo.

E’ quella che chiamerei sussidiarietà educativa. Si parla molto di sussidiarietà verticale: Stato, Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane e quant’altro. Si parla meno di una sussidiarietà orizzontale, in forza della quale, in uno stesso ambito, più soggetti concorrano a prendere delle decisioni. E fra questi ci sono le famiglie.   Il fatto che le famiglie siano chiamate, per esempio, da alcuni dei testi attuativi a dire la loro parola in ambiti come quello del portfolio, o in determinate scelte dell’autonomia scolastica, mi sembra corretto.

Vorrei, anche, prima di chiudere, evocare un altro punto, sempre attenendomi all’ esortazione a porre domande più che a fornire risposte. Qualsiasi significato si dia alla parola governo, occorre preoccuparsi non solo di sapere chi governa, ma anche di sapere a chi risponde. Il governo può essere un governo tecnico, ma può essere anche un governo politico, nel senso degli indirizzi da seguire. Il governo tecnico non c’è dubbio che debba appartenere ai tecnici, cioè, fondamentalmente, ai docenti ed ai capi d’Istituto, perché sono coloro che hanno le competenze professionali specifiche per tradurre gli obiettivi in patrimonio di cognizione e sarebbe assurdo che altri volessero intervenire in questa materia.   Il potere di indirizzo, quello che ho chiamato politico, può invece legittimamente appartenere alla comunità, all’ente locale, allo Stato, ciascuno secondo gli ambiti di competenza. Ma quando si parla di governo “politico” di un bene delicato come quello dell’istruzione, si parla inevitabilmente di qualcosa che contribuisce a formare persone, e quindi va ad incidere su beni estremamente sensibili quali la libertà individuale, la libertà di coscienza, la libertà di pensiero. Ed allora va detto con chiarezza che governo è inscindibile da obbligo di rispondere. Non si può pensare che chi ha la responsabilità o il potere di decidere in questa materia, possa decidere senza rispondere delle scelte che fa.

Questo è il motivo per cui, pur essendo qui e pur parlando a nome dell’Associazione che dell’autonomia delle scuole è stata tra le più convinte assertrici, sono estremamente cauto e estremamente avvertito quando si parla di autonomia come un fatto soltanto degli addetti ai lavori. La libertà, cioè, dei docenti - che siano collegi dei docenti, singoli docenti, consigli di classe o dirigenti scolastici, non faccio eccezioni - di decidere da soli circa ciò che si insegna. Questo principio è un principio che è estremamente rischioso, perchè chi è lì come tecnico non risponde a nessuno delle scelte che fa. O meglio, ne risponde, in teoria, solo all’amministrazione che lo ha collocato in quel posto. Ma l’amministrazione non è più, come in passato, l’unico committente del mandato educativo. Va quindi riaffermato che, laddove si mette in mano ad alcuni soggetti, singoli o collettivi, la facoltà di orientare le coscienze, ci deve essere un obbligo di rispondere e una possibilità di controllo sociale sull’uso che si fa di questo.

Il Ministero dell’istruzione decide? Sì, è giusto, l’abbiamo sentito. Puntualmente l’assessore ha definito quali erano le competenze. Ne risponde al Parlamento, alla Corte Costituzionale, ne risponde in tutte le sedi che istituzionalmente sono previste. L’ente locale assume una sua soggettualità propositiva o decisionale? Mi sta bene, non lo temo, con determinate condizioni che si possono approfondire in un ambito diverso, dove ci sia il tempo che qui non abbiamo. Non mi spaventa, purché non si arrivi ai 21 parlamentini o alle 21 burocrazie educative. Ne deve rispondere a qualcuno, agli elettori, alle altre sedi, agli utenti, però ne deve rispondere. Le scuole autonome debbono aver la possibilità di scegliere e di co-decidere in questo ambito, ma devono anch’esse rispondere. Il che significa una serie di cose: che vanno dalla valutazione degli operatori alla possibilità per le scuole di entrare nell’assegnazione delle risorse. Si è parlato di un tema delicato come quello della gestione degli organici. Io aggiungerei che, fino a che le scuole non avranno la possibilità di scegliersi, almeno in una certa misura e con certe garanzie, i docenti, non si può parlare di effettiva autonomia delle scuole. E sia ben chiaro che parlo delle scuole e non dei singoli dirigenti, come con eccessiva semplificazione spesso si tende a credere.

