La
guarnigione attende, ma l'autonomia quando arriverà ?
IlSussidiario - 12 ottobre 2015 di G. Chiosso
Quarant'anni
orsono, con l'avvio dell'anno scolastico 1975-76, entrarono a pieno regime i
primi consigli scolastici eletti nel tardo inverno di quello stesso 1975. I
genitori, gli studenti delle scuole superiori e i rappresentanti del personale
amministrativo si sedettero a fianco dei docenti e dei dirigenti scolastici
(allora direttori didattici e presidi) per "partecipare" alla vita
scolastica. Per la prima volta dall'unità d'Italia le scuole aprivano le porte
alle famiglie e riconoscevano uno spazio di "agibilità politica"
(come si diceva allora) alla componente studentesca che cominciò a fruire della
possibilità di tenere assemblee e riunioni autorizzate. Con qualche
ottimismo ci fu chi parlò di una scuola che passava dallo Stato alla
società .
Questa
scadenza — passata finora quasi inosservata — offre l'occasione per qualche
riflessione sulla faticosa e ancora incompiuta transizione verso l'autonomia
scolastica.
Le
nuove norme sull'apertura della scuola alle famiglie erano parte di un
complesso provvedimento legislativo del 1973, attuato l'anno seguente
attraverso la messa a punto di alcuni decreti delegati. I tre più importanti
prevedevano la costituzione, per l'appunto, dei consigli scolastici e di
distretto, la definizione di un nuovo stato giuridico per gli insegnanti e la
creazione di appositi Istituti di ricerca e sperimentazione (gli Irrsae, oggi
Irre).
Si
trattava, detto in breve, di una riforma che rispondeva a varie esigenze emerse
sia dalla contestazione giovanile sia da porre in relazione a un'idea di scuola
che stava irreversibilmente transitando verso l'impianto cosiddetto della
"scuola di massa". La scuola si apriva (moderatamente) ai contributi
della società civile attenuando (ancor più moderatamente) il monolitismo
ministerialista anche mediante la possibilità di sperimentazioni didattiche
gestite dalle scuole stesse.
I
consigli di circolo e di istituto non erano veri e propri organismi di governo
e neppure di gestione, ma rappresentavano comunque un'innovazione interessante.
Imponente fu la partecipazione alle prime votazioni scolastiche con percentuali
di votanti mai più raggiunte in seguito: oltre il 70% tra genitori e studenti,
quasi l'85% tra il personale scolastico. Per settimane, per non dire mesi, sui
maggiori organi di informazione si parlò del futuro della scuola e dei
possibili rapporti con la vita sociale, culturale, produttiva. I lettori più
anziani certamente ricordano le grandi attese che accompagnarono questo
tornante della vita scolastica.
La
realtà fu tuttavia più severa delle speranze. Le scuole faticarono ad
accogliere le novità potenziali; i genitori a loro volta poco alla volta si
disinteressarono dei consigli scolastici perseguendo il proprio
"particulare", la partecipazione al voto e alla vita scolastica fece
registrare una rapida e brusca caduta, i consigli vivacchiarono alla meno
peggio, i distretti furono liquidati dopo averne constatato il fallimento (un
vero peccato perché adesso con la costituzione delle reti di scuole avrebbero
potuto rappresentare un interessante punto di riferimento).
Nonostante
i limiti e l'incerto procedere la prima pietra verso la futura autonomia era
stata comunque sistemata.
Quindici
anni più tardi, nel 1990, si compì un ulteriore e importante passo, ponendo un
altro tassello significativo. In occasione della Conferenza nazionale della
scuola, con una relazione che merita rileggere ancora oggi, Sabino Cassese
sostenne che l'istruzione era una funzione civile, non statale. Fermo restando
gli obblighi dello Stato a provvedere al suo funzionamento, occorreva perciò
riconoscere a ogni scuola il diritto all'autonomia scolastica, organizzativa e
finanziaria, compresa la diretta assunzione dei docenti e la possibilità di
stipulare accordi con privati.
