Dibattito/L'abolizione del valore legale del titolo di studio


Bloc notes di Michele Magno. Abolire il valore del titolo di studio è sicuramente una scelta di sinistra

Formiche.net  -  17 settembre 2015DI MICHELE MAGNO

In un articolo su il Foglio di ieri che merita di essere letto, Antonio Gurrado spiega perché abolire il valore legale del titolo di studio è di sinistra. Purtroppo, è una battaglia contro nemici forti e agguerriti: gruppi studenteschi, lobby dei docenti universitari, forze politiche di entrambi gli schieramenti. Non a caso l'emendamento alla riforma della pubblica amministrazione presentato dal senatore Pd, Marco Meloni, che apriva al principio di differenziazione degli atenei, è stato sommerso da un coro di critiche pretestuose. Eppure, la condizione del nostro sistema universitario richiederebbe un confronto a tutto campo, non viziato da veti corporativi e pregiudiziali ideologiche. Salvatore Rossi, attuale direttore generale di Bankitalia, ha definito i nostri laureati lunghi «animali domestici allevati per essere cooptati nelle baronie accademiche», e quindi inservibili in un'azienda. Inoltre, in un documentato pamphlet aveva spiegato come la società americana debba il suo dinamismo a un sistema universitario che funziona («La regina e il cavallo», Laterza, 2006). E che funziona non perché è privato, come alcuni sostengono superficialmente. Università prestigiose, come quella di Berkeley, sono infatti di proprietà pubblica. Il sistema funziona in quanto si fonda su regole di mercato: le università si disputano i professori migliori con totale libertà retributiva. L'equilibrio finanziario è assicurato da alte rette e da un esteso meccanismo di donazioni, fiscalmente incentivato. Una quota cospicua delle risorse pubbliche destinate all'istruzione superiore, per altro verso, finanzia direttamente gli studenti sotto forma di borse di studio e prestiti, e non gli atenei (da noi avviene il contrario). Tutte cose note, si dirà. Meno noto, forse, è che negli Usa la spesa pubblica che va all'istruzione postsecondaria è, in rapporto al Pil, quasi doppia di quella italiana. Beninteso, questo modello esclude sia il valore legale del titolo di studio sia il ruolo unico pubblico dei cattedratici. Il primo presuppone e determina l'altro. Il valore legale del titolo di studio, infatti, implica la natura di impiegati pubblici di coloro che devono rilasciarlo. Come osservava Rossi, essi difendono una uguaglianza fittizia, in cui tutti i diplomi sono uguali per legge, tutti i docenti sono uguali, tutti gli studenti ugualmente liberi di parcheggiarsi nelle aule universitarie a tempo indeterminato e a prezzi politici (ma non per i più svantaggiati). Già settant'anni fa Luigi Einaudi aveva proposto di abolire con un semplice tratto di penna il valore legale dei titoli di studio, fatta salva la necessità di una certificazione pubblica per l'esercizio di professioni legate alla salute e alla sicurezza dei cittadini. Per lo statista piemontese era una di quelle riforme a costo zero, coerenti con la migliore tradizione del riformismo liberaldemocratico. Ma che volete: il Parlamento italiano adesso non ha tempo di occuparsi di queste bagatelle. È impegnato in ben più epici scontri, come quello sull'elettività del nuovo Senato. Formiche.net

 

Abolire il valore legale del titolo di studio deve essere una battaglia di sinistra

Per riformare l’istruzione, a questo punto, ci vuole la dinamite

IlFoglio  -   di Antonio Gurrado | 16 Settembre 2015 ore 12:54

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è una battaglia di sinistra. Non perché l’emendamento alla riforma della Pubblica amministrazione, che fa ponderare il voto di laurea in base all’università di provenienza, sia stato presentato dal senatore Pd Marco Meloni; ma perché questo principio di differenziazione degli atenei chiude una ventennale tradizione post-Pci che parte da quando Nicola Tranfaglia dichiarava che l’autonomia universitaria implicasse l’abolizione del valore legale, passa per la proposta Ds di “affievolire” (mah) il valore legale cambiando le procedure di assunzione dei docenti e culmina nel programma di Veltroni che lasciava a ogni ateneo piena facoltà di scelta anche per l’ammissione degli studenti.

