Dibattito/Giovani e lavoro in Italia e Germania


Più di un giovane su tre non fa il lavoro che voleva

Impegni slegati dal livello di istruzione. Appena il 10% di chi studia ha un reddito autonomo, in Germania sono il 50%

Corriere della Sera  -  18.09. 2012- di Enrico Marro

 

ROMA - Fondamentale per la crescita dell'economia è «il capitale umano», come dicono quelli che vogliono fare bella figura. L'americano Gary Becker, dimostrandolo con i suoi studi, ci ha vinto il premio Nobel per l'economia nel 1992. Ma il concetto è comprensibile a chiunque: più è alto il livello di istruzione e formazione dei lavoratori più ciò andrà a vantaggio del sistema produttivo, a patto di utilizzarlo. Bene, da noi il capitale umano non è né elevato né ben impiegato. Una costante nella storia d'Italia, che spiega non poco della perdita di competitività del 20% negli ultimi dieci anni rispetto alle altre economie dell'area euro. Lo sottolinea il Rapporto sul mercato del lavoro che verrà presentato oggi al Cnel, Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, presieduto da Antonio Marzano. Nel testo, messo a punto dal centro studi Ref diretto da Carlo Dell'Aringa, una lunga parte è dedicata a spiegare il problema, con particolare riferimento ai giovani.


Due i dati da cui partire. Primo: in Italia solo il 10% dei giovani (20-24 anni) associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro livelli superiori al 60% in Danimarca e vicini al 50% in Germania e Regno Unito e al 25% in Francia. Perfino in Spagna sono oltre il 20%. Secondo: a segnalare il drammatico scollamento tra mercato del lavoro e sistema scolastico ci sono 5,2 milioni di lavoratori nella fascia tra 15 e 64 anni, cioè uno su quattro, «che risultano sottoinquadrati» nel lavoro rispetto al loro livello d'istruzione. Tra i giovani, sono uno su tre. Insomma: il capitale umano è sia sottoutilizzato, basti pensare alla disoccupazione giovanile (il 20,2% nella fascia 18-29 anni nel 2011), sia male utilizzato, tanto che da un lato molti posti di lavoro vengono coperti dagli stranieri e dall'altro «centinaia di nostri giovani affollano le università del mondo anglosassone».

Chi studia non lavora
«La questione giovani è un tema estremamente delicato», esordisce il rapporto del Cnel, perché qui la crisi economica ha colpito duramente, causando un forte aumento del tasso di disoccupazione in tutti i Paesi europei. In Italia però, «persiste una cultura - unica in Europa - che ancora separa nettamente il momento formativo da quello lavorativo. Solamente il 10% dei ragazzi coniuga il percorso di studi ad una qualche esperienza lavorativa» e ciò, ovviamente, «contribuisce a rendere la transizione scuola lavoro più lunga e difficile».
Troppo tempo per trovare un lavoro
Nei Paesi che invece hanno «da sempre sostenuto un mix di istruzione e lavoro (si pensi ad esempio ai Paesi scandinavi oppure a Germania, Austria e Svizzera) si sono registrati livelli di disoccupazione giovanile più bassi e la transizione scuola-lavoro tende ad avere tempi più brevi». Mediamente in Italia per trovare il primo impiego ci si mette più di due anni, 25,5 mesi per la precisione. In Germania ne bastano 18. In Danimarca 14,6, nel Regno Unito 19,4. Solo in Spagna stanno peggio di noi, con un'attesa media di quasi tre anni (34,6 mesi). Stesso trend anche se si calcola il tempo medio prima di trovare un lavoro a tempo indeterminato. In Italia ci vogliono quasi quattro anni (44,8 mesi). In Danimarca solo 21,3 mesi, ma lì non c'è l'articolo 18 (ora attenuato dopo la riforma Fornero) e le aziende possono licenziare facilmente. In Germania per un lavoro stabile si attendono in media 33,8 mesi, nel Regno Unito tre anni.
«I giovani che hanno appena completato gli studi - osservano i ricercatori - se restano per un periodo lungo in condizione di inattività, tendono a registrare un deterioramento del loro capitale umano». Inoltre, «la ricerca di un posto può portare alcuni ad accettare lavori per i quali sono richiesti requisiti inferiori rispetto al percorso scolastico seguito: è il fenomeno dell' over education ».


