Russia-Ucraina: un anno che ci ha cambiato.


Fonte: La Nuova Europa. Articoli del 22 e 24 febbraio. Dal 24 febbraio 2022 il mondo è cambiato. Come siamo cambiati noi? Interventi di padre Mauro Lepori e Mario Mauro; del bielorusso, Dmitrij Strocev e della russa, Elena Žemkova. E poi S. Panič, A. Desnickij, M. Borghesi, K. Hovorun.


Come sempre accade, l’urto iniziale prodotto dall’invasione si è smorzato nel corso delle settimane e dei mesi; anche con la guerra riusciamo quasi a convivere, purché non ci inquieti troppo. Noi vogliamo invece tenere viva questa inquietudine che ci obbliga a porci delle domande. Per questo abbiamo ritenuto importante chiedere ad alcuni osservatori qualificati di iniziare almeno a tracciare un primo bilancio di un’esperienza unica, che dovrebbe toccare individualmente ciascuno di noi.


Bisogna che il cuore sanguini, P. Mauro-Giuseppe Lepori, Italia

Il 24 febbraio del 2022 ero in Brasile. Tornando ho trovato un’Europa profondamente cambiata rispetto a quella che avevo lasciato poche settimane prima. Cos’era successo di diverso da tante altre guerre e tragedie che costantemente feriscono l’umanità? È come se questa guerra ci colpisse tutti personalmente. Non basta e non serve più fare analisi geopolitiche. Questa guerra ci svela con cruda chiarezza il vero volto dell’odio, quello di essere, prima che il combattimento fra nemici, una lotta fra fratelli.

Questa guerra fa emergere dalla notte dei tempi la primissima «guerra mondiale», quando fra gli unici due fratelli esistenti sulla terra si è verificato il primo atto del cuore e della mano che ha fatto bere alla terra il sangue umano. E la terra, come una madre inorridita, ha gridato di dolore. «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gen 4,10), disse Dio a Caino. Dio sa che Caino non può riparare il male che ha fatto, ma gli fa sentire «la voce del sangue» di suo fratello.

Da un anno ogni giorno mi chiedo: ascolto questo grido che sale dal sangue dei miei fratelli su tutti i fronti di questa guerra e di tutte le guerre? Lo ascolto come Dio? Lo ascolto trasmessomi da Dio, come l’ultimo grido del Crocifisso? Ne faccio eco al Caino che è in me, perché anche quello che sta uccidendo Abele in Ucraina ne possa sentire nel cuore la voce, che non chiede vendetta ma amore?


Voglio ricreare la vita, Elena Žemkova, Russia (ora a Berlino)

È chiaro che un anno come questo non può non cambiarti. Non c’è nessuno che possa dire di non essere cambiato. Per me sono cambiate innanzitutto le circostanze esterne della vita, radicalmente cambiate. Le circostanze esterne pesano moltissimo ad esempio su quello che uno ritiene importante, su cosa si focalizza. La mia situazione esterna è cambiata radicalmente anche perché quest’anno hanno tolto la sede a Memorial e in pratica hanno chiuso l’attività. E questo è sicuramente legato alla guerra.

Anch’io, come molti altri, mi dicevo: «È impossibile!». Impossibile nel XXI secolo, un’epoca piena di mirabolanti progressi nella medicina, nel modo di comunicare che permette di parlarsi e di vedersi a migliaia di chilometri di distanza. Quello di oggi è un mondo dove tutto è a portata di mano, confortevole, dinamico… e all’improvviso scoppia la guerra!

Abbiamo toccato con mano e detto infinite volte quali danni ha causato all’umanità la Seconda guerra mondiale. Forse io me ne sono occupata in modo speciale per ragioni di lavoro, non tutti probabilmente sono così addentro, eppure non c’è persona al mondo che non sappia che c’è stata la Seconda guerra mondiale e quante vittime umane ha prodotto, e che proprio perché non si ripetesse l’umanità ha creato l’ONU, ha scritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Com’è possibile, dopo tutto questo, che la guerra torni? E una guerra come questa, totale, davvero una Terza guerra mondiale… ecco questo per me, come per molti altri, era semplicemente inconcepibile. Ad essere sincera, ancora adesso mi sorprendo a non credere che stia succedendo veramente!

