Apprendistato: crisi italiana e modello tedesco


Il dialogo necessario
Scuola e Lavoro, due mondi separati insieme potrebbero accendere lo sviluppo
da Corriere della Sera – 10 novembre 2015
Distanti. Ancora troppo distanti. E se si avvicinano si parlano e si capiscono poco. Perché scuola e lavoro in Italia continuano ad essere due mondi separati. Quando invece, quasi la metà degli studenti vorrebbe maggiori rapporti con aziende e imprese. Non solo. Se 1'88% delle aziende dichiara di avere contatti con il mondo scolastico e universitario, sostiene anche però che questi contatti arrivano troppo tardi. In tutto ciò, insegnanti e genitori sembrano su fronti opposti e anziché collaborare, hanno ognuno una percezione negativa dell'altro. La fotografia è della ricerca Istruzione e conoscenza: occupazione e progresso per l'Italia? realizzata dalla Deloitte che analizza il sistema scolastico italiano e si chiede: «Istruzione e conoscenza, come renderle il motore di sviluppo del nostro Paese?». E lancia un «Manifesto nazionale dell'istruzione e della conoscenza». Come? «L'Italia ha un sistema scolastico con punti di forza da cui partire e con aree da migliorare», spiega Andrea Poggi, partner Deloitte e responsabile Strategy Consulting, autore della ricerca con Luigi Onorato. In un Paese dove la disoccupazione giovanile supera i140% e dove i ragazzi che ricerca evidenzia come «1 studente su 3 non si assumerebbe se fosse un imprenditore e i su 4 non sa cosa fare da grande», sottolinea Onorato. Non solo. La dispersione scolastica è del 17% con punte del 25 nel Sud Italia (in Europa è dell'il%) e l'analfabetismo funzionale colpisce il 28% degli italiani. Il problema è nella scuola. Perché se da un lato quasi la totalità dei giovani (98%) considera la scuola importante, il 32% dei ragazzi italiani non crede in un'applicazione pratica degli studi e mette solo al quinto posto l'istruzione scolastica nella classifica dei «segreti del successo del futuro», dopo impegno (65%), fortuna (38%), talento (36%), conoscenze (36%). D'altronde, spiega ancora Onorato, c'è «una minoranza spesso qualificata che attribuisce poco valore utile e prospettico all'informazione». Solo il 20% dei genitori in Italia sa quali sono i lavori più richiesti, mentre il 40% non sa orientare i propri figli, sia alla scelta delle superiori sia all'università perché «non sa quale garantisca le maggiori opportunità occupazionali». A peggiorare la situazione, c'è la percezione del ruolo degli insegnanti: in Italia solo il 3o% ritiene siano ancora un'istituzione nella società. Basti pensare che in Germania la percentuale sale al 67%. Nonostante ciò, l'83% dei prof italiani si dice soddisfatto del stesso tempo il 71% boccia i test per valutarli perché ritenuti «non coerenti con il loro valore effettivo». E questo diventa spesso uno dei motivi di scontro tra famiglie e insegnanti. Il 62% dei docenti critica il comportamento dei genitori verso di loro; la metà dei padri e delle madri critica la preparazione e la motivazione degli insegnanti e la ritiene uno degli elementi da cui partire per risolvere le criticità della scuola. Per i prof invece a cambiare dovrebbe essere l'atteggiamento dei genitori. Entrambi gli attori dovranno rientrare nel Manifesto proposto dai curatori della ricerca per un «sinergico cambio di passo». C'è poi il capitolo del rapporto tra scuola e mondo delle imprese, ancora troppo distanti. In realtà, con la riforma della Buona scuola qualcosa cambierà subito: la legge prevede Zoo ore obbligatorie di alternanza scuola-lavoro per i licei e 400 per gli istituti tecnici. «Ma il rapporto va potenziato spiega Poggi -: la lontananza delle imprese dalla scuola vale più ìn Italia che negli altri Paesi, ma gli unici ad averlo notato sono gli studenti». E il 24% delle aziende ritiene che le competenze acquisite a scuola non siano in linea con quanto cercato dal mercato. E allora? Non serve solo una riforma del sistema scolastico, dice Poggi, «bisogna realizzare un Manifesto nazionale dell'istruzione e della conoscenza in cui Stato, scuola, istituzioni finanziarie, imprese, media, insegnanti, genitori, studenti lavorino in sinergia per un cambiamento, ma deve aggiungersi la riforma dei fattori di contesto che richiedono interventi urgenti: dalla semplificazione della pubblica amministrazione al potenziamento delle infrastrutture, allo sviluppo della legalità e della certezza dei tempi della giustizia».
 