Si
cominciò da quel momento a parlare non solo di "partecipazione", ma
di "autonomia scolastica" e, contestualmente, di processi valutativi
che tenessero sotto controllo il sistema, immaginato sganciato dalla
sorveglianza amministrativa del ministero. Nel 1992 apparve la prima edizione
degli indicatori Ocse sull'educazione e si cominciò anche da noi a pensare alla
messa in campo di rilevazioni ad ampio spettro sui livelli di
apprendimento.
Le
scadenze successive sono più note perché più vicine. Nel 1997 la legge n. 59
all'art. 21 dispose che l'autonomia delle istituzioni scolastiche e degli
istituti educativi si inserisse "nel processo di realizzazione della
autonomia e della riorganizzazione dell'intero sistema formativo",
principio che si tradusse in norme operative con il regolamento del 1999. Dal
1° settembre 2000 l'autonomia scolastica fece il suo ingresso ufficiale. Nel
2001 si avviarono i primi "progetti pilota" in tema di valutazione
degli apprendimenti, nel 2003 fu creato l'Invalsi.
Poco
più tardi il ministero della Pubblica Istruzione in collaborazione con quello
dell'Economia pubblicò il Quaderno bianco sulla scuola (2007)
documento di largo impatto, in specie in materia di valutazione. Nel frattempo
le rilevazioni Ocse-Pisa e Invalsi cominciarono a diventare familiari (e
contestate) nelle scuole. Il resto è cronaca degli ultimi anni.
Questa
breve rassegna suggerisce alcune riflessioni. La prima riguarda la lentissima
maturazione del principio di autonomia, prima, e di valutazione, poi, sempre in
bilico tra vigilanza ministeriale e approcci consuetudinari, tra caute aperture
e tentazioni neocentraliste. Il peso di una lunghissima tradizione ministerialista
ha giocato (e gioca tuttora) un ruolo rilevante. Le radici storiche del
centralismo infatti sono riconducibili non solo all'Unità , ma addirittura a
quasi un secolo e mezzo prima e cioè all'organizzazione settecentesca del
sistema scolastico piemontese codificato da Vittorio Amedeo II nel 1729.
In
secondo luogo il passaggio dalla scuola dello Stato alla scuola affidata agli
attori stessi dell'educazione scolastica si è incontrata (e scontrata) con le
resistenze della burocrazia e con l'atteggiamento dei sindacati —il cui peso
sarebbe ridimensionato da un sistema costituito orizzontalmente e non più
verticalmente —, e con la pigrizia delle scuole, molte delle quali, tutto
sommato, hanno continuato a vivere senza eccessivi problemi nei ritmi delle circolari
ministeriali.
Non
vanno sottovalutate, poi, le poderose spinte di chi resta convinto che
l'istruzione debba restare prerogativa dello Stato in tutte le sue forme,
comprese quelle gestionali, e che solo lo Stato sia in grado di garantire
l'equità formativa. Non danno segni di cedimento, inoltre, le letture
ideologiche del principio della libertà scolastica da parte di quelle forze
politiche (in specie di sinistra) che temono che un'autonomia a regime totale
costituisca la logica premessa per il passaggio del sistema scolastico alla
logica cosiddetta "del mercato".
Sulla
scelta di un'ennesima dilazione del governo Renzi in materia di autonomia,
nonostante tante dichiarazioni in senso contrario (emblematica la rinuncia a
riformare la governance scolastica che resta quella della
"partecipazione" degli anni 70), si possono formulare solo ipotesi e
illazioni. A questo punto la domanda è quasi obbligatoria: quando sarà (se
sarà ) ripreso il discorso?
L'attesa
del compimento dell'autonomia da parte di un'intera generazione di insegnanti
fa pensare al romanzo di Buzzati, Il Deserto dei Tartari e
al suo sfortunato protagonista, il tenente Drogo, che trascorre nel remoto
forte Bastiani l'esistenza scandita da ritmi immutabili in attesa di un evento
invano atteso per tutta la vita che arriverà quando, ormai anziano e malato,
dovrà lasciare la fortezza.