D’altro canto, sin dall’inizio ho capito che sarebbe durata a lungo, almeno per tutta la vita che mi resta da vivere. Ho capito che la nostra vita è distrutta, perché per tutto questo la Russia dovrà pagare, riflettere, soffrire, essere emarginata. Non solo la Russia ma ogni singolo russo, personalmente. E questo non per anni, ma decenni. Non so come ce la caveremo, e se ce la caveremo; sarà difficile e lungo.

Per lo meno la mia vita è andata in pezzi. Mi spiego: la mia città natale è Odessa, che amo molto. Anche se vivevo a Mosca ci tornavo ogni anno, per vedere la famiglia e gli amici; era il mio regalo di compleanno, un viaggio distensivo e felice. Ed ora mi chiedo come potrò io, cittadina russa, con passaporto russo, tornare in Ucraina. La guerra finirà a un certo punto, ma io alla frontiera con che coraggio mostrerò il passaporto? Non lo credo possibile. Questa è una grossa ferita nella mia vita: non poter più tornare nella mia città natale…

In generale, quello che fa la guerra è distruggere la vita.

E poi, una conseguenza direttamente collegata: la guerra ha distrutto Memorial. Tuttavia a proposito di Memorial non sono così disperata, perché noi siamo ancora insieme e rimetteremo in piedi l’organizzazione, il lavora andrà avanti. 

Proprio qui sta la consolazione: che si può continuare a lavorare, che in qualche modo si può cercare di ricreare la vita, e non semplicemente stare a guardare come la distruggono, senza poter intervenire. Creare la vita, fare qualcosa. Perché quel che facciamo è utile alle persone.

Credo che nella situazione attuale l’unica cosa che si può fare, in cui si può trovare consolazione è essere utili alle persone.


Vivere con la consapevolezza degli ucraini, di Mario Mauro, Italia

Purtroppo, e lo dico con sincero rammarico, il 24 febbraio del 2022 non ha rappresentato per me in nessun modo una sorpresa. Già nella primavera del 2013 (sì proprio il 2013) intervenendo al senato della repubblica avevo sottolineato gli elementi chiave della strategia dì Vladimir Putin. Non una nuova Jalta come potrebbe essere nelle aspirazioni dei grandi giganti asiatici di oggi come Cina e India, e che nel 1945 erano tutto tranne che grandi potenze. Ma «nuovamente» Jalta e cioè una spartizione delle aree di influenza nel mondo che riconsideri il ruolo della Russia quale erede naturale non solo della storia sovietica ma soprattutto della volontà imperialista che aveva accomunato Stalin e i successori agli zar.

L’Ucraina è vittima, come la Georgia nel 2008 e in prospettiva i Paesi baltici e forse il Kazachstan, del risiko del Cremlino che mira a pareggiare i conti con la storia e non ha esitato a piegare a questo progetto di potere la Chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca finendo col prendere in ostaggio contro i fratelli ucraini lo stesso nome di Dio. E quanta ironia in Europa, e quante reazioni scomposte contro le avvisaglie fornite nei mesi precedenti dai vertici militari e politici statunitensi sulle reali intenzioni dei russi. Ma possiamo veramente ritenere una sorpresa il discorso della notte tra il 23 ed il 24 febbraio di Putin quando riscrive la storia negando l’identità e la statualità ucraina e articolando il teorema dello spazio vitale russo?

No, la vera sorpresa di questa guerra è nella reazione del popolo ucraino. Ma non solo o non tanto la reazione militare che ha in parte spiazzato gli alti gradi della armata russa. A cosa dovremmo guardare infatti noi che viviamo il conflitto quasi come lo sfondo di giochi di potere incomprensibili, in cui temiamo di rimetterci per il peso delle sanzioni? A cosa dovremmo guardare e cosa dovrebbe sorprenderci se non l’amore, la dignità, il coraggio dei tanti che hanno deciso di restare e combattere? 

