Dibattito/Berlinguer: autonomia e tipicità della dirigenza scolastica


Per collaborare ad un aperto dibattito sul futuro della figura del dirigente scolastico, sia in relazione ai suoi compiti che al suo posto nella dirigenza pubblica, riprendiamo le parole che, durante il suo ministero, Luigi Berlinguer disse con garbo, ma con chiarezza, al V congresso dell’A.N.P.  Come Associazione professionale che ha tentato di rilanciare con un articolato Manifesto un serio dibattito sul rinnovamento della dirigenza scolastica, ci riconosciamo molto nelle sottolineature che in questo intervento venivano fatte sull’autonomia e sui capi di istituto. Purtroppo il proseguo politico ha accantonato entrambi i cammini, che oggi ritornano ad essere urgenti per aiutare la scuola italiana ad uscire dalla sua crisi. (DiSAL)

 

Intervento del Ministro della Pubblica Istruzione
Luigi Berlinguer - Chianciano   28 novembre 1999

(…) L’idea di autonomia non ha ancora ha fatto cultura, non ha fatto ha fatto mentalità. Ancor oggi la sento ripetere in tutte le assemblee in cui vado, e sono numerose, alcune centinaia ormai: e lasciano una certa traccia non soltanto fra gli studenti. Lo stesso corpo docente non ha vissuto con molta gioia il fatto che noi abbiamo cominciato con l'autonomia.
Anche la cultura politica, o partitica, sulla scuola non ha visto l'autonomia come un tema appassionante. Come sapete, il tema che appassiona di più fra i partiti è la questione pubblico-privato, che non c'entra niente col pubblico e privato, ma è ugualmente il tema dominante. Io considero questo, se posso dirlo con franchezza, come un segno di arretratezza della cultura scolastica in Italia, di provincialismo, perché ormai questo dramma ce l'abbiamo solo noi: gli altri paesi l'hanno superato, anche con difficoltà, ma sono ormai al riparo di quella tematica. Bene, io credo che sia stato opportuno presentare quelle proposte, e sostenerle in Parlamento anche con qualche determinazione: che sia stato giusto proporre il tema dell'autonomia e quello della dirigenza, inevitabilmente collegato con esso.
E voglio rivendicare un'altra cosa: noi l'abbiamo fatto con un solo articolo di legge. Voi conoscete l'esperienza del passato, fatta di leggi pandette, cioè di leggi-regolamento, costituite di numerosissimi articoli, che scendevano in tutti i dettagli. Con questa scelta abbiamo cominciato a creare cultura giuridica. 

