Prove Invalsi: farsi giudicare fa bene alla scuola


Boicottaggi a parte, il problema di valutare un sistema

Non sono crocette. I test Invalsi misurano la scuola, così qualcuno ha fifa

da Il Foglio – 14.05. 2015 di M. Crippa

Mamme che tengono a casa i bambini perché ci sarà "una tracciabilità nel tempo delle prove dei nostri figli". Cobas in sciopero contro "Lo strumento base su cui cammina la riforma", dimenticando però che si fanno dal 2007. Prof che fanno "sciopero di mansione", tuttora vanamente in dubbio se rientrino nei loro compiti di lavoro o no (risposta: sì). E ragazzini del biennio che scrivono sul foglio #nonsiamocrocette. La rivolta dei masanielli contro i test Invalsi è uno di quegli spettacoli che inducono inevitabilmente alla polemica, al corsivo. Ma poiché lo spazio è poco e i (mis)fatti si spiegano da sé, si dirà solo l'essenziale.

Quelle pretestuose rivolte sono la fotografia di una società che è la scuola, ma non solo refrattaria al giudizio, alla valutazione. A concepirsi in termini di merito, di capacità di evoluzione e di miglioramento. Un sistema in cui gli elementi frenanti sono solidali l'uno con l'altro. E' più utile provare a spiegare perché i test Invalsi, buoni o cattivi che siano (c'è chi sostiene siano cattivi, e con argomenti non trascurabili dì metodo e di merito), non sono inutili e vanno fatti.

Come pure vanno fatti i test Pisa (Programme for international student assessment) quelli si dedicati a misurare gli studenti lanciati nel 2000 dall'Ocse per valutare l'apprendimento in matematica, scienze e capacità di lettura dei ragazzi di 15 anni in tutto il mondo.

Anche quelli vengono spesso contestati, forse perché (ancora nel 2012) il punteggio degli studenti italiani è stato di 485, sotto la media Ocse (494). Il tema centrale è questo (e bene ha fatto ieri Renzi, nel suo video sulla scuola, a sculacciare il partito del #nonsiamocrocette).

La valutabilità, o meno, di un sistema nel suo complesso. Che si tratti dei risultati scolastici degli studenti (Pisa) o dell'efficacia didattica, come è lo scopo degli Invalsi. Creare concorrenza tra le scuole (e tra gli studenti) per molti è ancora un tabù, ma nessuno più nega che una scuola "che funziona" sia meglio di una abbandonata al caso, o a se stessa.

E per avvicinarsi a un modello che funzioni c'è bisogno (anche, è il minimo) di standard di misurazione da cui partire. L'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (un nome che uccide di burocrazia, e vorrà dire qualcosa) è da sempre criticato, con i suoi test, soprattutto perché i risultati non avrebbero efficacia comparativa: diverse le realtà sociali e geografiche, diversi i metodi di insegnamento.

Luca Ricolfi, anni fa, fu uno dei primi a denunciare anche "la tenacia con cui gli insegnanti colludono con gli studenti", dipendente dall'idea "che una 'classe che va male' segnali un 'insegnante che non sa insegnare'. Idea parente del senso di colpa per cui "se un ragazzo non ce la fa la colpa è innanzitutto della scuola, che non l'ha motivato, non l'ha sostenuto, non l'ha aiutato, non l'ha recuperato".

Da qui nascono tante posizioni banali, spesso dei sindacati, che chiedono di "non buttare soldi" con i test Invalsi e di spenderli per il recupero della dispersione scolastica, come se questo problema fosse un male dì stagione, senza rapporto con quello che si fa o non si fa a scuola. Si potrebbe, piuttosto, obiettare che le valutazioni a test non sono sufficienti, e anzi sono fuorvianti.

Negli Usa c'è un forte dibattito sul Common Core, un sistema di test con lo scopo di offrire a livello federale un feedback sull'apprendimento, per poi orientare le performance verso uno standard unico. Un approccio secondo molti sbilanciato sul problem solving e su una eccessiva parcellizzazione del sapere, nonché limitativo della libertà di insegnare.

Purtroppo in Italia siamo lontani anni luce dal poterci dedicare a questi dilemmi. Da noi c'è solo un sistema che si pretende ingiudicabile se non da se stesso ("l'autovalutazione" è un mostro che sta rientrando nella "Buona scuola"). Che rifiuta di sottoporsi a verifica per la paura di (far) scoprire che la scuola A nella regione B è diversa dalla C nella regione D.