A cosa dovremmo guardare e cosa dovrebbe sorprenderci se non l’amore, la dignità ed il coraggio di coloro che a milioni hanno dovuto abbandonare la patria e gli affetti perché costretti dall’invasore che ha messo a ferro e fuoco la loro esistenza?

Vivere con la consapevolezza degli ucraini, vivere da un anno a questa parte con la coscienza che la pace senza verità e giustizia è una resa infeconda, che la libertà non è gratis, che la sola speranza è il perdono: questo ci sorprende, ci spiazza, ci ferisce. Mi commuove e mi determina a stringermi quotidianamente al destino di questa gente. Che è proprio anche il nostro destino perché senza verità, senza libertà, senza giustizia in Ucraina non ci sarà pace mai nemmeno per noi.


Canto la resistenza, di Dmitrij Strocev, Bielorussia (ora a Berlino) 

Il 4 marzo 2022 ho lasciato la Bielorussia, e attraverso la Russia ho raggiunto la Lettonia. La mia partenza era dovuta sia a problemi di sicurezza personale sia alla consapevolezza che, con l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il mio lavoro sarebbe stato più produttivo in Europa che in patria.

A causa del lockdown, dal 2020 avevo dovuto rimandare molte tournée poetiche. Per questo ho iniziato a contattare i colleghi e ho organizzato molto rapidamente un itinerario di performances che ha toccato una decina di paesi.

Dal 2008, dopo l’invasione della Georgia da parte dell’esercito russo, ho testimoniato l’espansione militare della Federazione russa nei paesi vicini. Ho invitato tutti a considerare l’invasione della Georgia, l’annessione della Crimea e l’occupazione delle regioni orientali dell’Ucraina nel 2014, la distruzione della società civile in Bielorussia nel 2020 e infine l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022, come le fasi di un unico progetto geopolitico del governo russo, per ripristinare un impero secondo i confini dell’ex Unione Sovietica.

Da quindici anni scrivo poesie in un genere mio personale che chiamo «reportage poetico», come risposta agli eventi catastrofici di cui sono testimone. Tra il 2008 e il 2019 ho cercato di rivolgermi al pubblico russo, approfittando del fatto che scrivo in russo e sono un poeta noto tra i russi; facevo appello alla coscienza dei cittadini di un paese che si stava militarizzando sotto i nostri occhi e che di conseguenza, passo dopo passo, accettava la totalità della guerra come culmine della sua vita sociale e politica. Ma già dal 2020, testimoniando la rivolta bielorussa, ho cambiato l’angolo visuale e parlo in primo luogo alla Bielorussia e, in secondo luogo, all’Europa. Oggi per me è fondamentale informare gli europei su ciò che sta accadendo in Bielorussia, preda del terrore, e in Ucraina devastata dalla guerra.

In dieci mesi di viaggi quasi ininterrotti ho acquisito una notevole esperienza. Quando facevo le performances nelle città dell’Europa orientale confinanti con Bielorussia e Ucraina il pubblico non necessitava di ulteriori commenti alle poesie, bastava la semplice lettura poetica.

Invece davanti agli uditori dell’Europa occidentale – in Norvegia, Francia, Italia – bisognava dedicare un terzo o addirittura la metà del tempo a commenti dettagliati

Più le persone vivono lontano dalla zona del disastro militare e politico, più hanno bisogno di affinare l’ottica e l’acustica della loro attenzione.

Per esempio, per chi vive nei paesi dell’Europa occidentale non è scontato capire che il terrore di Stato in Bielorussia, iniziato nell’agosto 2020 e tuttora in corso, è direttamente collegato ai piani delle autorità russe e bielorusse di attaccare Kiev nel febbraio 2022 proprio attraverso la Bielorussia. La distruzione della società civile bielorussa era necessaria per rimuovere gli ultimi ostacoli all’attuazione di questo piano criminale.