Voglio chiarire ulteriormente: una scuola è fondata sulla prestazione di persone, di professionisti che sono i docenti. Se questi professionisti vengono scelti, assegnati, distribuiti da soggetti esterni, la scuola non è autonoma. Io non posso fare un progetto educativo con le risorse che mi vengono date, se mi vengono date come risorse bloccate. Questo non significa che io possa esercitare l’arbitrio di prender chi voglio, significa soltanto che non posso essere tagliato fuori dal processo di individuazione e assegnazione di quelle risorse strategiche che sono gli insegnanti. Tutti questi soggetti, non solo il Ministero, non solo le Regioni, ma anche le scuole autonome, in tanto possono essere chiamati responsabili di un servizio educativo, in tanto ne rispondono, in quanto possono decidere. Queste sono alcune delle cose che mi sembrava di dover portare a contributo di riflessione sull’argomento e vi ringrazio.

 

Pellegatta.  Grazie, veramente al preside Petrolino, che ha usato due parole che ci sono care, nella storia del popolo del Meeting e di quel popolo del Meeting che vive il mondo della scuola: la parola libertà come rischio, dentro la quale non si può crescere se non vivendola a fondo come opportunità, e la parola responsabilità, come risposta a qualcuno, come assunzione piena di risposta a qualcuno di un compito che qualcuno ci ha affidato e a cui occorre rendere conto. Per questo, oltre che per altri accenni, la parola al padre Bordignon, che viene dalla grande tradizione salesiana, che abbiamo invitato perché, appunto, da sempre sostenitori della convinzione che la scuola è un bene di tutti e per tutti. Grazie.

 

Don Bruno Bordignon, Segretario nazionale del CNOS/Scuola

Anch’io sento il dovere di ringraziare e spero che si possa pervenire ad una collaborazione con le vostre scuole.  Come premessa, per comprendere il governo delle scuole, sarebbe interessante conoscere come è nata la scuola di Stato. Se non vado errato la scuola di Stato, come la intendiamo oggi, è nata con Lutero ed è correlata alla sua visione della cittadinanza.  Ricordo, a titolo di esemplificazione, che nel 1870, a Roma, l’85% delle ragazze andava a scuola. Quando sono arrivati i Piemontesi l’istruzione è crollata.

Per entrare nell’argomento, si debbono tenere presenti due principi di rilevanza costituzionale: l’autonomia delle scuole (articolo 117 comma 3, della Costituzione) appena commentato;  il principio di sussidiarietà orizzontale (articolo 118 comma 4, sempre della Costituzione), dove riconosce all’origine l’iniziativa del cittadino, successivamente delle associazioni, ed infine, in forma appunto sussidiaria, degli enti pubblici e statali.   Si tratta di due principi fondamentali. A questi si deve aggiungere, comune è stato ricordato, la sentenza della Corte costituzionale del 13 gennaio 2004, che fa dipendere i docenti dalle Regioni e  la sentenza n. 177/2004 delle medesima Corte per la Sicilia, che riconosce il governo delle scuole non statali e paritarie Regione.  Questa sentenze approva quanto sostengo da tempo che la materia della cosiddetta parità se la possono gestire le Regioni come vogliono, ai sensi della legge costituzionale 3, approvata dal governo precedente, e imputata come una colpa a questo governo.

Due punti strategici.  Le scuole. Se vogliamo parlare di autonomia delle scuole dobbiamo decidere senza rimpianti:  o le scuole diventano enti pubblici a se stanti, e non sono più parte di nessun altro ente, e quindi neppure dall’ente Stato come ora; ed allora potremo discorrere di autonomia

oppure parliamo d’altro.  L’attività scolastica oggi in Italia è attività dello Stato. Mi sembra che nel mondo non esista una concezione amministrativa più statalista di quella italiana. Il motivo? È semplice: lo Stato paga i dirigenti e i docenti (dalla legge n. 144/1999 anche il personale ATA).

