Per innovare la qualità dell’istruzione le scuole hanno bisogno di autonomia didattica. I percorsi quadriennali indicano la strada
Questo mio terzo contributo non ha la pretesa di completare l’analisi delle proposte per la soluzione dei problemi che stanno portando il nostro sistema scolastico verso una deriva che incrementerà il gap, già elevato, nei confronti dei sistemi scolastici dei Paesi che da tempo hanno avviato un processo di modernizzazione e innovazione ottenendo risultati che hanno permesso di ridurre la dispersione scolastica ed elevare i livelli di apprendimento dei propri studenti.
Dopo avere fatto una analisi complessiva dei problemi, ho scelto quattro aspetti che ritengo essere i pilastri su cui poter progettare un modello di scuola che abbia non solo l’ambizione ma anche una reale prospettiva di allinearsi ai sistemi scolastici oggi più performanti, moderni e organizzati, che offrono ai propri studenti la concreta speranza di un futuro personale, culturale e professionale migliore.
Dopo aver approfondito propostesulle risorse economiche e sulla necessità di una nuova filosofia di finanziamento del sistema basato su “una pragmatica sinergia pubblico privato” e sull’inevitabile necessità di una conoscenza precisa dei costi della scuola, affronterò il tema dell’autonomia e dell’organizzazione didattica.
Un grave problema da affrontare è il calo d’interesse verso la scuola da parte degli studenti, che porta alla crescita degli abbandoni (100mila l’anno), la cui soluzione non può che passare attraverso proposte formative più rispondenti alle esigenze di preparazione, più capaci nell’utilizzare strumenti didattici che usino linguaggi più vicini ai giovani d’oggi, più duttili a fornire risposte che provengono dal territorio, capaci di rompere il muro dell’uniformità, più formative rispetto alle esigenze del mondo del lavoro, capaci di tornare a differenziare la modalità di preparazione in funzione alle prospettive legate al proprio futuro professionale (come ha messo in evidenza Tiziana Pedrizzi a proposito del convegno Treellle).
Soluzione che non può che passare attraverso la concessione di piena autonomia didattica delle scuole. Il tempo istituzionale utile alla stesura di “nuovi programmi o indicazioni” avrebbe un tempo di elaborazione tale che, quando finito, sarebbero già obsoleti. Spesso abbiamo sentito affermare che negli istituti professionali una parte dei corsi porta ad ottenere qualifiche non più utili all’inserimento nel mondo del lavoro perché non servono più. Così come abbiamo ascoltato le lamentele delle università per l’inadeguatezza nella preparazione di base per molti studenti che si iscrivono al primo anno, carenze che portano a ridurre il numero di studenti che giungono alla laurea, la metà rispetto alla media europea.
Questa impostazione rende inevitabili disamore e dispersione. Il tema proposto per la giornata dell’Università Cattolica del 5 maggio scorso, “Passione talento impegno cercando il mio posto nel mondo” comporta inevitabilmente richiesta di fatica e sacrificio. Come può un giovane sentirsi di metterli a disposizione senza la contropartita di un risultato utile al suo futuro?
Occorre rivoluzionare l’impostazione: non più programmi o indicazioni dettagliati, ma solo nuclei fondanti, obiettivi e competenze finali legati al Pecup di ogni indirizzo di studi, lasciando piena autonomia alle istituzioni circa la programmazione didattica, senza vincoli intermedi, utile a raggiungere la preparazione per il superamento dell’esame di Stato, uguale su tutto il territorio nazionale.
Avremmo adeguamenti didattici più rapidi (risale al 2010 l’ultimo riordino della scuola secondaria superiore, come può rispondere adeguatamente alle odierne necessità di preparazione?) poiché al ministero rimarrebbe il compito di adattare velocemente gli obiettivi in uscita (anche ogni anno) lasciando alle scuole il costante compito di aggiornamento della programmazione didattica.
Fantadidattica? No. È quanto già avviene per la sperimentazione dei percorsi quadriennali da cui si potrebbe trarre esempio (va ricordato che le scuole italiane all’estero dal 2008 sono organizzate con percorsi quadriennali). Basterebbe trasferire la stessa modalità a tutto il sistema.
Per ultimo: occorre la consapevolezza che modificare il nostro elefantiaco sistema scolastico non può essere frutto di un radicale e rapido cambiamento, perché una proposta in tal senso subirebbe un’azione di rigetto che annullerebbe ed annienterebbe qualsiasi proposta di modernizzazione, pur ottima che fosse.
Per portare a regime una proposta di grande cambiamento occorre un tempo ragionevole (dai 5 ai 10 anni) utile a raggiungere il nuovo equilibrio che preveda una nuova stabilizzazione occupazionale pur attraverso il necessario ricambio dei docenti del “vecchio sistema” con altri motivati al cambiamento, pieni di passione innovativa e adeguatamente preparati alla nuova impostazione. Riterrei inoltre utile, se non indispensabile, avviare la “nuova stagione” con un graduale avviamento a partire dalle prime classi, da affidare primariamente ai “nuovi docenti”.
L’introduzione dell’“autonomia differenziata” con richiesta di delega per l’istruzione nelle Regioni che ne hanno fatto richiesta, offre un’importante occasione.
Un’opportunità da non perdere, come ha evidenziato Emanuele Contu nel suo recente articolo. Non bisogna correre il rischio di trasformare il centralismo statale in centralismo regionale. Non basterà che le Regioni sappiano gestire meglio, ma si dovrà proporre un nuovo modello organizzativo con istituzioni scolastiche pienamente autonome che sappia avviare processi di innovazione virtuosi, come sopra ho descritto, nel rispetto dell’unitarietà del sistema basata su profili di uscita uguali su tutto il territorio nazionale.
La riuscita di questa fruttuosa ed indispensabile rivoluzione di sistema coinvolge sindacati e docenti che non possono più tacere, come ben ha sottolineato Leonardo Eva nel suo articolo “una domanda scomoda per gli insegnanti”. Fare la scelta miope di difendere l’esistente per assistere all’inevitabile deriva del sistema e crollare con lui, o cavalcare con passione e determinazione la sfida dell’innovazione per poter assicurare un affidabile futuro positivo non solo ai nostri giovani, ma anche alla propria professione?
Non posso che concludere questa mia riflessione con la stessa domanda con la quale l’ho iniziata: “ma per quanto tempo questo Sistema potrà ancora sopravvivere?” e, ricordando che ormai il tempo sta per scadere, non posso che ricordare la soluzione che si racchiude nel titolo del convegno di Treellle, che condivido: avere “Il coraggio di ripensare la scuola”.
Invitando ad una riflessione su quanto spesso dice Papa Francesco: “Soffocare i sogni e rubare la speranza è il risvolto più inquietante della miopia con cui l’odierna società guarda i giovani”, che mi inquieta ogni giorno e mi spinge a pensare cosa posso fare nel mio lavoro quotidiano, lascio alla politica l’ardua risposta.