(…) Detto questo, però, il cammino successivo di traduzione di molte di queste norme in regolamenti si è presentato arduo. Voi sapete anche quanto questo è costato. Vi faccio solo l'esempio del regolamento di attuazione dell'autonomia didattica e organizzativa: la lunghezza del suo percorso, il fatto che siamo ricorsi ad una registrazione con riserva in Consiglio dei Ministri, perché la Corte dei Conti non lo voleva lasciar passare. In questo è la spiegazione di quel comma del collegato: è puramente tecnica, tecnico-giuridica. Io lo dico continuamente: noi abbiamo nella Corte dei Conti un censore che ha un'idea del diritto non in linea con le esigenze del momento attuale. Non si riesce ad accettare l'idea di un diritto che si evolve, che interpreta una realtà complessa, che sta dentro un fase di transizione: si resta ancorati all'idea di un diritto che va avanti per tabulas, per carte, è quindi è completamente fuori dalla natura dinamica dei processi giuridici, non soltanto sociali ed economici, di questo paese. (…)
Ebbene, noi siamo oggi di fronte alla sfida della sua attuazione, per trasformarlo in comportamenti prima ancora che in fatti, o insieme ai fatti: il che vuol dire farlo diventare cultura, farlo diventare mentalità. (…)  Io penso che le resistenze oggi ci siano e siano molto pericolose e che queste difficoltà siano rilevanti. Quindi ho anch'io la stessa preoccupazione, anche se essa non arriva ad essere un elemento di freno e non abbassa il tono della determinazione. (…)  Ci sono, se posso dirlo, delle diversità anche nella vostra categoria, ci sono persino diversità di maturazione, di sensibilità. E questo costituisce un altro rischio perché talvolta basta un'iniziativa improvvida da qualche parte per determinare delle conseguenze non positive. Tuttavia anche per questo le best practices, il fatto di avere anche dentro la vostra categoria, nella dirigenza, un corpo robusto di persone decise, convinte dell'autonomia, decise e convinte del nuovo ruolo, sono le vere carte che possiamo giocare. Ne sono profondamente convinto. In questo senso, cari amici, noi siamo nella stessa barca perché, se non nell'intero corpo scolastico (ciò che, all'inizio, sarebbe poco realistico), in una serie di punti strategici, maturano esperienze positive, di interpretazione coraggiosa ed avanzata del processo in corso e delle norme che lo regolano.
Vedete, a proposito dei corsi di formazione, io sono stato abbastanza fermo nel definire l'idea che essi non dovessero avere un carattere selettivo. E sono convinto quindi che dovessero avere un'altra funzione: quella di mettere i capi di istituto nelle condizioni di riflettere collegialmente, prima di far decollare l'autonomia, sulle novità e sulle implicazioni nuove del profilo professionale del dirigente, che non è totalmente diverso da quello del capo di istituto, ma che ha in sé delle differenze sicuramente rilevabili. (…) Ora sta per iniziare la seconda fase dei corsi, quella più collegiale, quella che io chiamo seminariale, in cui i dirigenti sono protagonisti e non ascoltatori. Le agenzie devono imparare a farli parlare, a farli colloquiare, a farli esprimere, attraverso il case study, attraverso l'analisi delle esperienze che circolano, concettualizzando la singola esperienza, riflettendo sul rapporto fra la teoria che esiste, che va rispettata, e le esperienze pratiche. Però vi chiederei un aiuto da questo punto di vista: sarà bene che nella vostra organizzazione sia diffusa questa esigenza di restituire protagonismo, più di ieri, ai partecipanti ai corsi per capitalizzare l'esperienza di ciascuno e porla in circolo, nelle forme che certamente esistono nella nostra cultura, cioè quelle del seminario, chiamiamolo così in termini un po' impropri. Ciò può, secondo me, darci il vantaggio, il risultato, di imprimere in quest'ultimo momento una spinta positiva all'andamento dei corsi.
A questo proposito ho bisogno di dirvi con franchezza un'altra cosa, e spero di dirla in modo da non sciupare quella gentilezza con cui mi avete accolto quando sono entrato nella sala. Dietro l'idea che l'autonomia non esiste senza la dirigenza, c'è la convinzione che l'autonomia fa emergere una organizzazione complessa come è un'istituzione scolastica, con le sue sfaccettature, con l'eterogeneità dei soggetti che la compongono, con il bisogno di un rapporto con il territorio che è anch'esso fatto di eterogeneità. E poi, non per molti di voi, ma comunque per la categoria, c'è una novità: quella del capo di istituto che si apre e dialoga, e persino negozia e, in qualche modo, si confronta con il territorio, ne sfrutta le potenzialità. Quest'organizzazione complessa ha bisogno prima di tutto di esprimersi come organizzazione e qui emerge la necessità un profilo che contenga la capacità di organizzare. E questo è dirigenza.