Se divenisse attività di una Regione (Provincia o Comune) si passerebbe a forme di centralismo e di sudditanza delle scuola molto più gravi.  Sarebbe un tornare alla legge Casati con scuole comunali (elementari), provinciali (secondarie). La legge da Daneo-Credaro del 1911 ha consegnato l’attività scolastica allo Stato, perché ha pagato docenti e presidi (l’ente gestore – degli stabili e del personale ATA - è rimasto ancora il Comune o la Provincia). Sarebbe interessante precisare come don Luigi Sturzo in quell’occasione ha difeso l’autonomia delle scuole e dei comuni. Non ne abbiamo il tempo   Da anni si discorre di una centralizzazione o addirittura di una statalizzazione operata dalla Signora Margaret Thatcher (Reform Act del 1988). Ciò che è avvenuto è molto semplice: nel Regno Unito le scuole sono governate dagli enti locali. La Signora Thatcher permesso alle scuole, che ne erano interessate, di liberarsi dall’abbraccio (mortale) dell’ente locale che le gestiva, adottando un curriculum nazionale e venendo pagate dal Governo.   La Signora Thatcher ha fatto questo per scelta politica, conoscendo come gli enti locali era in mano al partito socialista.  Nel mese di luglio, se ben ricorso, ho appreso che il sig. Tony Blair ha deciso che le scuole diventino fondazioni, cioè enti pubblici a sé stanti!.   E’ un’applicazione della proposta fatta nel 1990, alla Conferenza sulla scuola, da Sabino Cassese . Cassese prevedeva allora 15 anni per l’attuazione dell’autonomia delle scuole. Ne sono già trascorsi quattordici. Fare che le scuole enti pubblici a se stanti, significa cambiare tutta la faccia della terra! Ma significa, finalmente, portare alle scuole la responsabilità della loro gestione. Oggi la responsabilità non ce l’ha nessuno, se escludiamo la responsabilità formale, che, appunto, è formale!. La responsabilità deve risiedere in chi fa gestisce, in chi lavora.

Il secondo punto strategico è l’assunzione dei docenti che deve essere di competenza della scuola. A me piace molto la formula inglese, che ho approfondito (come Scuola Salesiana ci incontriamo a livello europeo: in Europa esistono più di 1300 istituzioni scolastiche salesiane, con moltissime scuole). La scelta dei docenti deve essere fatta dalla scuola: verrà istituita commissione, un comitato; la scuola bandirà un concorso pubblicio, ma la scelta e l’assunzione dei docenti deve essere di competenza della scuola. In questo modo è la scuola che risponde dei risultati, la scuola con il proprio capo, il consiglio di amministrazione, il dirigente. Questo è decisivo.   Leggendo il terzo rapporto sull’autonomia delle scuole della LUISS e della Fondazione San Paolo mi ha consolato sotto questo punto di vista: tutti i relatori sono d’accordo sul principio che i docenti siano scelti dalle scuole.

Sugli organi collegiali solamente una battuta. Il punto decisivo è che, entro alcuni principi fondamentali, la competenza è delle singole scuole.  Sugli organi collegiali, dobbiamo distinguere tra competenza di gestione e competenze professionali.   La competenza di gestione del Consiglio di Amministrazione e del Dirigente.  I docenti hanno competenza professionale e non hanno alcun potere di gestione: rispondono unicamente dal punto di vista penale.   Qual sembra l’orientamento governativo attuale? Sembra che il Governo stia scegliendo la strada giusta, con una scelta graduale dei docenti da parte delle scuole.  Non so quanti anni ci vorranno! Tuttavia questo pare l’orientamento ed è corretto: «se io devo rispondere, devo anche scegliermi chi lavora con me. Quando io rispondo a chi si iscrive alla mia scuola - e quell’insegnante mi allontana i ragazzi – devo poter intervenire. Se quel docente non rende, ma i genitori, che almeno per i loro figli sono accorti, scelgono un’altra scuola! E la scuola che fa? Sta a guardare? Tutti hanno il posto garantito!!!

La questione di fondo.  C’è un problema di fondo, per garantire l’autonomia delle scuole: chi paga le scuole? chi le sovvenziona? Ragioniamo di scuola che erogano il servizio pubblico dell’istruzione.  Voi sapete che chi paga compra: quindi, se le paga lo Stato, è lo Stato che le compra; se paga la Regione, è la Regione che le compra e. quindi, le gestisce.   Ricordo molto bene ciò che mi disse tempo fa Vittorio Campione, che, pur su posizione diverse. stimo moltissimo:  “Se noi – lo Stato - paghiamo gli insegnanti, li assumiamo noi”. Dalla legge Daneo-Credaro è così!