Un lavoratore su quattro fuori posto

Ora, è difficile in astratto sostenere che in Italia vi sia un problema di sovraistruzione, visto che nelle classifiche internazionali il nostro Paese si segnala per i bassi livelli di laureati e diplomati. Ma se si guarda a quelle che sono le richieste del nostro sistema produttivo, le cose cambiano. Sottolinea il rapporto Cnel che «per circa un quarto degli occupati tra i 15 e i 64 anni (5,2 milioni di persone) si registra, nel 2011, una mancata corrispondenza tra il titolo di studio conseguito e la professione esercitata». Un fenomeno che riguarda meno i lavoratori anziani e più quelli giovani, che sono più istruiti. «Il 35,2% degli occupati con meno di 35 anni è impiegato in lavori che richiedono una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta, mentre tale percentuale scende al 12,6% per gli occupati dai 55 anni in su».
Il fenomeno assume inoltre «la maggiore intensità tra le giovani laureate, che in quasi metà dei casi risultano sottoinquadrate». E tra i diplomati: dei 5,2 milioni di occupati male utilizzati, quasi tre quarti possiedono il diploma e il resto la laurea. Infine, nel Mezzogiorno il rischio di sottoinquadramento è maggiore per chi ha un diploma rispetto al Nord industriale mentre per i laureati del Sud il pericolo non è solo quello di non trovare un lavoro adeguato, ma di non trovarlo affatto.
In questo quadro non stupisce una certa ripresa dell'emigrazione, in particolare intellettuale, il cosiddetto brain drain . «Siamo sempre più un'economia che perde lavoratori qualificati ed attrae dall'estero lavoratori con qualifiche basse, esattamente il contrario di quanto stanno facendo i nostri maggiori concorrenti».


La fuga dei cervelli

Il sistema delle piccole imprese, che domina l'economia italiana, «non riesce a creare sufficiente numero di posti di lavoro qualificati, per cui, da un lato ci si trova a importare manodopera non qualificata dall'estero mentre, dall'altro, si assiste da tempo a una fuga di cervelli». Tra il 1992 e il 2000 c'erano circa 100 mila italiani che sceglievano ogni anno di emigrare all'estero mentre nel decennio successivo «la media è di circa 200 mila, e i numeri reali sono sicuramente superiori perché molti non segnalano lo spostamento di residenza, almeno in una prima fase». Tanti hanno meno di 40 anni «e la maggior parte di loro sono laureati». A peggiorare la situazione c'è poi la «mancata corrispondenza tra le competenze richieste dal sistema imprenditoriale e gli indirizzi di studio seguiti da chi si presenta sul mercato del lavoro». Un « mismatch molto diffuso nel nostro Paese», di cui fanno le spese in particolare «i laureati dei gruppi geo-biologico, letterario, giuridico e psicologico», che aspettano anni prima di trovare un lavoro, cosa che per esempio non accade ai medici e agli ingegneri.


Il trampolino è rotto

Chi trova lavoro, qualunque titolo di studio abbia in tasca, lo trova di norma a tempo determinato. È normale all'inizio. Quello che non è normale è non riuscire a passare a un lavoro stabile. L'analisi, dice il rapporto, «evidenzia come l'occupazione a termine abbia ridimensionato il suo ruolo di trampolino o comunque passaggio per entrare nell'occupazione permanente e abbia invece creato un segmento a sé stante di occupati». Se prima della crisi quasi il 29% degli occupati a termine diventava permanente l'anno successivo, «ora questo vale per il 23% dei temporanei» mentre coloro che finiscono disoccupati sono saliti dal 16 al 19%.


I Neet

Chiudono il cerchio i Neet ( Not in employment, education or training ), «i ragazzi che non hanno un'occupazione e al tempo stesso non sono a scuola o in formazione». Nella fascia di età fra 15 e 29 anni in Italia sono il 24% rispetto a una media europea del 15,6%. In Germania l'11%, in Francia e Regno Unito il 14,6%. Nel nostro Paese parliamo di oltre 2 milioni di giovani. Di questi il 36,4% hanno perso un lavoro o non lo trovano, ma il resto sono «inattivi» o «scoraggiati». Il fenomeno dei Neet è particolarmente preoccupante, conclude il Cnel, nella fascia tra i 25 e i 30 anni, cioè tra i «giovani-adulti». Qui quelli che non studiano e non lavorano sono in Italia il 28,8%. Capitale umano inerte.

