Dibattito/Valutazione numerica: per una scuola meritocratica?


Dico no alla legge dei voti

da la Repubblica14/6/2019 - Massimo Recalcati

 

Il nostro tempo vive una vera e propria fascinazione per il numero. Si tratta di un feticismo della cifra che ritroviamo a ogni livello della nostra esperienza e che ha massicciamente invaso anche la nostra scuola. In questi giorni in cui si avviano gli scrutini finali destinati a valutare il rendimento scolastico di una moltitudine di studenti di ogni ordine e grado, l’ombra della cifra incombe. Nel corso di questo anno scolastico voti che sembrano provenire da un altro mondo, soprattutto nei licei più rinomati, esprimono ancora con virulenza la legge ferrea del numero: dall’uno al due, uno più, due e mezzo, tre meno, senza ovviamente trascurare la presenza immancabile degli inequivocabili e antichi, ma sempre più sinceri e convincenti, quattro.

Lo scrupolo con il quale nel corso dell’anno scolastico si osservano le percentuali, le medie aritmetiche, il saliscendi della numerologia valutativa, non può non preoccupare. Sappiamo che dove le cose funzionano sufficientemente bene lo scrutinio darà prova di non essere schiavo del numero e saprà formulare una valutazione d’insieme sul rendimento scolastico tenendo conto del movimento di crescita o meno dell’allievo, dei suoi progressi e delle sue risorse, dei suoi inciampi e delle sue difficoltà cognitive ed emotive. Tuttavia resta l’impressione di un legame ancora troppo forte della valutazione con la quantificazione che non è, ovviamente, solo un problema della nostra scuola, ma indica una tendenza generale della nostra epoca: la legge dei numeri sembra prevalere su tutte le altre, nella medicina come nell’economia, nella politica come nello sport.

Nel mondo della scuola questo trionfo idolatrico del numero mostra come la selezione rischi di precedere la formazione anziché esserne una sua logica conseguenza.

Premiare gli allievi migliori a prescindere dal loro ceto sociale di appartenenza è una conquista democratica irrinunciabile. Tuttavia il carattere altamente competitivo del nostro tempo tende a misconoscere il processo necessariamente tortuoso della formazione soprattutto laddove muove i primi passi. Sicché la nostra scuola rischia di interpretare la formazione come selezione, ovvero di eleggere la selezione come unica declinazione possibile della formazione in altri termini.

Il ricorso al carattere inesorabile del numero offre allora l’illusione di risolvere il problema della formazione subordinandolo a quello della selezione. È una scorciatoia che allontana fatalmente la scuola dal suo compito civile e culturale più alto: accendere il fuoco del desiderio di sapere come centro di ogni possibile processo di formazione. Ma se non studiano, se non si applicano, se non sono in grado di fornire le giuste prestazioni è bene che la scuola assuma la responsabilità che gli compete sanzionando con numeri adeguati il disimpegno o l’insufficienza cognitiva degli allievi. Giusto. Anzi, giustissimo. Ma la meritocrazia non dovrebbe investire anche il corpo insegnante? Chi può spiegare ragionevolmente il senso di un tre meno o di un uno più?

In realtà non dovremmo purtroppo vedere in queste forme inutilmente severe di valutazione il sadismo di una pedagogia arcaica di ritorno. Non si calcola l’effetto di inibizione, il senso di umiliazione e, soprattutto, l’allontanamento dalla passione autentica dello studio che questa idea “metrica” della valutazione può provocare? A cosa serve la scuola? A distribuire nozioni, informazioni, a trasmettere saperi mnemonici, nati già morti o ad accendere il desiderio di sapere? In passato ho insegnato per diversi anni nei licei milanesi storia e filosofia. Ogni volta mi ponevo il problema di non lasciare indietro nessuno. Ogni volta mi chiedevo perché in alcuni allievi appariva indifferenza alle lezioni o noncuranza nello studio. E ogni volta provavo a rispondere a questi interrogativi mettendo innanzitutto in gioco la mia stessa azione didattica. Ogni volta rivedevo il mio modo di spiegare e di tramettere il sapere che amavo. La mia preoccupazione primaria non era valutare, ma trascinare, adunare, mettere in moto, in cammino, accendere fuochi.

La mia preoccupazione primaria era come poter generare effetti autentici di formazione.

 

 
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