Il denaro pubblico, che proviene dalle tasche di privati cittadini (non dallo Stato, che non produce!) deve passare attraverso la scelta delle famiglie e degli studenti: bisogna sovvenzionare le scuole in base al numero di studenti iscritti e frequentanti. Si elaboreranno parametri, algoritmi (indirizzo di scuola, territorio): non sono cose astratte e sono già in atto in Polonia, dopo l’esperienza comunista, e, prima ancora in Austria. Qualche anno fa sette Confindustrie europee hanno fatto questa proposta.

I diritto di scelta e il diritto-dovere soggettivo all’istruzione e alla formazione è delle persone degli studenti (legge n. 5/2003, articolo 2, comma 1, lettera c, che interpreta l’articolo 34 della Costituzione; il diritto-dovere di educare e istruire i figli è originario dei genitori (Costituzione articolo 30, comma 1).  E’ questo il punto. Il rapporto tra genitori (alunni) e scuole dovrà diventare un contratto di prestazione scolastica regolato dal codice civile. Lo Stato è solamente garante, non gestisce (non solamente lo Stato-persona, ma anche la Regione, la Provincia, il Comune).

I genitori non governano le scuole,come non governano le cliniche: si servono, secondo il principio di sussidiarietà della competenza professisonale di terzi.   La soluzione del problema sta nel rovesciare la prospettiva. Sono gli alunni che scelgono la scuola, che determinano il flusso di denaro. Per tutte le scuole, non solo per quelle non statali, ma anche per quelle di Stato. Vinca la migliore. Mantenere una scuola che non funziona non ha senso: è uno spreco! 

I diplomifici? Esistono sia presso scuole di Stato che presso scuole non statali. Perché? Dipende quasi sempre dalla pubblica amministrazione: senza di questa un gestore non è in grado di organizzare una scuola. Tempo fa dissi ad una persona che conosce bene le cose: «Vuoi che andiamo noi a fare la visita ispettiva in quella scuola? Sai ciò che scriveremmo! E perché il tale Ispettore ha scritto cose molto diverse da quelle che vi avremmo documentato noi?». Un direttore generale chiude una scuola perché diplomificio. Poco dopo la magistratura la fa riaprire!

Il controllo.  Un controllo pubblico va esercitato sulle scuole autonome. La valutazione dell’INValSI è una forma di accreditamento, sia per le scuole non statali che per le scuole di Stato che svolgono un servizio pubblico. Infatti le scuole che risultassero inferiori ai livelli essenziali delle prestazioni dovrebbero giustificare il perché: se non garantiscono un servizio decente, non devono continuare. Le modalità sono da stabilire. Si deve valutare il valore aggiunto di una scuola, ma tutte devono pervenire almeno ai livelli essenziali delle prestazioni.

La gestione della qualità è di competenza delle scuole autonome, non di altri! Lo Stato può obbligare le singole scuole autonome ad autovalutarsi, secondo modelli riconosciuti oppure a certificarsi: il questionario di sistema dell’INValSI raccoglie i risultati di queste autovalutazione o certificazioni per garantire l’offerta complessiva del servizio pubblico dell’istruzione (lettera b, comma 1, articolo 3, legge n. 53/2003).  Non perché la scuola è di Stato automaticamente garantisce un servizio pubblico valido.

Per concludere.  Non c’è assolutamente bisogno degli uffici scolastici regionali, vanno tolti, sono un doppione del Ministero. Se il personale è gestito direttamente dalle scuole, no ce n’è di bisogno. Lo ha riconosciuto anche Alessandro Pajno nel primo rapporto sull’autonomia delle scuole della LUISS.  Mi fermo qui.

 

 

Pellegatta.  Ringrazio padre Bordignon, che con la passione e la concretezza che lo caratterizzano nelle battaglie di questi anni, ci ha prefigurato un’immagine di governo  e di soluzione di problemi della scuola di tendenza, su cui ragionare, con delle provocazioni interessanti, di fronte alle quali spesso la risposta è: “Non è possibile, se facciamo così non funziona”. Mentre invece sarebbe interessante ragionare su queste provocazioni proprio dal punto di vista della loro maggiore funzionalità rispetto all’organizzazione attuale. C’è spazio solo per paio di interventi, prima di valutare se i relatori vogliono replicare.  Volevo chiedere di intervenire a Mario Guglietti, vice presidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e responsabile per i dirigenti scolastici della Cisl scuola.