 

 

Attività intellettuale, il mito che si sgretola

Dario Di Vico – 18.09.2012 - Corriere della Sera

 

Quasi tutti i tentativi legislativi che abbiamo fatto nel tempo per cercare di avviare al lavoro i giovani e alternare le loro esperienze tra studio e pratica si sono risolti con il classico buco nell'acqua. E il ritardo nella comparazione europea deriva, almeno in parte, da questa incapacità bipartisan.
Del resto troppo spesso nel discorso pubblico italiano si è portati a sopravvalutare l'effetto delle nuove leggi sulle dinamiche reali del mercato del lavoro, si coltiva l'idea che il diritto sia un passepartout. Basta modificare una norma e la società automaticamente si adatta. Non è così, ciclo giuridico e ciclo sociologico non è detto che coincidano, anzi.
I cambiamenti della cultura del lavoro delle famiglie italiane sono lenti e di conseguenza la tempistica dell'adeguamento dei loro comportamenti non è prevedibile. Detto del metodo però è giusto sottolineare come la scelta fatta negli ultimi anni (e ribadita dalla legge Fornero), di puntare sullo strumento dell'apprendistato per favorire l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, sia sensata.
È troppo presto per operare bilanci ma deve essere chiaro che non possiamo aspettarci miracoli. Gli strumenti legislativi che abbiamo messo in campo vanno accompagnati con altri interventi di carattere culturale, proprio per incidere sulla concezione del lavoro che hanno sia i padri sia i figli e che non è influenzata dal dibattito politico né da quello giuslavoristico.
In Italia veniamo da un lungo periodo in cui il lavoro manuale è stato schivato, messo da parte, considerato utile tutt'al più per impiegare/stabilizzare i nuovi immigrati. È passata l'idea che rifuggire dalla manualità equivalesse di per sé a una sorta di mobilità sociale verso l'alto, che fosse da preferire una laurea qualsiasi a un posto sicuro e ben remunerato nell'agricoltura, nel commercio tradizionale, nell'artigianato.
Le famiglie hanno generosamente finanziato quest'illusione e per paradosso stiamo assistendo ancora oggi ad esercizi commerciali e piccole imprese che chiudono perché la staffetta generazionale si rivela impossibile. Avviene in Brianza non a Roma ed è tutto dire. I figli rifiutano il lavoro dei loro genitori considerandolo eccessivamente duro e soprattutto socialmente non gratificato.
La crisi però sta spazzando quest'illusione e il rapporto del Cnel racconta come dalla fine del 2011 il tasso di disoccupazione sia aumentato anche perché si è ingrossato il numero di coloro che cercano lavoro. Le famiglie oggi possono essere paragonate a degli ascensori sovraccarichi, non ce la fanno più a portare tutti ai piani superiori e qualcuno a questo punto deve scendere e salire a piedi. Fuor di metafora deve mettersi a cercare un posto di lavoro senza tutte le pregiudiziali di qualche anno fa.
Se queste sono le dinamiche in corso l'operazione che dobbiamo fare è quella di accompagnare il rilancio del lavoro manuale con il mutamento della sua immagine. Qualcosa sta camminando con varie iniziative sul territorio e con il protagonismo dei soggetti più diversi. Dalla Fondazione Cologni che organizza in Lombardia e Lazio tirocini formativi per giovani nei mestieri d'arte al progetto «Botteghe di mestiere» lanciato da Italia Lavoro, dalla rete creata nel Nordest da Stefano Micelli con la parola d'ordine del «futuro artigiano» al movimento dei giovani makers che stanno dando nuova linfa generazionale non solo alla piccola manifattura ma anche al terzo settore.
Sono tutte iniziative che vanno incoraggiate e sostenute perché il cambiamento alla fin fine si costruisce così.

 
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