Quando l'ex ministro Carrozza suggerì di estendere alle università il test Invalsi, fu accusata di voler "imporre un particolare modello di scuola escludente, incapace di valorizzare le differenti intelligenze". Spiegare che non è così, direbbe Dante, "è duro calle".

 

 

Invalsi e dintorni oltre il boicottaggio e i video di Renzi

Farsi giudicare fa bene alla scuola, altro che bavagli. Lezioni da Harvard

da Il Foglio – 14.05. 2015 di R. Bitetti

Roland G. Fryer ha vinto qualche giorno  fa la Clark Medal, uno dei più prestigiosi  premi accademici americani e ottimo  predittore di futuri premi Nobel.

Di solito gli accademiei411 successo non riempiono  le pagine dei giornali, ma ciò che rende  "notiziabile" la storia di Fryer è il fatto di  essere cresciuto ìn un ghetto, e di aver avuto  un'adolescenza turbolenta, segnata da  vari crimini, e ciò nonostante aver avuto  una folgorante carriera accademica, culminata  con la tenure a Harvard. In realtà  questo sogno afro-americano è molto meno  interessante della sua pagina di pubblicazioni,  tutte volte a fornire dati e prove per  migliorare il sistema educativo ed in particolare  di ridurre il divario di rendimento  scolastico fra studenti più e meno fortunati. 

"Il nostro obiettivo è di eliminare l'achievement  gap e di chiudere bottega", recita  il mission statement del suo Education  Innovation Lab. Un problema molto sentito  negli Stati Uniti, ma che certo non scompare  in Italia: se si incrociano i risultati  dei test Ocse Pisa sulle competenze degli  studenti con variabili socio-economiche e  geografiche, ne esce fuori che il sistema  educativo italiano esaspera queste differenze  di partenza invece di ridurle (Longobardi  & Pagliuca, 2013). Cosa si può fare  per migliorare la scuola pubblica?

Due studi di Fryer sono particolarmente interessanti.  "Teacher Incentives and Student  Achievement" (2011) analizza i risultati empirici di scuole pubbliche dello stato di  New York che hanno introdotto incentivi  monetari per stimolare maggiore impegno  nei docenti. Sorprendentemente, il risultato  nel miglioramento dei risultati degli studenti è stato statisticamente irrilevante: in  alcuni casi c'è stato un peggioramento.

Gli incentivi economici non contano? Non esattamente. Questi risultati infatti contrastano con la letteratura su numerosi progetti  simili in paesi in via di sviluppo, in cui gli incentivi economici individuali risultavano ìn una migliore performance degli  studenti. Perché gli incentivi non funzionano in America? Una spiegazione  avanzata da Fryer è che nelle scuole analizzate,  fortemente sindacalizzate, si è deciso per un meccanismo di remunerazione di gruppo. Se gli studenti ottenevano risultati  migliori nei test standardizzati, l'intero  corpo docente riceveva un bonus, frazionato fra i suoi membri in base alla posizione ricoperta nell'istituto.

Ma questo sistema  non ha funzionato: se il premio non è  obiettivo dell'azione del singolo docente ma del gruppo, si crea un incentivo a fare free-riding, aspettando che agiscano gli altri. 

Il collegamento fra maggior impegno e  migliori risultati deve essere chiaro per  motivare i comportamenti virtuosi: insomma,  la carota motiva quando è grossa, in  bella vista, e posso raggiungerla con i miei  sforzi. Per quanto l'aspirazione ad introdurre  requisiti di merito per l'avanzamento  di carriera dei docenti ne "La Buona  Scuola" sia sicuramente meritorio, è nei  dettagli che si nasconde il diavolo, e i dettagli  di come funzionerà questo meccanismo  sono poco chiari.  Gli incentivi inoltre, non possono essere solo positivi, devono essere anche negativi. 

Fryer ci ricorda che è difficile identificare ex ante quali sono gli insegnanti più produttivi: si tratta di caratteristiche non osservabili. 

I concorsi dovrebbero selezionare quelli-che le hanno,, ma non sono necessariamente una soluzione, visto che non sempre chi sa sa insegnare. Chiunque abbia frequentato una scuola pubblica italiana  avrà avuto almeno un professore che  leggeva il giornale, o i cui metodi d'insegnamento erano tali che sarebbe stato meglio leggesse il giornale.

