Fonte: Quotidiano Nazionale. Articolo di Davide Nitrosidel 25.09.2023. Luigi Ballerini, promotore del Festival dell’innovazione scolastica: "i ragazzi ci obbligano a cambiare".
Innovare la scuola è possibile. Bisogna solo domandarsi che cosa significhi. Introdurre il voto in condotta alle medie? Rilanciare il merito? Fare una rivoluzione digitale fra i banchi? In realtà innovare è soprattutto cambiare il modo di insegnare e aprirsi a nuovi spazi in cui si fare scuola.
Luigi Ballerini, scrittore per i giovani, tra i promotori del Festival nazionale dell’innovazione scolastica di Valdobbiadene – dove si sono messe a confronto le migliori esperienze scolastiche italiane – ha un’idea precisa su cosa significhi innovazione tra i banchi. "Partiamo dall’idea che non possiamo fare scuola sempre allo stesso modo. Ci sono già molti docenti che si sono attivati per insegnare in modo nuovo e diverso, adatto ai ragazzi di oggi".
Utilizzando strumenti digitali?
"L’innovazione a scuola non è solo la digitalizzazione, ma ha a che fare con il modo di essere e stare in una classe. Conta anche la disposizione di un’aula e il modo con cui viene guardato lo studente dal docente".
Cosa significa guardare lo studente?
"Si tratta di guardare i ragazzi per quello che sono: ragazzi del 2023 diversi da quelli degli anni ’80 o ’90, e forse diversi anche da quelli del 2019. Per fortuna sono gli studenti che ci obbligano a cambiare, loro sono sempre nuovi anche se nell’intimo sono come i loro coetanie al tempo dei fenici. Vivono però nel 2023. Fare innovazione a scuola non è solo usare la Lim. Non si può non considerare l’impatto dei social sulla vita dei ragazzi. Per alcuni di loro la vita è degna di essere vissuta quando è instagrammabile".
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Quel è la conseguenza dell’impatto dei social?
"C’è una maggiore difficoltà nella concentrazione, nella tenuta all’ascolto, ma anche negli interessi. Sono ragazzi attivati da interessi nuovi, fluttuanti, che possono generare una adesione molto forte. Questo significa che non potrò insegnare i Promessi sposi come li ho insegnati vent’anni fa".
Ma l’abuso dei social e dello smartphone, l’ansia di inseguire i like, non sono comportamenti da correggere?
"L’adulto in grado di aiutare non è quello accondiscendente che rende la scuola instagrammabile. Sarebbe una scorciatoia che non piacerebbe neppure ai ragazzi. Un adulto responsabile è consapevole delle dinamiche che possono muovere i desideri, non se ne scandalizza, ma sa includere questo mondo nella sua didattica senza mettersi a fare lezione coi social. Può essere l’occasione per lavorare sul concetto di popolarità e di successo. Un docente, rinnovando se stesso, adatterà e rinnoverà il suo modo di fare scuola ai ragazzi e ai mezzi di oggi, con tutte le loro potenzialità ".
Le scuole sanno adattarsi?
"Lo hanno dimostrato. L’edizione 2022 del nostro festival s’intitolava ’Un’aula grande come la città ’. Il Covid ha fatto abbattere virtualmente i muri della scuola, gli studenti sono usciti, hanno usato spazi delle città . È cambiata la classe e l’organizzazione del tempo".
Prendiamo il tempo: scuole aperte anche al pomeriggio?
"Oggi sono venuti meno i luoghi di incontro: il cortile, la strada in sicurezza, l’oratorio, il circolo sportivo... La scuola può vicariare a questo offrendo spazi di studio comuni al pomeriggio. I ragazzi sono spesso soli a casa dove si distraggono. Servono luoghi dove studiare insieme. Dove si può anche sperimentare l’aiuto tra pari, i più grandi fanno fare i compiti ai più piccoli".
Non si rischia una scuola che organizza tutto il tempo dei ragazzi?
"Mentre ne parlo mi viene in mente questo rischio. Bisogna evitare che la scuola sia totalizzante. Nel mio libro ’Appuntamenti e non agguati’ accenno al fatto che la vita di un ragazzo è ridotta alla scuola e la vita della scuola è ridotta al voto. Bisogna dare spazio a libri, alle serie tv, al riposo... La scuola deve tornare a essere luogo di apprendimento sociale. La classe è una piccola città , dove si impara che la convivenza è normata".
Il merito è innovazione?
"Il merito di un ragazzo è quello di provarci, di investire, ma è un merito sollecitato. Perché un ragazzo si metta in moto serve qualcuno o qualcosa che lo metta in moto. La voglia di studiare non è endogena, viene da fuori. A uno studente è trasmissibile solo il proprio interesse e la propria passione. Il lavoro dell’apprendere può essere motivato anche con l’innovazione digitale se si mette al servizio di uno sguardo nuovo sul ragazzo. La digitalizzazione però è un mezzo, non la panacea della scuola italiana".