Don Milani anticomunista. Autore di frasi come «La dottrina del comunismo non val nulla» o «Il 18 aprile il grande male fu scongiurato». Vicino, invece, alla destra del Psi. Ma strumentalizzato, anzi «tradito», da coloro che lo arruolarono tra i compagni di strada del Pci. È questo il senso di un pamphlet animoso, firmato da Alessandro Mazzerelli. Tradimento? Certo, è una parola grossa. Riferita a don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, fa sussultare. Perché l’autore di Lettera a una professoressa , da vivo, non era soltanto un prete scomodo tentato dalla politica, ma anche un profeta apocalittico con lampi di santità . In seguito è diventato molto di più: un mito, quasi un’icona «antisistema», un «no» vivente al consumismo prima della globalizzazione. Arduo, dunque, se non proprio presuntuoso, attaccarne il mito.
Occorrevano, per riuscirci, coraggio e una vocazione da bastian contrario. Alessandro Mazzerelli sembra possedere entrambi: ed ecco questo suo pamphlet incendiario e dissacrante, dal titolo esplicito, Il profeta tradito (liberal, pagine 138, 13), seguito da un motto alquanto provocatorio: «Come e perché la sinistra si è appropriata di don Milani». Che significa? Che proprio lui, tirato per la giacca a destra e sinistra, presentato prima come una specie di Che Guevara toscano, richiamato anni dopo da Veltroni nel campo diessino all’insegna dello slogan I care , protagonista di un carteggio politico-religioso con Indro Montanelli, eletto a modello dai personaggi più diversi (don Ciotti, il cantante Jovanotti, il fotografo Oliviero Toscani), nascondeva un segreto politico inconfessabile? In un certo senso, è così. Inconfessabile, cioè, a tutti coloro che lo avrebbero voluto arruolare fra i compagni di strada dei comunisti. Perché lui credeva in un «socialismo etico» lontano anni luce dal marxismo, e affine invece ai principi sostenuti allora, a metà degli anni Sessanta, dalla corrente autonomista (dunque «di destra») del Partito socialista.
Questa è la tesi, almeno, di Alessandro Mazzerelli, uno che - come racconta lui stesso - don Milani l’aveva conosciuto bene. Oggi, dopo un percorso autonomista toscano, è approdato addirittura alla Casa delle libertà , e affida i suoi ricordi alla casa editrice liberal. Ma allora, in quel lontano luglio del 1966, quando andò in visita solitaria per la prima volta a Barbiana, era un funzionario ventenne della federazione fiorentina del Psi. E con il candore temerario dell’età , osò proporre nientemeno che a don Milani un manifesto politico forse un po’ confuso e velleitario, però certamente anticonformista. Di quel colloquio, come degli altri che seguirono, Mazzerelli rievoca soltanto le grandi linee: la proposta cioè di perseguire assieme al sacerdote «un’alternativa storica allo sfruttamento e all’oppressione capitalista e all’inganno comunista». Per farlo c’era già un movimento bell’e pronto, chiamato «Forza del popolo» e in lotta frontale con le organizzazioni del Pci. Avrebbe accettato di abbracciare una simile avventura, al fianco del ragazzino che si presentava a lui per la prima volta, don Milani?
Ebbene, accettò e come. Racconta Mazzerelli che si adoperò subito perché i suoi allievi del momento (una dozzina) si iscrivessero tutti al gruppo patrocinato dal giovane interlocutore. Quasi un colpo di fulmine, al punto che il prete, nel momento del congedo, avrebbe accompagnato la sua stretta di mano al ragazzo con queste parole: «Oh, Alessandro! Succeda quel che succeda non mollare, è l’Idea giusta!». E più tardi, quando l’intesa fra militanti era già stata ratificata, aggiunse: «Alla luce del Vangelo un’alternativa cattolica e socialista è possibile, è doverosa, è necessaria». Certo, la maggior parte di queste testimonianze è orale: tuttavia, come in ogni giallo che si rispetti, le prove arrivano alla fine de Il profeta tradito . L’autore racconta che un giorno di primavera di quattro anni fa, inaspettatamente, dopo averle cercate invano per decenni, ecco saltar fuori da una vecchia cassa le veline azzurre in cui erano riportate le iscrizioni dei ragazzi di don Milani alla «Forza del Popolo». Adesioni ribadite in blocco l’anno successivo, che però è anche quello della morte di don Milani: solo per questo - conclude Mazzerelli - «la battaglia comune contro l’ipocrisia comunista non decollò». Ed eccoci all’ultimo incontro fra i due, quando già la malattia sta piegando la resistenza di don Milani: «Don Lorenzo mi annunciò che il testo della Lettera a una professo ressa era quasi finito e che si augurava che servisse alla nostra causa». Le strumentalizzazioni a destra e sinistra, secondo Mazzerelli, rientreranno nel successivo «tradimento della memoria» di don Milani. Luciano Della Mea, sulla rivista ufficiale del Pci, Rinascita , lo descriverà come un «compagno comunista». Ma a destra anche Lo Specchio finirà per ottenere lo stesso risultato, dipingendo polemicamente in un’intervista il sacerdote come «un prete rosso».
Fine della storia? Non ancora: un capitolo si aggiunge nel 2001. In quell’anno esce un nuovo libro su don Milani, I care ancora, curato da Giorgio Pecorini per la Emi. Sfogliando il volume, ecco saltar fuori dai documenti inediti una novità che fa fare un salto di gioia a Mazzerelli: una lettera scritta da don Milani a un amico, all’indomani del primo, fatidico incontro a Barbiana. C’è scritto: «Oggi sono stato levato tutto il giorno perché è domenica. È venuto un giovane del Psi (Mazzarella) a fare propaganda per un movimento entro il Psi, "Forza del Popolo", contro gli intellettuali. C’è piaciuto abbastanza e forse si iscrivono tutti i nostri ragazzi». A parte la storpiatura del nome, è la prova che cercava, tanto più importante perché pubblicata soltanto quarant’anni dopo. E che va ad aggiungersi alle altre lettere riportate in forma sparsa in vari libri, che attestano la partecipazione dei ragazzi di Barbiana al Partito socialista, nella sezione di Vicchio di Mugello. È abbastanza da spingere Alessandro Mazzerelli a combattere la sua battaglia, completando il pamphlet.
Altre prove dell’anticomunismo di don Milani? L’autore le raccoglie in appendice, e sono piuttosto pesanti. Vi si legge: «La dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio. E io dovrei farmi battere da così poco?». A proposito della sconfitta comunista il 18 aprile del 1948: «Il grande male fu scongiurato e ognuno potè riprendere a sognare cose belle, vittorie su altri mali». O ancora: «Sono disonesti. Lo sapevo anche prima. Non me ne meraviglio». Frasi scritte in momenti e stati d’animo diversi, che forse non è giusto mettere insieme come prove a carico di qualcuno. Ma alla guerra, ribatte Mazzerelli, ci si presenta armati. Tanto più che i «milaniani» ortodossi non tarderanno a far suonare le loro campane. (Corriere della Sera. 10 maggio 2005)