Sta già prendendo forma il programma dei miei viaggi e delle letture poetiche per il 2023, e mi sono coinvolto nelle attività della diaspora bielorussa all’estero. Inoltre, ho aperto una casa editrice indipendente a Berlino che ha già pubblicato le prime tre raccolte di poeti bielorussi. È stato necessario farlo perché in Bielorussia sono state chiuse quasi tutte le case editrici indipendenti che pubblicavano la letteratura bielorussa moderna.

Di fronte alla catastrofe in Bielorussia e Ucraina non possiamo restare inerti.


Speranza, virtù difficile, di Svetlana Panič, Russia (ora a Toronto)

Il 24 febbraio 2022 ci siamo svegliati in una realtà qualitativamente nuova, mostruosa e irrazionale, a cui non eravamo affatto preparati anche se, già dal 2008 o addirittura dai primi anni ’90, la guerra ha fatto costantemente da sfondo alla nostra vita quotidiana. Eppure la nostra ragione non poteva concepire che un bel mattino, a prescindere da dove abitavamo, ci saremmo trovati in mezzo a una guerra tradizionale, «storica», quella che Hanna Arendt riteneva impossibile dopo tutte le catastrofi del XX secolo; e la ragione si aggrappava ostinatamente alla speranza, non dico nel buon senso e nelle lezioni della storia, ma almeno nel naturale istinto di sopravvivenza.

Quest’anno di guerra ha messo in questione il concetto stesso di «speranza», ci ha costretti a ripensare da capo questa virtù incredibilmente difficile. A volte sembrava che ciò che sta accadendo esigesse di abolirla in quanto «oppio per anime belle»; esigesse di non aggrapparci più ad essa, di accettare che d’ora in poi ci toccherà vivere nella fossa tenebrosa della disperazione e della vergogna perché noi, che conosciamo molte parole dotte e siamo capaci di farne dei testi belli ed elevati, non siamo riusciti a scongiurare questa guerra.

Ma siamo anche arrivati a capire con una chiarezza e una concretezza mai sperimentate prima, che troppo spesso abbiamo inteso la speranza come banale «positività» – parola in voga prima della guerra – mentre invece la speranza è uno sforzo intenso, un duro lavoro, una forma di resistenza alla guerra, infatti, all’ideologia di cui la guerra si nutre fa comodo la disperazione nera che paralizza il desiderio di verità.

Un anno di guerra ci ha costretti a rivedere molti concetti che ci sembravano familiari, e a riconoscere che no, non si sono svuotati di senso ma anzi, significano qualcosa di più difficile ed esigente di ciò a cui eravamo abituati ad associarli. Molte parole, per usare un’immagine di Averincev, non solo «si sono allontanate dalla fragile natura umana», ma sono diventate così grevi da essere impronunciabili. Il diritto di pronunciarle richiedeva un’azione quotidiana, richiedeva di rinunciare a difenderci con la scusa che «tanto non sapremo mai cosa c’è dietro», per riconoscere la vera complessità, quella che interroga ed esige che si distingua costantemente il bene dal male.

Si sono come sbriciolati gli orpelli con cui si cercava di adornare la vita negli «anni delle vacche grasse»; molte abitudini e scherzi apparentemente innocenti, l’ostentazione di una totale ironia hanno messo a nudo la loro banalità, e ora bisogna reimparare da capo, cito di nuovo Averincev, ad essere autenticamente seri con ciò che lo richiede.

Questo annus horribilis ha mostrato quanto ci manca una parola autorevole che non sia uno slogan, quanto ci manca il «pensiero lungo» di coloro che hanno saputo conservare una serietà non affettata e stucchevole.

Questo anno ha cambiato il mio rapporto con il tempo. Mi ha insegnato che ho soltanto l’«adesso», questo minuto, questo giorno, i suoi impegni, le sue domande, perciò non si può rimandare «a dopo», bisogna affrettarsi.

Infine è cambiato il mio rapporto con la gente. È andato in frantumi ciò che, con tutta la sua presunta ricercatezza, era inaffidabile, ed è affiorata la bellezza radiosa, non saprei definirla altrimenti, dei rapporti con i miei amici ucraini, molti dei quali non vedevo da tanti anni. Questa «catena radiosa» mi ha aiutato a non crollare nei primi mesi di guerra, mi sostiene oggi e so per certo che si prolungherà «oltre la vita».

