Massimo Ammaniti: «Violenze e social, ecco la società senza genitori . Lo psicoanalista: «È in crisi l’asse centrale
della famiglia: fare figli e allevarli. Noi umani siamo dotati di un sistema
che serve a prendersi cura dei piccoli, è un fatto biologico»
Corriere della
Sera - 2 giugno 2019 - Antonio
Polito
Professore Massimo Ammaniti, ci aiuti. Qui c’è bisogno di
uno psicanalista. Che sta succedendo nelle famiglie italiane? Un tempo, neanche
troppo tempo fa, eravamo campioni mondiali di familismo, la famiglia era al
centro di tutto, nel bene dell’accudimento amorevole che dura una vita, dei
legami di solidarietà e di affetto; e anche nel male del familismo amorale, del
nepotismo, del paternalismo. Oggi invece della famiglia si parla solo in campagna
elettorale e nella cronaca nera, perché dalle famiglie provengono alcune tra le
storie più dolorose e ripugnanti. «È andato in sofferenza l’asse centrale e
cruciale della istituzione-famiglia, la sua legge fondamentale: la scelta della
procreazione, l’impegno che comporta l’allevamento, le rinunce e i sacrifici,
sembrano sempre più ostacoli alla ricerca della felicità individuale, alla
cultura del narcisismo, che mette al centro della vita la soddisfazione dei
propri desideri. Abbiamo visto, nel giro di poche settimane, nella periferia di
Milano, nella provincia piemontese, in un paese del Frusinate, tre vicende di
maltrattamenti e abusi nei confronti dei figli piccoli da parte di genitori in
condizioni di grave marginalità sociale, con storie di droga e alcol, padri e
madri irascibili e violenti o acquiescenti e complici, che hanno preso a botte
i figli fino a farli morire. E perché? Perché piangevano, si lamentavano,
davano fastidio, impedivano il sonno o l’intimità dei genitori. Avrà notato che
si tratta sempre di bambini intorno ai due anni. È il momento in cui un
neonato, che va solo nutrito e pulito, diventa un essere umano che si muove,
cammina, ha caldo e freddo, fa richieste continue. Alla prima prova con il duro
mestiere di genitore, queste persone non hanno retto. Sono solo la punta
dell’iceberg. I dati sugli abusi nei confronti dei minori ci dicono che otto
casi su dieci si verificano in famiglia. È lì che vive l’orco delle favole».
Questa è la patologia dell’abbandono, della deprivazione.
Ma la normalità? A me pare che il problema più grande delle famiglie italiane è
che di figli ne fanno ormai davvero pochi. E chi se ne lamenta, segnalandolo
come il problema principe della nostra comunità, viene subito trattato come un
reazionario, un tradizionalista, un cripto-fondamentalista.
«La laicissima Francia ha preso di petto il problema della natalità, e ha messo
in campo negli anni delle politiche di aiuto alle famiglie che hanno avuto
ottimi risultati, tanto che oggi la natalità è più o meno sul tasso di
rimpiazzo demografico, due figli per ogni donna in età fertile; mentre noi
siamo a 1,32, praticamente il Paese dell’Occidente dove si fanno meno bambini.
E — sono d’accordo — non è solo un problema sociale o economico. Anche se
occupazione femminile, sgravi fiscali, asili nido, tempo parziale, contributi
per il baby sitting, sono fattori decisivi per consentire a chi vuole generare
di provarci. Ma poi ci sono anche quelli che non vogliono figli perché trovano
più bella una vita senza, o li vogliono il più tardi possibile, e spesso è
troppo tardi. E questo è un fatto culturale. I figli sono considerati problemi,
impegni, condizionamenti, in conflitto con la realizzazione dei propri
desideri. L’ha scritto anche il Papa nell’esortazione Amoris laetitia, e secondo
me ha ragione, che c’è in giro troppo individualismo. Nel rapporto 2016 l’Istat
calcola che il 34% delle famiglie italiane non ha figli. E del rimanente 66%
con prole, il 46 per cento ha un solo figlio. È scomparso un mondo, quello dei
fratelli e delle sorelle. Un mondo che consentiva ai ragazzi di non essere
adultizzati fin dalla nascita, di avere un’infanzia. Se non partiamo da questo
epocale cambiamento non comprendiamo niente. Una società che non fa figli si
spegne».
Con la denatalità muoiono anche idee e valori del
passato. Come si fa a spiegare la «fraternità» a una generazione di figli
unici?