 

Mario Guglietti.  Siamo messi in un atteggiamento di interrogazione, di disegno di scenari, oltre alla condivisione sostanziale delle analisi che sono state sviluppate sul piano giuridico, sul piano istituzionale, anche con puntuali riferimenti alla presa di posizione della Corte Costituzionale. Su questo c’è piena condivisione, sia per quanto riguarda la difesa, il valore sostanziale di questo principio di autonomia che tutti sembra vogliano, che tutti abbiamo difeso e sostenuto, e tutti ci rallegriamo che sia entrato a far parte del nostro ordinamento e sul concetto della libertà, che è altrettanto un valore sostanziale nel quale ci riconosciamo, soprattutto noi che viviamo in questa area politica e culturale.

Mi preoccupano soltanto alcuni aspetti:  il mio non è un contributo ma un’ulteriore domanda, e forse se gli autorevoli relatori vogliono esprimere la loro posizione gliene sarò  grato. Tra le varie questioni accennate, si è fatto anche riferimento al fatto che la scuola debba essere governata dalla comunità e quindi dai soggetti che la pongono in essere. Soggetti tecnico-professionali, soggetti utenziali, a proposito dei quali, e soprattutto sul ruolo della famiglia, visto che sono stati richiamati autorevoli principi di natura costituzionale, anche io voglio richiamare l’articolo 30 della Costituzione, che anche nella collocazione viene prima del 33 e del 34. Tale articolo affida alla famiglia, con due termini molto precisi anche nella loro collocazione, i genitori hanno il dovere e il diritto di  mantenere, istruire, educare i figli. Quindi un valore fondamentale da cui si legittima l’atteggiamento non solo di partecipazione indistinta, ma anche di cooperazione sostanziale delle famiglie e degli alunni alla gestione della scuola. Sta venendo fuori dai vostri interventi un’esigenza: la vera autonomia della scuola, dopo i 15 anni a cui faceva riferimento Cassese, (ma cominciamo a contarli dal 2000, cioè da quando è entrato in vigore il dPR 275 sull’autonomia), , arriverà quando le scuole, con certe garanzie, avranno la facoltà di scegliere i propri docenti. La scuola, dice Petrolino, non il dirigente, ma la scuola comunità. Questo, però è un discorso che va avanti, per cui si capisce perché la scuola-comunità, a fondamento della propria autonomia, della propria libertà abbia la possibilità di scegliere i propri docenti, e non si capisce perché, poi, non possa scegliersi anche i propri dirigenti. Qui si dice che le scuole sono veramente autonome e libere quando avranno la possibilità di scegliersi i propri docenti. Qualcuno dirà: e i dirigenti? Ecco la domanda: il nostro ordinamento, alcuni anni fa, ha introdotto una legge, quello sullo spoil system, per cui ha creato questo sistema piramidale, per cui il Ministro sceglie i suoi direttori degli uffici regionali su base fiduciaria, il che significa sulla base di fedeltà politica, il dirigente generale regionale sceglie e dà gli incarichi dirigenziali ai dirigenti scolastici su altrettanta base fiduciaria, quindi con una piramide. Mi dite, voi, relatori, come questo ordinamento, che così enfatizza il ruolo dell’autonomia e della libertà delle scuole attraverso il meccanismo dello spoil system, se non crea un sistema piramidale gerarchico, politico, con tutte le sottolineaure che ha fatto Petrolino, da chi sta al vertice, dove autonomia e libertà rischia di diventare un flautus vocis?

 

Don Bruno Bordignon.  Sono d’accordo: anche i dirigenti vanno scelti dalla scuola, perché se c’è un Consiglio di Amministrazione nella scuola, questo può eleggere anche il Capo d’Istituto. Non vi è problema da questo punto di vista.  Mi interessava spendere ancora una parola su questo: di fronte all’autonomia bisogna avere il coraggio di andare avanti. Il Governo deve procedere, non può fermarsi. Ogni stasi è estremamente deleteria.   Ormai le organizzazioni sindacali - a me dispiace dirlo – hanno perso la battaglia dal punto di vista culturale e  non cambiano atteggiamento: sono in una posizione conservativa, di retroguardia.   Il Governo non riuscirà a convincere. E’ importante è che si scelga di andare avanti, fino in fondo in questa direzione. Bisogna governare i problemi che nascono, ma andare avanti. Chi rimane a metà del guado, scontenta tutti e rischia di rovinarsi.