Che cos'è dirigenza, se non il fatto che non si tratta di svolgere un ruolo individuale, anche se di rapporto con una scolaresca? Dove sta la differenza professionale con il ruolo di docente, che pure deve essere un presupposto? E dove sta anche la differenza anche con il recente passato? Sta proprio in questa nuova complessità, a cui l'autonomia assegna tutte le potenzialità possibili. Perché un'organizzazione eterodiretta, rigidamente organizzata, con programmi dettagliati, con orari fissi e con tutto specificato da qualcosa che viene preparato a monte, abbassa il tasso di organizzazione diretta e quindi il bisogno di dirigenza. Il fatto che l'autonomia fa in qualche misura espandere le potenzialità di ciascuna istituzione, e persino la prevede come differenziata e non come piattamente omogenea, esalta il ruolo della dirigenza.
Noi di questo siamo convinti. Ma questa è la ragione per cui abbiamo chiamato questa figura dirigente, un po' per analogia con il resto del mondo pubblico, ma anche per la pregnanza del termine, che è intimamente connesso con la funzione di direzione didattico-organizzativa. Lasciatemi dire, cosa c'entra questo con il termine manager? Cosa c'entra un tentativo di omogeneizzazione che può rischiare di diventare di appiattimento con altre forme di dirigenza, per realtà in qualche misura distinte, che hanno una diversità, hanno in comune la complessità organizzativa, ma hanno distinti i ruoli, hanno distinti i soggetti che stanno dentro, hanno distinte le sensibilità e persino la finalità vera, che è quella di produrre cultura e di educare giovani generazioni? Ma le parole, ahimè, sono pietre: ed ecco che il termine manager si trascina dietro una vecchia eredità di sospetti ideologici, residui postumi di prevenzioni che la parte più sensibile del paese ha ormai metabolizzato, ma che persistono ed avvelenano. Io sono convinto che chi governa processi nel mondo pubblico ha una sua specificità. Nel mondo pubblico, badate, e non solo in quello scolastico. Per questo penso che noi abbiamo bisogno di insistere su questo termine, non soltanto perché le parole sono le forme attraverso le quali si comunicano i concetti, ma anche perché i termini hanno spesso un effetto che va oltre la stessa intenzione di chi li pronuncia, e poi perché questo sicuramente è più scientificamente e culturalmente consono alla specificità della dirigenza pubblica.
Andate quindi rispettati per questa funzione delicata, che vi si chiederà di svolgere nel modo dovuto, che voi giustamente rivendicate di poter svolgere nel modo dovuto. Il profilo tuttavia va definito in questo modo. E c'è un'altra cosa che voglio dirvi, sempre legata al rischio, alla necessità di portare fino in fondo questo processo in modo culturalmente molto dignitoso, anzi ambizioso, di cultura dell'organizzazione, intendo. E' un altro pallino che io ho, e ve lo devo esternare. Qualcuno di voi me l'avrà già sicuramente sentito dire: noi abbiamo bisogno di un altro punto fermo. Il processo di autonomia è un processo di dinamizzazione della vita interna della scuola, anzi di vitalizzazione, oserei dire persino di introduzione di vivacità. E' un processo di animazione della vita della scuola. Però la scuola resta la scuola. La scuola è il luogo in cui si va ad imparare. Nell'equilibrio proprio di un'istituzione scolastica, nella quale il bambino e il ragazzo inizia e svolge il suo itinerario intellettuale per imparare, per investire le proprie risorse intellettuali nella conoscenza, incontra anche un altro momento, che è quello della socializzazione, perché sta in comunità numericamente più ampie, conosce persone diverse da quelle che il nucleo familiare sempre più ristretto gli ha consentito di avere in contatto. Ci sono paesi che hanno affidato alla scuola una funzione prevalentemente socializzatrice. Ci sono paesi che hanno affidato alla scuola, oltre al processo di socializzazione, una funzione prevalentemente cognitiva e quindi di istruzione. Noi apparteniamo a questa seconda tradizione. Bene, l'autonomia non deve infrangere questa seconda condizione.
La scuola è prima di tutto il regno della cultura, dello studio e della fatica che l'accompagna. Non mi stanco di dire che non accetto la tesi di coloro che dicono che la scuola non deve essere nozionistica, perché se non ci sono le nozioni c'è l'ignoranza, e basta. Io sono convinto che le nozioni da sole non bastano: ma se non ci sono è un disastro. Noi dobbiamo arginare certe tesi di deteriore neo-sociologismo secondo cui la bontà dell'anima, la ricchezza interiore del fanciullo, il fatto che il ragazzo si deve esprimere, la fantasia e la vivacità sono la risorsa prima. Perché avrà dietro di sé il vuoto. Vi parla un vecchio professore. Io so di avere una parte non a me favorevole. Dentro una certa cultura pedagogica, un certo apparato ministeriale, a volte mi guardano come un alieno. Dico questo perché ho avuto delle esperienze di scuola americana, sia familiari sia di studio. Quando vedo che il coach, l'allenatore, in quei paesi ha un peso infinitamente superiore a quello che hanno i docenti, penso che noi abbiamo una vita sportiva bassissima, e che questo aspetto nella nostra scuola costituisce un deficit di cultura. Ma una cosa è dire questo, altra cosa è invece dire che lo spirito dell'équipe, lo spirito del team sportivo deve prevalere, perché prevale il momento di socializzazione.
