Scuola,
non c’è qualità senza valutazione
I Paesi avanzati, per migliorare
l’insegnamento, compiono molte verifiche sul lavoro dei presidi e dei docenti,
con ricadute immediate sulle carriere. La riforma in discussione, che rilancia
anche l’autonomia, si muove nella direzione giusta
da Corriere
della Sera – 09.06.2015 di A. Oliva
Caro
direttore, è tempo di affrontare un grande paradosso: la scuola pubblica è di
fatto un luogo molto «privato», nel senso che nessuno, al di fuori degli
addetti, sa cosa vi avvenga. Ne sanno qualcosa quei genitori che si preoccupano
di scegliere una buona scuola per i propri figli. Nei Paesi più avanzati invece
si punta su articolati sistemi di ispezione delle scuole che ne rendono
pubblici i risultati; si valutano i presidi sulla efficace realizzazione dei
piani di miglioramento concordati e si valutano i singoli insegnanti meritevoli
con riflessi sulla retribuzione e sulla carriera. L’obiettivo non è la
sanzione, ma la spinta al miglioramento, sostenuta da una formazione in
servizio obbligatoria assicurata in ogni scuola dai colleghi più esperti e di
miglior reputazione.
In
proposito il Governo sembra finalmente aver preso la giusta strada, grazie a
ricerche e dibattiti sviluppatisi negli ultimi 10 anni: ma incontra grandi
resistenze, principalmente da parte dei sindacati che da troppi anni cogestiscono
ogni aspetto della vita scolastica, inclusi aspetti chiave impropri come la
formazione e l’organizzazione della didattica. Questi ambiti andrebbero
riservati a chi deve assicurare la qualità di un vero e proprio «bene pubblico»
come la scuola che non appartiene a chi vi lavora, ma alla comunità civile nel
suo insieme.
Va
detto chiaro che una buona scuola è soprattutto fatta da buoni insegnanti e
buoni presidi; ed è tanto migliore quanto più numerosi sono gli ottimi
piuttosto che gli onesti esecutori che possono e devono migliorare. Quanto a
coloro (per fortuna, pochissimi) che costituiscono un danno per i loro alunni,
una buona scuola dovrebbe allontanarli dall’insegnamento per impedire loro di
nuocere (cosa che da noi non avviene…). Tutte le indagini internazionali ci
dicono che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, le scuole danno
risultati molto diversi: evidentemente la variabile decisiva è la qualità di
chi le dirige e di chi vi insegna.
Riguardo
allo scontro in corso, occorre sfatare alcuni luoghi comuni, tanto diffusi
quanto duri a morire.
1)
Si dice: «la scuola non è un’azienda». È ovvio, ma si tratta comunque di una
«impresa sociale » che richiede lavoro di gruppo, coordinamento ed una guida
autorevole e legittimata, in grado di organizzare in modo efficiente le risorse
disponibili e di dedicare attenzione allo sviluppo professionale di tutti gli
insegnanti.
2)
Si dice: «il sistema scolastico rischia di essere privatizzato». Si tratta di
un grossolano abbaglio: il 95% delle scuole è gestito dallo Stato e solo il 5%
da scuole paritarie. Una percentuale minima, che rischia di azzerarsi in breve
tempo per le alte rette che le famiglie non riescono a sostenere. Il rischio
vero non è la privatizzazione ma quello del monopolio statale, con tutte le
conseguenze dannose dei monopoli, pubblici o privati che siano: rigidità ,
scarsa innovazione, costi crescenti e servizi sempre meno qualificati.
3)
Si grida alla minaccia di un «preside sceriffo»: ma il preside non potrà mai
essere un autocrate solitario. Intorno a lui è prevista una rete di quadri, che
svolgono funzioni intermedie di natura organizzativa e didattica (la cosiddetta
«leadership distribuita») e comunque esiste un Consiglio di istituto (da
rinnovare) a cui rendere conto. Certo, occorre migliorare le modalità per il
reclutamento dei presidi: e uno dei modi consiste nel selezionarli tra i quadri
già verificati per le capacità e per l’attitudine dimostrata ad assumersi
responsabilità organizzative e di coordinamento.
4)
Si dice ancora: gli insegnanti fanno tutti lo stesso mestiere: come e chi li
può valutare e premiare? È vero: fanno tutti lo stesso lavoro, ma sono 700.000
e non sono tutti uguali, né per attitudini, né per competenze, né per impegno.
Il nuovo fondo per il «riconoscimento del merito» che il progetto di legge
mette a disposizione (200 milioni) sarebbe insignificante se distribuito a
pioggia, ma può essere efficace se destinato a quel 10-15% di docenti che
svolgono incarichi speciali o godono di indiscussa reputazione. Se ciò
accadesse, sarebbe una svolta storica e si supererebbe l’egualitarismo che
scoraggia i meritevoli e alimenta una mentalità impiegatizia.
Se
alcune misure attualmente al vaglio del Parlamento si realizzassero senza
troppe mediazioni al ribasso, la qualità della scuola ne trarrebbe sicuro
giovamento, anche grazie al rilancio dell’autonomia che non ha potuto fin qui
dare i suoi frutti in assenza dei necessari strumenti di valutazione di
sistema. Questi strumenti, seppur con diverse modalità , esistono in tre quarti
dei Paesi avanzati di Europa, America e Asia. Sembra più che lecito allora
chiedersi se a sbagliare siano i tre quarti del mondo avanzato o se non valga
la pena di allineare il nostro sistema a quelli, visto che in tutte le indagini
comparative internazionali gli apprendimenti dei nostri studenti risultano al
di sotto della media.
Presidente
Associazione TreeLLLe