Una parola sulla parità: vanno approvate le norme generali sull’istruzione anche con riferimento alle scuole paritarie. La legge n. 62/2000 è fuori dall’attuale Costituzione. All’inizio della legislatura sono state fatte tante promesse: c’è bisogno di risultati. La Costituzione riconosce alle scuole «piena libertà» (articolo 33, comma 4), mentre alla libertà di iniziativa economica solamente la «libertà» (articolo 41). Parlare di norme generali sull’istruzione significa che l’accertamento da parte dell’autorità competente alla presa d’atto dovrebbe rivestire solo carattere di discrezionalità meramente tecnica, rivolgendosi non tanto al fine positivo di constatare l’idoneità della scuola all’assolvimento dei compiti voluti, quanto a quello negativo di escludere l’insuscettibilità di poterli adempiere. Quindi, in linea con la giurisprudenza costituzionale, soltanto un accertamenti negativi, non attinenti alla idoneità degli insegnamenti e dell’organizzazione di questi.  Il principio gradualmente dirompente in questa direzione è rappresentato dal Piano dell’Offerta Formativa contenuto nell’articolo 3 del DPR 275 del 1999 che per me è stato il capolavoro di Berlinguer.  Grazie.

 

Pellegatta. Se il preside Petrolino vuol riprender qualcosa.

 

Antonio Petrolino.   Non mi sottraggo alla provocazione che ha lanciato il collega Guglietti. Vorrei dire diverse cose, molto rapidamente. Non ho, personalmente, niente in contrario, sul piano concettuale o teorico, a che le scuole si scelgano anche i dirigenti, a condizione che sia chiaro in funzione di cosa.   Il problema non è: siccome le scuole devono potersi scegliere gli insegnanti, allora devono potersi scegliere anche i dirigenti, per una questione di simmetrie o di automatismi geometrici. Ricordo che in altri sistemi (quello inglese, quello scandinavo, quello olandese) le scuole o i consigli di Amministrazione delle scuole si scelgono i capi d’Istituto, e se non vanno bene li sostituiscono; c’è quindi una simmetria ed una coerenza rispetto a quanto accade per gli insegnanti.   Ma quel modello è coerente anche con un altro presupposto, che non è stato evocato e che è importante ricordare: e il presupposto è che il capo d’Istituto così scelto è garante, verso chi lo sceglie, dei contenuti dell’educazione. Vale a dire che la libertà didattica degli insegnanti è solo di secondo livello, in quanto si svolge all’interno di un mandato che è stato affidato al Capo d’Istituto. Il discorso della scelta del Capo d’Istituto da parte del committente del servizio educativo significa che, a quel punto, è lui il garante del progetto rispetto alla comunità.

Se il discorso deve essere questo, mi sta bene in toto, non in parte: cioè non mi sta bene che il capo di istituto sia scelto dal Consiglio di Amministrazione, o dalle scuole in senso lato, solo per fare da capro espiatorio, privo di qualunque potere di incidere. Se è scelto per assicurare l’applicazione di un certo progetto educativo della comunità, mi sta bene. Accetto la responsabilità, insieme con il potere di farvi fronte; altrimenti si tratta di un discorso puramente ricattatorio, o, se non vogliamo usare questo termine, di uno spauracchio da agitare per fermare anche l’altra prospettiva. Ecco, questi sono i termini in cui sono d’accordo.

Se invece parliamo dei termini in cui sembra vada realizzandosi l’autonomia all’interno delle norme che esistono in Italia, il discorso si pone in maniera leggermente diversa, perché, nell’ordinamento italiano, è riconosciuta agli insegnanti una libertà didattica estremamente vasta, che non voglio mettere in discussione.   Dico solamente che se, all’interno di questo modello in divenire, al capo d’Istituto è affidata, come ora, una funzione di garante di legittimità, del rispetto delle norme, questo non rende automaticamente necessaria una sua scelta da parte dell’istituzione scolastica. Se si cambia il modello, d’accordo: il problema è sapere perché e in funzione di cosa lo si vuole fare. Se lo si vuole fare nell’ottica che ho evocato prima, non ho nessuna riserva di principio; se lo si vuol fare in un’ottica del tipo “due pesi due misure”, non sono d’accordo, perché non ne vedo la funzionalità. Ora come ora, del processo educativo sono responsabili solo gli insegnanti: il preside è responsabile soprattutto degli aspetti giuridici, normativi, amministrativi, gestionali, ecc. In questo contesto, evidentemente, il problema non si pone; in termini diversi si porrebbe e avrebbe correttamente la risposta che è  stata indicata.