La guerra ha abolito molte barriere ideali, estetiche, stilistiche e di altro genere, costruite non senza un certo autocompiacimento ai «tempi delle vacche grasse». Oggi per me lo spartiacque invalicabile passa fra chi ritiene che esista una ragione «di Stato», metafisica o comunque superiore per cui si possa invadere la terra altrui e uccidere i suoi abitanti, e chi pensa che la guerra sia un male assoluto e indiscutibile. È cambiata la concezione stessa della parola «nostri», che non si riferisce solo a quelli con cui condividiamo il modo di pensare e «le citazioni», ma soprattutto a coloro con cui puoi stare insieme dentro una comune speranza.

Penso che oggi viviamo ai tempi del buon samaritano, e il contenuto, la qualità della nostra vita sono definiti da quella stessa strada su cui a volte siamo noi a giacere in terra percossi e su di noi si china chi non dovrebbe farlo; e a volte siamo noi a chinarci su coloro ai quali in questo tempo terribile dobbiamo farci prossimo.


Un anno di guerra, di Andrej Desnickij, Russia (ora a Vilnius)


In questo anno nella mia vita è cambiato praticamente tutto: luogo di residenza, lavoro, piani… o meglio, le speranze per il futuro, perché i piani non sono mai andati più in là del mese successivo. La pandemia e il lockdown ora sembrano una specie di training a quanto è successo. E l’emigrazione improvvisa, che abbiamo affrontato l’autunno scorso, sembra una specie di preparazione alla morte. Abbiamo dovuto lasciare quasi tutto dove stava, e non sappiamo per quanto tempo, ma nonostante tutto questo la vita non è finita. Ho capito che ho bisogno di molte meno cose e legami di quanto pensassi prima.

Non direi di aver scoperto qualcosa di assolutamente nuovo su di me e sugli altri attorno a me. Piuttosto ho trovato conferma di quanto sia vero quello che avevo letto un tempo nei buoni libri: che la nostra vita (anche quella psichica) è fragile; che nell’uomo c’è molto di bestiale e che la bestia viene alla superficie con grande facilità, ma al tempo stesso, che la società umana può ricomporsi dai frammenti.

La cosa più imponente, forse, è la crisi (per non dire il crollo) della religiosità tradizionale, e non solo quella ortodossa. Eravamo abituati al fatto che la Chiesa parlasse delle cose essenziali e predicasse le verità eterne. Ma quando gli eventi descritti nella Bibbia hanno cominciato ad accadere accanto a noi, abbiamo scoperto che nella maggioranza dei casi gli uomini di Chiesa non hanno semplicemente avuto il coraggio di chiamare le cose col proprio nome: omicidio l’omicidio, violenza la violenza, furto il furto. Peggio, che possono usare a cuor leggero l’autorità accumulata, la posizione eminente nella società per predicare che «non è tutto come sembra».

Invece, una scoperta di quest’ultimo anno per me e mia moglie è stata la città di Vilnius, che abbiamo visitato per la prima volta in luglio, amandola da subito, e dove in autunno mi hanno offerto un lavoro.

La guerra è la tragedia della separazione. Ma anche una possibilità di incontri.


Una guerra ancora senza soluzione, di Massimo Borghesi, Italia


L’angoscia, che accompagna il cuore e la mente, il mio cuore e la mia mente, dopo il 24 febbraio 2023, non è solo di fronte ad una guerra crudele che tocca da vicino l’Europa, una guerra che tra russi e ucraini somma già più di 200.000 morti. L’angoscia è anche di fronte ad un conflitto che, al momento, non presenta alcuna soluzione, alcuna via d’uscita. Come una morsa esso vede le parti in lotta avvitarsi sempre di più, chiudere le fessure, correre verso vie che non hanno ritorno. E tutto ciò di fronte alla diplomazia dei blocchi contrapposti, ferma, sterile, ottusa.