 L’applicazione di questo principio però è sempre stata un mito di destra. Nel 2011 un Senato a periclitante maggioranza berlusconiana aveva commissionato un dossier su danni e benefici del valore legale; l’anno dopo il governo Monti aveva azzardato una pubblica consultazione online da cui era però emersa una schiacciante maggioranza conservatrice che riteneva il valore legale non negoziabile. Ciò spiega perché all’atto pratico l’emendamento sia stato sostenuto da Forza Italia mentre le pressioni dei gruppi studenteschi (Udu, Link, Gioventù Comunista, peraltro in disaccordo) causavano il ripensamento del Pd: Francesca Puglisi annunciava che l’emendamento sarebbe stato corretto alla Camera e lo stesso Meloni richiedeva un supplemento di riflessione o serena autocritica.

Non aiuta il voltafaccia della Crui: la Conferenza dei rettori è passata dalla “transizione morbida” verso l’abolizione auspicata dall’ex presidente Marco Mancini al richiamo del successore Stefano Paleari, per il quale il valore legale è un principio cardine, contraddetto dall’emendamento ma impossibile ad abolirsi. Al contrario l’Associazione nazionale docenti universitari ritiene che l’emendamento affossi il valore legale e comporti “l’abolizione dello stato giuridico nazionale dei docenti” nell’ambito dello “smantellamento dell’Università statale da parte di una lobby trasversale accademico-confindustriale che coordina governi, parlamento e grande stampa”.

Il guaio è che il valore legale non è un istituto giuridico. Il dossier del Senato illustra che dal 1933 le lauree sono “qualifiche accademiche” mentre il valore legale s’è imposto transitivamente: “Il titolo di studio non è necessario per l’esercizio della professione bensì per l’ammissione all’esame di Stato, a sua volta necessario all’esercizio della professione”. Quest’inafferrabilità può spiegare le argomentazioni contraddittorie che si levano da entrambi gli schieramenti: ad esempio, il valore legale contrasta col riconoscimento delle competenze dei singoli secondo Andrea Gavosto (Fondazione Agnelli) mentre le tutela secondo un comunicato emesso da Link nello stesso giorno. Complica le cose l’Unione Europea che richiede ai paesi membri una laurea solo per l’esercizio di determinate professioni, mediche e giuridiche per lo più, ma per facilitare la circolazione di studenti e laureati ha imposto di uniformare tutti i programmi d’esame con schemi nazionali di valutazione dei titoli. L’Italia ha sistematizzato l’offerta accademica con un Quadro dei titoli (Qti) che si dirama da “un primo modello prototipale” ideal eterno che però cozza contro un paradosso: la struttura riformata del 3+2 viene ritenuta poco qualificante dall’Ue visto che per le professioni riconosciute uniformemente impone il ciclo unico. Il Qti è quanto di più simile all’effetto concreto del valore legale, ossia che lo Stato garantisca la qualità della formazione secondo standard di idoneità.

Tuttavia per riformare l’istruzione non ci vuole il cacciavite ma la dinamite. Un governo di sinistra deve scegliere se gli convenga seguire l’ideale egualitario dell’equiparazione fra valore legale e valore sostanziale della laurea (ossia impegnarsi a garantire l’eccellenza ovunque, benché impossibile per definizione), assuefarsi al popolo bue del web che vota in massa per mantenere alla pari le università ma poi si sdilinquisce per ranking di atenei messi in fila da dubbie società private, oppure non dare niente per insindacabile e mettere in discussione il valore legale senza i tentennamenti dell’ultimo ventennio: ossia cercare di scremare drasticamente la qualità delle carriere degli studenti risalendo dai diversi livelli delle università indietro fino alla valutazione di ogni gradino della loro formazione, a costo di doversi chiedere se sia ancora utile, oggi, l’obbligo scolastico.

 

 
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