«Inoltre un bambino che cresce solo con gli adulti è spesso vittima di una
iperstimolazione, che è l’altra faccia dell’abbandono, ma ha effetti negativi
sullo sviluppo infantile. Li ha visti tutti questi bambini tenuti al ristorante
fino a ora tarda? E tutte quelle che io chiamo le protesi educative? Il tablet
già nel passeggino, il video per i viaggi in treno, YouTube a colazione, come
se avessimo assunto una balia elettronica per essere un po’ lasciati in pace.
Ci sono ricerche che dicono che già a otto mesi un bimbo cui vengano offerti un
pupazzo e uno schermo rivolge la sua attenzione allo schermo. Così si mettono
le basi per forme patologiche di dipendenza dal video. Un bambino che va a
letto con la storia letta dai genitori invece ne trae un vantaggio non solo in
termini di sviluppo del linguaggio, ma anche di abilità sociale, perché impara
il gioco dei significati del comportamento umano, il codice della crescita».
Prima parlavamo dei dati Istat. Ma secondo lei è
«famiglia» anche un nucleo senza figli? Gli inglesi dicono «household» che è un
termine più neutro e generale, indica i gruppi umani che vivono insieme, non
necessariamente legati da rapporti di sangue.
«Dal punto di vista statistico, in Italia vengono definite famiglie anche i
nuclei composti da una sola persona, cioè i single. E non voglio certo
discutere qui dello stile di vita che ciascuno si sceglie. Ma è un fatto
indiscutibile che noi umani siamo dotati di un apposito sistema di care-giving
predisposto dall’evoluzione nella corteccia orbito-frontale, e che serve a
prendersi cura dei piccoli della specie. È una esigenza, diciamo così,
biologica. Dal punto di vista sociale, poi, dobbiamo sapere che in una famiglia
con figli è più agevole l’acquisizione di quella caratteristica cruciale
dell’essere umano, il suo vero successo evolutivo, che chiamiamo
“mentalizzazione”, e cioè la capacità di vedere il punto di vista degli altri,
di capire che il comportamento dei simili nasce da stati d’animo simili ai
nostri. Vale per i ragazzi, che se non fanno questa esperienza in famiglia poi
arriveranno senza maturità all’incontro con il gruppo dei coetanei; ma vale
anche per gli adulti, che diventando genitori imparano a vedere il mondo
attraverso gli occhi dei figli, una singolare e travolgente esperienza di
trasformazione. E la “mentalizzazione” è contagiosa, è una scuola di educazione
al vivere in società».
Adesso che me lo dice capisco che cosa è che non va nei
«social»: mancano persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, per vedere
le ragioni altrui, che è poi la condizione sine qua non della società aperta e
della discussione pubblica. Ma che succede a un adolescente se in famiglia non
riesce ad apprendere questa skill della «mentalizzazione»?
«Succede quello che è successo a Manduria, o a quel gruppo di giovani della
periferia romana che hanno preso a sassate un rider di colore che si pagava
l’università consegnando la pizza. Succede che alla logica della società, che è
inclusiva, si sostituisce quella del gruppo, o peggio del branco, che è
esclusiva. Sempre più spesso anche il social network è un branco. In quella
logica si è inclusi se si esclude il fragile, il goffo, il timido, il malato, il
disabile, il nero, chiunque sia in una condizione di vulnerabilità. L’Unicef
calcola al 37% la percentuale dei ragazzi che sono stati in un modo o
nell’altro vittima di episodi di bullismo. Perché i deboli, a quella età, sono
tanti. E la socializzazione malata, priva della educazione che avviene in
famiglia, è spietata nel rifiutare la debolezza».
Se ho capito bene lei sta dicendo che gli adolescenti
narcisisti di oggi sono la prima generazione di bambini cresciuti in famiglie
narcisiste?
«Esattamente. Escludere l’altro per sentirsi incluso. Questo è il contrario
della socializzazione, è la tribù. L’esperienza del rifiuto è poi drammatica
per chi la subisce. Ha conseguenze serie sullo sviluppo del carattere e genera
stati d’ansia e di depressione. Io osservo nella mia esperienza che questo
meccanismo è ormai prassi nelle scuole superiori; anche, e forse perfino di
più, nei migliori licei delle grandi città, dove i professori sembrano
disarmati, e i genitori distratti. E guardi che ciò che succede nelle discoteche
dei quartieri borghesi di Roma, dove di recente è stata violentata una ragazza
etiope da tre giovanissimi, alcol, sostanze, pasticche, viene sempre più spesso
iscritto alla categoria dello “sballo”, come se fosse una forma naturale, e
solo un po’ più esuberante, di divertimento. Arancia meccanica di Kubrick era
la storia di un gruppo di psicopatici. Ma quanto profetico è stato quel film
nello svelare il sottile piacere della sopraffazione, della intimidazione e
della violenza che dorme in ciascuno di noi, e che solo quella raffinatissima
forma di educazione che è la cultura può dominare. Ciò che è successo a
Manduria a quel povero sessantenne, morto al culmine di un calvario di
cattiveria gratuita e di sevizie, è l’arancia meccanica dei giorni nostri».