L'efficace lezione tedesca: studio e impiego convivono
da Corriere della Sera – 10 novembre 2015
Per due volte, nel 2012 e nel 2013, Barack Obama ha citato il modello di apprendistato tedesco nei suoi discorsi sullo stato dell'Unione. Uno dei candidati repubblicani con le maggiori possibilità di correre per la Casa Bianca nel 2016, Marco Rubio, ha nei suoi programmi questo sistema duale di istruzione prevalente in Germania lavoro e scuola per avvicinare l'occupazione ai giovani. E una collaborazione tra Berlino e Washington è in essere da anni per esportarne i caratteri fondamentali in America. I ministri del Lavoro tedeschi sono spesso in tour per l'Europa a spiegare il sistema e firmare accordi di collaborazione. Il dato di fatto è questo: il tasso di disoccupazione giovanile (sotto i 25 anni) in Germania è attorno al 7%; in Austria, dove opera un sistema duale simile, al 10%; la media europea è invece del 20%, quella italiana ben superiore al 4o%, quella spagnola quasi al 5o% e in Grecia più della metà dei giovani non ha lavoro. In parte, le differenze dipendono dall'andamento delle economie. Ma è un caso che nei Paesi in cui l'apprendistato ha un posto centrale nella formazione e nell'indirizzo dei ragazzi verso una professione la situazione occupazionale sia di gran lunga migliore? I risultati fanno dire che non è un caso. Non solo: il modello duale produce cambiamenti nella società e nella cultura. Nella ricerca su istruzione e occupazione realizzata da Deloitte, per esempio, si nota che Il 56% dei giovani tedeschi ritiene che la scuola non sia importante per il proprio futuro o non ne è convinto, mentre solo il 32% degli italiani e il 17% dei francesi danno la stessa risposta. Ancora: il 67% dei ragazzi tedeschi pensa che l'insegnante non sia necessariamente un'istituzione della società, contro 3o% degli italiani e il 38% dei francesi con la stessa opinione. Se si tiene conto del fatto che circa due terzi dei giovani in Germania entra in un corso di apprendistato, viene da pensare che questo modello duale abbia cambiato anche la percezione della posizione della scuola in una società come quella tedesca, in cui cultura e formazione personale hanno un ruolo altissimo nelle priorità condivise. In Germania, una ragazza o un ragazzo che hanno scelto di non iscriversi all'università alla fine della scuola secondaria possono entrare nel sistema di apprendistato. Quindi, tra i 15 e i 18 anni, a seconda della scuola che hanno frequentato, iniziano un percorso triennale: tre o quattro giorni la settimana nel posto di lavoro (dietro compenso) e il resto a scuola. L'esperienza lavorativa, dunque, è l'elemento dominante, la parte di apprendimento teorico è dipendente da quella. Ogni anno, lo Stato, le aziende, le Camere di commercio e i sindacati compilano una lista di oltre 35o corsi professionali colletti blu, operatori di marketing, assistenti sanitari e via dicendo stilata sulla base dell'andamento del mercato del lavoro. Per esempio, nel 2013, il sistema ha messo a disposizione 45o mila posizioni (70 mila non son o state coperte perché anche la Germania ha un serio problema demografico). Alla fine del percorso, buona parte dei giovani viene assunta nell'azienda in cui ha fatto l'apprendistato. Il rapporto stretto tra mondo del lavoro e istruzione che il sistema duale introduce è tendenzialmente positivo per le aziende, che formano così le professionalità di cui hanno bisogno, e per i giovani che trovano subito occupazione. Ci sono punti deboli. Alcuni esperti notano che concentrarsi su una competenza stretta aiuta sì. a formare professionalità immediate, ma limita la flessibilità della conoscenza, il che può diventare un problema quando il lavoratore avanza negli anni e ha la necessità di cambiare le sue competenze. Il 7% di disoccupazione giovanile, però, fa impallidire molte critiche.
 
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