 

Pellegatta. Ringrazio per la chiarezza e sinteticità, assessore Benesperi.

 

Paolo Benesperi.  Sono molto vicino e amo molto le posizioni di Tony Blair e il suo coraggio, e mi ha fatto molto piacere che padre Bordignon l’abbia citato. Credo anche sarebbe molto utile all’Italia qualche dirigente politico con il coraggio e il fegato di Tony Blair, e la scuola ne gioverebbe molto. Il problema, questo è il contenuto del mio piccolo intervento finale, aldilà di tutti quelli che sono stati evidenziati, non è nemmeno il contrasto sulle soluzioni è l’inerzia. Questo è il vero problema che abbiamo, è l’inerzia che colloca la scuola nella paralisi e nell’indecisione e la rende precaria. Questo è il vero problema. Lo dimostro con un esempio. La legge 13 dice: le competenze sono delle regioni però le regioni debbono legiferare, ci vuole una legge regionale. Noi ci stiamo apprestando a varare questa legge regionale, non so se ce la faremo entro la fine della legislatura, però almeno la giunta regionale proporrà la legge regionale di risposta alla sentenza 3 della Corte Costituzionale, il che vuol dire che sulla regione, dopo questa legge, ci saranno tutte le competenze sulla programmazione, nella situazione attuale si assegnazione degli insegnanti, ecc. Il problema che avremo è il seguente: con quale personale e con quale risorse gestiremo queste nuove competenze? Ovviamente non siamo così pazzi di allargare l’organico della regione di non so quante decine di dipendenti per gestire queste funzioni. Allora c’è una soluzione, è l’unica possibile è quella che noi chiamiamo dell’avvalimento e cioè vi sono strutture del Ministero della Pubblica Istruzione, le famose direzioni regionali, che stanno lì, che questa funzione non eserciteranno più, noi chiediamo di avvalerci di queste strutture. Questo no può essere fatto solo con la legge regionale, ci vuole una convenzione tra la regione e il ministero della Pubblica Istruzione. Ma voi credete che sarà facile convincere in Ministero della Pubblica Istruzione a sottoscrivere una convinzione d iquesto tipo? L’esperienza mia di questa legislatura mi porta ad una risposta decisamente negativa, perché in realtà, e con questa ultima osservazione termino, il segno dei tempi, attuale, non è mica la devolution, e non è mica il federalismo. Ancorché sembri che il punto del dibattito politico nazionale sia devolution, federalismo. Non è questo il segno dei tempi, ma il segno dei tempi è stato, in questa legislatura, esattamente, l’opposto. E’ stato il centralismo, sia nei confronti delle regioni, sia nei confronti delle autonomie scolastiche. Vi faccio due esempi. La funzione di erogare contributi alle scuole paritarie, non per dettato del titolo V, ma per dettato del 112, è delle regioni,  ma alle regioni sul canale finanziario per esercitare questa funzione, dallo Stato alle regioni non è arrivata ancora mezza lira. E’ tutto ancora nelle mani del Ministero. Secondo esempio: la competenza regionale, è sull’intera istruzione, è persino banale dirlo, ora, non è solo istruzione professionale, formazione professionale regionale e il resto dello stato. Non è così. Il titolo V dice che tutta l’istruzione, dal punto di vista regolamentare e programmatore-amministrativo è delle regioni. L’argomento sul tavolo de il Ministero non è stato questo. L’argomento delle discussioni tra regioni e Ministero, sul tavolo del Ministero è stata l’istruzione professionale, la formazione professionale, ve la passiamo, il resto rimane statale. Al ministro Moratti,  della quale ho un grandissimo rispetto, ho potuto dire: “Se è così, si tenga tutta l’istruzione”. Spezzare l’istruzione in una parte regionale e in una parte statale è il peggior male che potremmo fare al sistema scolastico. Questa è la situazione attuale, questo è il vero punto, ed è molto preoccupante, anche per chi siede in questo tavolo, per il trasferimento dei poteri sul territorio e il rafforzamento dell’autonomia scolastica lungo quei concetti di sussidiarietà verticale e orizzontale che abbiamo spesso citato. Grazie.