Ed ancora io amo dire, e mi perdonino coloro che l'hanno già sentita: se noi introduciamo elementi di vivacità e di animazione nella scuola, dobbiamo evitare che quell'animazione sia quella del Club Mediterranée. Io vedo che voi sorridete, come se questo non sia un pericolo: ma questo sta diventando un pericolo. Non freniamo l'autonomia, non freniamo la vivacità della scuola nuova, però attenzione. Cito un altro esempio: un vostro collega mi ha presentato un progetto intitolato “L'acqua”, molto interessante: interdisciplinarietà, vari modi di studiare il bene prezioso. Io gli ho chiesto “Senta, ma i ragazzi la matematica la imparano? L'italiano lo imparano?”. Mi va benissimo il progetto “L'acqua”: però l'autonomia non è l'acqua, è una cosa meno preziosa ma più densa: è l'insieme dell'attività formativa; investe la didattica di tutte le discipline; investe la mattina e il pomeriggio, non è solo offerta aggiuntiva. I giornali hanno detto “autonomia uguale settimana corta”. Loro hanno questa straordinaria capacità di semplificare tutto, di ridurre tutto in pillole e quindi, in qualche modo, di far velo a quella che è la realtà vera. Il problema che noi abbiamo è che bisogna fare dell'autonomia uno strumento di maggiore qualificazione dell'impianto scolastico propriamente detto, cioè della sua funzione di istruzione e quindi formativa. In Italia il termine “education” non si può tradurre. “Education” significa istruzione, come voi sapete, e quindi sottolineerei questo aspetto. Vedo che questo tema comincia a circolare di più. Ve ne aggiungo un altro.
Nel nostro corpo docente ci sono tantissimi docenti bravissimi, che hanno un carattere schivo, che passano la propria vita in classe, che sono dediti essenzialmente all'insegnamento, che non desiderano fare della vita sociale della scuola il punto centrale, però amano molto l'insegnamento, non chiedono mai di essere esonerati e così via; questi hanno meno vivacità di altri, i quali sono invece propositivi di iniziative, grandi organizzatori, parlano più spesso nelle assemblee, si vedono di più. C'è una parte dei vostri colleghi che li ama, c'è un'altra parte che ama di più quegli altri. Io personalmente ho più amore per quegli altri, ma mi vanno bene tutti. Ci vogliono anche gli animatori. Le funzioni obiettivo le abbiamo inventate noi. Io sono convinto che vanno fatte. Però, badate bene, la cosa principale si fa in classe. Non l'unica, ecco l'errore, non l'unica: ma si fa in classe. Se noi mettiamo insieme queste cose, allora io sono convinto che uno dei rischi di appiattimento nella attuazione dell'autonomia si può evitare. Perché allora possiamo capitalizzare tutta la ricchezza di un impianto completamente nuovo.
(…) Voi avete un'altra questione, che è poi quella che qualche docente amico mi suggerisce in modo più popolare quando mi trova per la strada, o mi viene a trovare, e mi dice “però adesso datti una calmata”. Lei lo dice con un linguaggio da dirigente, ma la sostanza è questa. La dirigenza sta soffrendo in questo momento di un'overdose normativa. Però lei subito dopo ha detto “con i cicli faccia in fretta”, poi ha detto “con il decreto legislativo faccia in fretta, il ministero lo riformi in fretta”. Lei, dicendo questo, ha interpretato il povero sottoscritto, perché alcuni dati normativi lui ha bisogno di acquisirli adesso. Come lei ha detto, “ma se si sciogliessero le Camere subito?”: per la riforma dei cicli si ricomincerebbe daccapo, ed è già successo in tutte le legislature precedenti, nessuna esclusa. (…)  Io poi mi auguro che altrettanto succeda per il disegno di legge sulla parità scolastica. Per quanto riguarda la riforma del Ministero, io sto per licenziare alcuni provvedimenti che riguardano la sperimentazione in quattro o in cinque regioni italiane del dirigente generale regionale, e quindi del superamento del provveditore.  (…)  Se tutto questo riesce a stare al riparo di qualunque tipo di turbolenza politica, credo che questo obiettivo si possa realizzare con questi tempi e con questo impianto. Allora l'idea dell'autonomia avrà davanti a sé un altro tipo di amministrazione. Questo poi significa che deve anche cambiare la mentalità dell'amministrazione, deve cambiare la cultura, dobbiamo tradurre il tutto in termini operativi. Nessuna riforma seria si fa con la bacchetta magica, si fa da un giorno all'altro, con un colpo solo. Però il processo può andare molto avanti.
(…)   L'ultima cosa. Lei ha detto una parola che mi è molto piaciuta “il processo di autonomia è irreversibile”; io dico: che Dio l'ascolti. Perché glielo dico? Perché ho visto dei casi in cui cose date per acquisite, a seconda di come vengono gestite, non dico che saltano in aria, ma si stemperano, o prendono strade diverse, al punto che risultano rischiose. C'è una garanzia che va aldilà del Ministro pro tempore, dell'equilibrio politico pro tempore, poiché il processo di autonomia ha inevitabilmente bisogno di un range, di un arco di tempo che supera il pro tempore. C'è una sola garanzia: che voi ci aiutiate a fare in modo che i docenti e i dirigenti si comincino a divertire e a gustare l'autonomia, a farla diventare cosa propria, perché allora non torna più indietro. La attuano nel modo giusto, la radicano dentro la scuola, la fanno diventare comportamento, cultura e pratica. Perché allora non si sciupa più di tanto. Quello che io mi auguro è che l'autonomia adesso, con quei paletti, con quelle preoccupazioni, con quel warning che io qualche volta ho richiamato anche qua, proceda diventando il modo di essere della scuola. 
 

 
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