Cosa ci può salvare? Cosa è rimasto di buono nella
famiglia italiana? Cosa dovremmo fare, oltre che fare più figli, stare di più
con loro, saper correre il rischio educativo?
«Ci può salvare l’impegno. L’etica della responsabilità. Un bene comune da perseguire.
Ci sono milioni di volontari in Italia. Quella è la cura. Ci sono 150.000
scout, quella è la palestra. Ma l’impegno civile potrebbe vivere in mille altri
modi. Le racconto un episodio che ho vissuto di persona, e non dimentico. Dopo
il terremoto dell’Aquila, un gruppo di università italiane pensò di replicare
ciò che l’ateneo di Harvard aveva fatto in Giappone, a Kobe, dopo il terribile
sisma che l’aveva colpita. Proponemmo al ministero dell’Istruzione un progetto
per coinvolgere i ragazzi delle scuole nella ricostruzione, dedicandovi due
pomeriggi alla settimana in cambio di un piccolo salario. L’esperienza di Kobe
aveva dimostrato che un impegno collettivo poteva aiutare a combattere quei
fenomeni di spaesamento, depressione, isolamento sociale, che spesso si
accompagnano alle catastrofi nel comportamento dei giovani. Ci risposero che
erano troppo giovani per quel tipo di cose, che i ragazzi andavano piuttosto
tirati su di morale, che nelle scuole avrebbero invece mandato i clown. Ecco
che cosa intendo: non li prendiamo mai sul serio, non crediamo che possano
diventare adulti, forse perché noi genitori rifiutiamo di esserlo, e ormai
siamo già cinquantenni quando loro diventano adolescenti, e così si somma la
nostra crisi di invecchiamento alla loro di crescita. Ci capita addirittura di
entrare in competizione, quasi invidiandone la gioventù. Si formano così
famiglie liquide, un magma dove le generazioni non si distinguono più, e nelle
quali inevitabilmente l’autorità deperisce e svanisce, perché nessuno se la
sente più di incarnarla».
Ma esercitare la propria autorità con i figli è diventato
pericoloso. Chi prova a mettere regole in casa si trova di fronte alla
contestazione classica: ma gli altri lo fanno. Se resisti sull’acquisto del
telefonino ti mostrano i compagni che ce l’hanno. Abbiamo paura di essere
odiati dai figli, di non essere buoni genitori...
«E invece i genitori questo devono fare, se sono adulti e non adultescenti. Un
genitore buono è un genitore finito, che ha rinunciato al suo compito di
educatore. Le regole non possono più essere certamente imposte come accadeva
quando eravamo ragazzi noi. Non è più il tempo per padri padroni, ma questo non
vuol dire che non ci sia bisogno di regole. Discusse, frutto di mediazioni,
costruite per quanto possibile con il consenso, ma servono. Sono gli stessi
ragazzi, inconsciamente, a chiederci una guida. Altrimenti, senza una
leadership, neanche la ribellione è possibile, e invece è la cosa più sana che
possa succedere a quella età».
Un tempo i ragazzi avevano fretta di crescere e di
andarsene, proprio per emanciparsi dall’autorità paterna, fare di testa
propria, costruirsi la libertà e l’intimità di cui un adulto ha bisogno. Oggi
questa fretta non c’è anche perché i genitori non esercitano più tanta autorità,
li trattano come fratelli e li proteggono come se ne fossero i sindacalisti?
«I genitori devono fare il possibile perché i figli conquistino la loro
autonomia e vadano via di casa, a cominciare la loro vita. Attenzione ai falsi
sentimentalismi. Troppo spesso li tratteniamo dicendo a noi stessi che sono
loro a voler restare. Convivenze eccessivamente lunghe tra generazioni diverse
sono innaturali. Io scolpirei sullo stipite di ogni porta, in ogni casa, una
frase di Erik Erikson, lo psichiatra che negli anni 60 studiò il tema della
identità: “Se i genitori non accettano la propria morte, i figli non potranno
entrare nella vita”. Il più delle volte sbagliamo proprio per questa paura
inconscia. Oscuramente avvertiamo che la loro crescita si accompagna alla
nostra fine. E proviamo a impedire entrambe. Perché l’uomo del Duemila, nel suo
delirio di onnipotenza, pretende di vivere come se fosse immortale».