 

Pellegatta.  Ringrazio gli intervenuti e mi permetto di riprendere alcuni punti per una breve conclusione, che conclusione non è, perché quel che abbiamo fatto è delineare con chiarezza un quadro su cui continuare a ragionare, a lavorare, dei punti di riferimento interessanti, molto più comuni tra noi di quanto si poteva pensare. Il metodo di dialogo sulla concretezza si rivela così  fecondo per il bene della scuola. Da qui vorrei partire, se permettete, per alcuni conclusioni veloci. Dire che la scuola è patrimonio di tutti, come in modi diversi ognuno ha detto, è veramente dire un principio, un’affermazione che non è astratta, non è teorica. L’istruzione, l’educazione, come è stato detto, appartiene alla persona, appartiene al singolo,  e aggiungiamo noi, la persona fatta di legami, che la costituiscono, che la rendono radicata ad una storia e questo significa anche riconoscere una storia, una tradizione un punto di partenza per rispondere adeguatamente alle domande che abbiamo detto. Questo significa riconoscere che le realtà a cui la persona appartiene sono punti di riferimento, come anche la legge Moratti dice al suo inizio, per affrontare il problema di chi è protagonista nel fare la scuola, nel realizzarla, nel governarla. In questo senso, mi sembra che la risorsa principale su cui occorre investire, dentro la pluralità di soggetti ai quali la scuola appartiene, sono coloro che operano dentro la scuola.  L’avete detto tutti, le scuole paritarie ci mostrano quanto questo sia vero, l’abbiamo noi anche scritto in un documento consegnato a luglio al Ministro: non esiste autonomia senza possibilità di reclutamento degli insegnanti, dei dirigenti da parte delle istituzioni scolastiche autonome, fatte salve alcune garanzie, come ha detto giustamente Petrolini.  Arrivare a riconoscere questo significa rischio, fiducia verso la capacità e la dignità delle persone.

Allo stesso modo è atto di fiducia, rischio nel senso nobile del termine, riconoscere che il governo della scuola non debba appartenere all’apparato, ai rappresentanti dello Stato (i dirigenti qualcuno dice) ma ai rappresentanti delle famiglie, delle comunità locali,  Certo è un atto di rischio, ma che scaturisce dall’anima stessa del processo educativo, dal riconoscere questa libertà che voi, con mio stupore, avete richiamato. Sulla fiducia, sul rischio positivo, sulla scommessa direi su questi soggetti occorre provare ad immaginare le risposte che avete già iniziato a dare. Certo un’organizzazione della scuola attorno ai principi di autonomia e libertà non significa anarchia e licenza, ma solo se la scelta dei modelli di reclutamento e di governo nasce  dalla fiducia che i soggetti direttamente coinvolti nella scuola siano capaci di costruire un bene comune. Quindi un governo delle scuole e delle loro risorse più vicino a chi lavora ed a chi utilizza la scuola, un governo di tutte le risorse, come ha suggerito padre Bordignon, magari sulla base dei numero di iscritti di una scuola. Per questo occorre però un’economia dell’istruzione basata sulla valutazione del merito, della qualità; un’organizzazione dell’amministrazione che, lungi dal creare nuovi centralismi regionali, come è stato ricordato, decentri l’uso e il controllo delle risorse facendo però dell’istituzione scolastica il fulcro del nuovo modello di scuola.

Ma tutto questo lavoro di riforma, di ripensamento del modello di governo della scuola al quale positivamente ognuno di voi ha dato questa sera il proprio contributo, è un lavoro che trova per ognuno di noi una radice che va ben al di là di meccanismi economici ed istituzionali. E’ una tensione, come ci sta insegnando in questi giorni il Meeting, è una tensione costante al meglio, che non ha fine, che scaturisce dall’interesse per la persona e per questo non ha fine, perché nessuna persona è riducibile ad alcun modello organizzativo o meccanismo istituzionale. I vostri interventi di oggi dimostrano (e ve ne ringraziamo tutti)  che ci sono grandi risorse umane nella scuola, di chi lavora per tendere costantemente al meglio, al suo miglioramento. Questo ci fa sperare  che non vincano quelle forze che vogliono la difesa dell’esistente e il rifiuto di un miglioramento.  Ci spinge assieme e per ognuno in questo, lo sa bene chi lavora nella scuola, una ragione che eccede l’atto stesso del nostro impegno. Soprattutto a questa ragione DiSAL vuol dare attraverso il proprio contributo, attraverso una concreta solidarietà professionale per ritrovare costantemente non solo ragioni di un lavoro positivo ma anche risposte solidali alla professione.

 

(Alcuni testi non sono ancora stati rivisti dai relatori)

 
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