Così, noi che guardiamo la televisione ogni sera, rimaniamo attoniti di fronte alle immagini struggenti del povero popolo ucraino a cui è tolto tutto: i cari uccisi, i figli, le case. Uomini, donne, bambini gettati nel fango in un inverno gelido, sotto il rombo vicino dei cannoni nel lampeggiare della notte. Rimaniamo attoniti di fronte ad un dolore immenso, che non può essere coperto da nessun nazionalismo, da nessuna sacralizzazione della patria. Dolore provocato da un uomo, Putin, dal delirio della sua volontà di potenza. Voluto dalla Russia, con l’inerzia colpevole di altri che, negli anni passati, non hanno esitato a soffiare nel fuoco.

La pace, quella promessa dalla caduta del muro di Berlino, è finita. È il titolo dell’ultimo volume di Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, edito da Feltrinelli, in cui molto mi ritrovo. Per l’autore la pace si fonda sul realismo, cioè sull’equilibrio tra le potenze. Una lezione che dopo l’89 è stata inopinatamente dimenticata. Oggi «la guerra in Ucraina è sulla scala strategica del mondo scontro fra Russia e Stati Uniti d’America» (Caracciolo), non primariamente guerra tra Europa e Russia. L’Europa è divisa, dilaniata essa stessa al suo interno, sulle misure da adottare. Succube del grande gioco. Impotente, perciò, a mediare, a indicare soluzioni. Questa è la vera tragedia nella tragedia: essere spettatori di una guerra e non essere in grado di intravedere soluzioni che possano porvi fine.

La mia guerra, dell’Archimandrita Kirill Hovorun, Ucraina (ora a Roma)

Per me la guerra non è iniziata nel febbraio 2022 come per la maggioranza degli europei, e neppure nel febbraio 2014 come per la maggioranza degli ucraini.

È iniziata alcuni anni prima, quando mi sono reso conto della pericolosità delle idee che poi hanno portato alla guerra. Si tratta di un complesso di idee – a volte eterogenee e reciprocamente incompatibili, a volte invece molto coerenti e che si puntellano a vicenda – che ancora necessita di un’analisi accurata e sistematica. Tuttavia già da ora lo si potrebbe definire in modo globale, ad esempio col termine che aveva usato don Luigi Sturzo nel descrivere alcune tendenze della Chiesa italiana tra le due guerre: clerico-fascismo; oppure con un termine ancora più radicale pensato da Dorothee Sölle: cristofascismo.

In Russia e nella sua Chiesa ortodossa gli avvocati di questo genere di idee le promuovono con l’etichetta del «mondo russo». Si tratta della percezione distorta di quello che l’ortodossia ha di più caro e con il quale si identifica: la purezza della fede. L’ideologia del «mondo russo» estrapola l’idea della purezza della fede applicandola al piano socio-politico e inscrive sui suoi vessilli slogan di lotta per «i valori tradizionali» contro il presunto Occidente moralmente corrotto. In nome di questa lotta giustifica anche la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.

Questa guerra per me personalmente non finirà con la sconfitta di Putin. Finirà solo quando sarà sconfitto il putinismo, l’ideologia di cui Putin si è armato per scatenare la sua guerra, e che può sopravvivergli. Se accadesse questo, in Europa si avranno nuovi conflitti bellici anche dopo Putin. 

Per questo è così importante combattere non solo l’aggressione militare in quanto tale ma le idee che l’hanno generata.

Anche se io ero preparato all’aggressione diretta della Russia contro l’Ucraina un anno fa, per me è stata comunque uno shock, come per qualsiasi ucraino ed europeo.

Le prime settimane avevo la sensazione di muovermi in un incubo da cui volevo svegliarmi. Ora la sensazione è diversa, come se quello che c’era prima della guerra non fosse mai esistito. La guerra è diventata parte della routine quotidiana, praticamente la nuova norma di vita per la maggioranza degli ucraini.

Per questo bisogna che finisca al più presto.

Però che non finisca congelando il conflitto, che porterebbe a nuove escalation, ma con la vittoria definitiva su Putin e il putinismo.


 
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