Per questo, oltre ad una migliore selezione all'ingresso e ad incentivi chiari per chi lavora meglio, è importante sfidare anche il dogma dell'impossibilità di rimuovere dal servizio gli insegnanti con una scarsa performance. 

Un aspetto implicito in tutto questo discorso è che Fryer può fare queste analisi perché ha la possibilità di misurare i risultati  accademici degli studenti: per creare concorrenza, c'è bisogno di uno standard di misurazione esterno, dei test nazionali standardizzati.

Per valutare l'operato degli insegnanti italiani, oggi possiamo fare solo affidamento sui risultati Ocse Pisa, che escono ogni 4 anni, e sui tanto bistrattati quanto poco sfruttati risultati Invalsi.

La  proposta di riforma del governo purtroppo parla di un Nucleo di autovalutazione: se vogliamo premiare chi lavora meglio dobbiamo valutare il suo output, ovvero i risultati dei ragazzi, e non quanto i suoi colleghi pensano che si impegni. Sempre ipotizzando che la scuola sia pensata per dare le migliori opportunità possibili a chi riceve un'istruzione e non solo condizioni confortevoli per chi ci lavora. 

 

Perché è bene fare (e non temere) le prove Invalsi 

da Avvenire – 20.05.2015 di E. Ugolini

Martedì 12 Maggio ho fatto le prove Invalsi di italiano. Mi sono tenuta un'ora nel pomeriggio per svolgere lo stesso lavoro che avevamo chiesto la mattina ai nostri studenti  di seconda superiore.

I testi erano belli, in particolare quello di Beppe Severgnini, sulla trascuratezza con cui inviamo e-mail piene di errori, e quello di Italo Calvino.

Le domande non erano banali e mi hanno obbligato a tornare più volte sui brani. Non era solo la stanchezza di una giornata di lavoro e i miei pochi neuroni acciaccati a chiederlo, ma anche l'accuratezza di quesiti che imponevano di andare in profondità. 

Le prove Invalsi sono ben fatte, richiedono intelligenza, capacità di costruire inferenze, precisione. doti essenziali per esercitare quel pensiero critico che viene spesso messo in contrapposizione a test condannati in modo troppo sommario come "quiz" fatti per "addestrare" gli studenti e "controllare" i docenti. 

Sarebbe interessante che la discussione sul1'opportunità di far svolgere ai nostri studenti prove standardizzate nazionali entrasse nel merito dei contenuti e delle modalità con cui queste prove vengono costruite. 

Esse sono realizzate da docenti e da esperti sulla base di quadri di riferimento legati alle indicazioni nazionali, e i dati che vengono restituiti, classe per classe, aiutano a fare un  paragone molto utile su ogni singolo argomento. Magari vi fosse la stessa chiarezza su come vengono elaborate le prove di ammissione a Medicina o per le scuole di specializzazione. 

I miei studenti hanno fatto quelle prove con l'idea di svolgere un compito importante insieme a tutti i 513.000 studenti di seconda superiore. Chi può pensare che questo faccia male ai ragazzi e alla scuola? 

Nel fascicolo si chiedeva anche di leggere una pagina che riporta alcuni dati del rapporto pubblicato dall'Istat in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. I grafici che fotografava la distribuzione della popolazione italiana in base all'età chiedevano di uscire dal testo e guardare la realtà in cui viviamo: dal  1861 a oggi la vita media è passata da 35,7 a 79,4 anni per gli uomini e 84 per le donne. Ma questo popolo di anziani che futuro sta  consegnando a questa minoranza di giovani? 

Molto dipenderà da quello che riusciremo a regalare loro in termini di educazione. 

La sfida del terzo millennio non si gioca più sul numero di persone che potranno andare a scuola, ma su quello che impareranno. Le prove Invalsi possono essere un aiuto o un ostacolo per migliorare quel che si fa nelle nostre classi?

La notizia del boicottaggio delle prove Invalsi sembrerebbe rispondere di no. Ma che ragioni può avere questo assenteismo degli studenti indotto dai docenti e permesso dai genitori?

Non può essere utile avere un punto di riferimento esterno con cui paragonarsi?

Vedere nei dati Invalsi una forte differenza fra aree del Paese, tra scuole vicine o tra sezioni può dar fastidio, ma, come ha detto Andrea Ichino, non fare queste prove è come buttare via il termometro sperando così di non avere più la febbre. 

 

 

 

 

 
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