Dibattito/Riforma e Buona scuola: dimenticata dignità percorsi professionali


Tuttoscuola  -  18 marzo 2015

Giuseppe Bertagna a Tuttoscuola: caduti gli steccati ideologici
'Copiati' alcuni aspetti delle riforme Moratti-Aprea. Ma sugli ordinamenti Renzi si muove con prudenza 'democristiana'. Irrisolto il problema della pari dignità dei percorsi formativi.

Abbiamo chiesto al prof. Giuseppe Bertagna, pedagogista, direttore del Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università di Bergamo, già consigliere del ministro Moratti e ispiratore della riforma legata al nome di quest’ultima, una sua valutazione complessiva sul disegno di legge ‘La Buona Scuola’.

E’ una riforma di destra o di sinistra?

La scuola è sempre stato un bacino elettorale della sinistra. L’avvento di Renzi al governo e al partito non ha prosciugato questo bacino, ma semmai l’ha allargato. L’aspetto inedito è che, tra Job Act e Buona Scuola, il presidente del consiglio è riuscito nell’impresa accreditandosi con principi e parole simbolo che, finora, avevano suscitato negli elettori e nei dirigenti scuola del Pd e della sinistra in genere o deprecazioni quasi pavloviane o pregiudiziali reazioni di rifiuto”.

Può fare qualche esempio?

Parlare di personalizzazione dei piani di studio, rendendoli più flessibili e con più offerta di internet/informatica, inglese, arte, musica e sport. Collegare in maniera sistematica scuola e impresa. Rendere obbligatori l’alternanza scuola lavoro e, soprattutto, valorizzare come non mai l’apprendistato di I e III livello. Valutare gli insegnanti in base al «merito» e introdurre l’idea di una «carriera» non più fondata soltanto sugli scatti di anzianità.  Istituire gli albi professionali regionali dei docenti e, udite udite, - sottolinea Bertagna - la loro chiamata diretta da parte dei dirigenti che vedono aumentare significativamente il loro potere monocratico. E infine lanciare un seme, un semino sì, ma esplicito, per certi occhi politicamente corretti addirittura quasi impudico, di vero trattamento scolastico equipollente tra gli studenti delle scuole statali e paritarie del primo ciclo. Tutti argomenti da marce di protesta e occupazioni, a sinistra, nel sindacato e nel mondo studentesco, ad inizio secolo”.

Si può dunque parlare di una svolta radicale?

Nemmeno l’osservazione di aver ‘copiato’ papale papale questi principi e queste parole simbolo dalla politica scolastica dell’accoppiata Moratti Aprea imbarazza non tanto e non solo il presidente del consiglio, ma perfino i parlamentari e i dirigenti di partito che, prima, erano all’avanguardia nella linea del ‘resistere, resistere, resistere’. Ora il muro dell’impronunciabile è davvero varcato. I tradizionali steccati ideologici caduti. È senza dubbio un risultato che fa bene alla sinistra e a chi lavora, magari da tempo, per introdurre nel nostro sistema educativo autentiche prospettive di cambiamento, non di semplice manutenzione del passato. Bisognerà pur ricordare, infatti, che abbiamo un sistema di istruzione e formazione ancora fermo, nonostante tutte le parole e le riforme di segno contrario, sul piano strutturale, ad obsoleti paradigmi culturali ed organizzativi del secolo scorso. E alcuni perfino di inizio secolo scorso”.

La ‘Buona Scuola’ non fa abbastanza per andare oltre questi paradigmi? Al piano governativo e al presidente Renzi viene imputato un eccesso di novità, un certa imprudenza…

La strategia del capo del governo è tuttaltro che imprudente. È bene attenta, al contrario, a dosarla con una gestione e un realismo del potere  che si potrebbero definire ‘democristiani’. Da qui, per esempio, il suo non andare ai noccioli duri, quelli ordinamentali, della riforma. Troppo dirompenti per gli equilibri parlamentari, sindacali ed elettorali attuali. Il piano delle assunzioni straordinarie lo conferma. Poteva legarlo, come si propose inutilmente nel 2001-2002 e come ha recentemente rilanciato Lorenzo Bini Smaghi, al ridisegno su 12 anni degli attuali 13 anni di studio pre universitario. Un caso ormai unico al mondo. E invece si lasciano gli ordinamenti del primo ciclo e del secondo ciclo come sono. Con una gestione coraggiosa dell’autonomia, delle risorse umane, della personalizzazione dei piani di studio e della valutazione interna ed esterna, si poteva al contrario aumentare la qualità dei risultati di apprendimento nel primo e nel secondo ciclo di istruzione e, allo stesso tempo, costringere le università ad usare i migliori docenti della secondaria per ‘allineare’ la preparazione delle matricole a livelli coerenti con le richieste qualitative dei diversi corsi di studi, così da abbattere l’abbandono universitario e, in particolare, l’incredibile e costosa abitudine italiana di finire in media le lauree a 24 anni e le lauree magistrali a 27.

Qualche novità importante però si nota anche per quanto riguarda gli ordinamenti. Per esempio l’accento posto sull’alternanza scuola lavoro e l’apprendistato dai 15 anni in avanti.

Molto bene. Ma, da un lato, la competenza dei docenti a insegnare senza lasciare separati, quasi due esperienze parallele, lo studio e il lavoro, non si improvvisa. Ha bisogno di una radicale riforma della loro formazione iniziale e in servizio. Occorre che l’una e l’altra siano pensate e praticate in una maniera che ancora non c’è. E che anche nel primo ciclo di istruzione diventi consueta non certo l’alternanza scuola lavoro, ma l’alternanza formativa tra compiti scolastici e compiti sociali, tra l’osservazione di processi di lavoro e la loro formalizzazione critica a livello teorico, tra esperienze attive di laboratorio e di aula.  Dall’altro lato, esiste un’incompatibilità fin troppo evidente tra la pratica ordinaria di questa metodologia formativa e l’attuale modo di organizzare le cattedre, gli orari settimanali e annuali, i piani di studio e i singoli insegnamenti disciplinari.”

Riemerge un antico problema, quello della ‘pari dignità’ dei percorsi formativi che nessuna riforma, neanche quella della Moratti, che pure la affermava in linea di principio, ha mai saputo affrontare.     

Se si connette la Buona Scuola con la nuova riforma costituzionale in arrivo (che affida alle Regioni solo la ‘formazione professionale’, cancellando la dizione vigente) si comprende come si spinga all’asfissia il sistema della ‘istruzione e formazione professionale’ secondario e superiore delle regioni introdotto con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001-2003. In sostanza, infatti, lo si riduce a ciò che era dalla fine degli anni ottanta: un ospedale da campo per i falliti dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali quinquennali dello Stato. E’ vero: ha funzionato in maniera egregia, salvando dalla dispersione un sacco di giovani ed assicurando loro un lavoro sicuro e qualificato  sostanzialmente in due regioni, la Lombardia e il Veneto. Ma sarà interessante verificare se questa strategia neo statalistica e neocentralistica farà bene ai giovani, sarà in grado di assicurare al paese la pari dignità dei percorsi formativi e, soprattutto, colmerà il vero buco nero del nostro ordinamento: l’assenza di un organico e prestigioso sistema di istruzione e formazione professionale superiore parallelo e concorrenziale a quello universitario”. 

 

 
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