Fonte: Il sussidiario.net. Articolo di Nora Terzoli del 22.02.2024. Occorre una scuola improntata alla cura e non alla domanda di performance. La cura può basarsi solo sull'affetto, per sua natura relazionale
Nel suo ultimo libro, Stella Maris, Cormac McCarthy fa dire alla protagonista, ricoverata in una casa di cura, durante uno dei colloqui con il suo terapeuta: “Trovo che in termini di cura qui non sia niente male, ma qui come ovunque la cura non riesce mai a stare al passo con il bisogno” (p. 53).
Le parole pronunciate da Alicia Western si riferiscono al luogo in cui è ospitata, ma potrebbero essere estese anche alla scuola, a condizione che la parola cura non sia sinonimo di un accudimento, che voglia sostituirsi alla capacità di iniziativa del singolo, ma sia condizione per l’accoglienza del bisogno di ciascuno e per la proposta di una strada, che renda possibile l’esercizio della libertà, nel rispetto del bisogno e del talento di ciascuno.
Qualsiasi cura, sembra voglia ricordarci Alicia, non riuscirà mai a colmare la profondità del desiderio che alberga alla radice dell’esistenza umana, la sete di infinito che caratterizza il cuore di ogni uomo e donna a qualsiasi età. La cura pertanto non banalizza la strada, non è sinonimo di facilitazione, di riduzione del rischio, di accompagnamento che svilisca l’esercizio continuo della libertà. La cura stima la libertà, la sostiene, valorizza ogni tentativo che lanci oltre la routine e la ripetitività del già noto.
“Il mio maestro spesso pescava nell’etimologia delle parole quando voleva spiegarci qualcosa. E per la parola cura si riferiva al suo legame linguistico con la parola curiosità, guardare, osservare. […]. Più tardi avrei imparato a chiamare questa prassi il credito di senso che noi dobbiamo sempre attribuire all’altro. […] Ognuno di noi è curioso di ciò da cui si attende qualcosa di buono”. Quanto asserisce Cornaggia nel suo testo Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura (Inschibboleth, 2022) toglie ogni equivoco al senso da attribuire alla parola cura. Non c’è cura quando si pensa di ignorare nell’agire educativo e didattico il bisogno che permea ogni esistenza umana, quando l’accademia si sostituisce a un sapere che implichi una prospettiva di senso.
La scuola della cura è per sua natura aliena dalla ricerca esasperata della performance, perché mette al centro lo studente, accogliendo il suo bisogno di senso e attendendo da lui “qualcosa di buono”. La cura prende corpo dentro una relazione educativa che implica il riconoscimento dell’altro, del giovane da introdurre e accompagnare nell’avventura della conoscenza, ma anche nella ricerca di una fattiva collegialità tra gli adulti, condizione imprescindibile per la costruzione della comunità educante. Senza queste attenzioni la scuola rischia di ridursi a un luogo, soprattutto per i più piccoli, di accudimento, in questa direzione sembra andare anche la richiesta di alcune famiglie, o di sollecitazione continua alla performance per i più grandi.
La cura invece, all’interno di relazioni che rendono possibile il riconoscimento, crea le condizioni per la generazione di quel “qualcosa di buono” che ciascun individuo ospita dentro di sé e che chiede di venire alla luce. Si tratta di far fiorire l’umano in ogni sua possibile dimensione e caratteristica, rifuggendo dal rischio dell’omologazione e dalla riduzione del desiderio, inteso come il “punto infiammato” in cui abita la sete dell’infinito, che, come testimoniano arte, letteratura, scienza, è alla genesi di ogni espressione creativa. “Il desiderio per sua natura è inquietudine infinita, inarrestabile, se non al prezzo di negare una qualsiasi consistenza all’io. Perciò il desiderio infinito non significa soltanto che esso è continuamente ricorrente e sempre rinasce dopo ogni soddisfazione parziale o temporanea, ma può significare anche che esso è – consapevolmente o meno – un desiderio dell’infinito. Solo con il lessico del desiderio, non con quello dei soli concetti o delle sole emozioni, la parola infinito può essere detta sensatamente e ragionevolmente a partire dall’esperienza”.
Le parole di Costantino Esposito in un suo recente articolo (“Quel desiderio che dà senso all’Infinito”, Avvenire, 7 febbraio 2024) illuminano con grande chiarezza il senso della cura e dello scarto irriducibile con il bisogno, come ci ricorda Alicia nella Stella Maris di McCarthy. Il lessico dei concetti e delle emozioni non è sufficiente per comprendere il bisogno di infinito che contraddistingue la natura umana, solo il desiderio consente di aprirsi all’esperienza dell’infinto. L’esercizio del desiderio a scuola potrebbe essere facilitato da un’educazione agli affetti più che alle emozioni. Gli affetti sono infatti al vertice di ogni esperienza umana e sono la manifestazione di una posizione esistenziale davanti alla realtà.
Come riferisce Luigi Campagner in un suo articolo di qualche anno fa sul Sussidiario: “Giacomo Contri ha ribattezzato aristotelicamente l’affetto forma del corpo. Una forma che è in primis concava o convessa: accogliente o respingente. In questa prospettiva l’affetto è la disposizione che il corpo assume in relazione all’offerta di un altro. È la bocca aperta o chiusa, l’orecchio disposto o refrattario all’ascolto, l’occhio che si fa prensile o sfuggente nella lettura. […] Tutte e ciascuna, manifestazioni della disponibilità (o della preclusione) del pensiero ad accogliere l’imprevisto: il non ancora pensato perché frutto del lavoro di un altro”.
L’affetto è per sua natura relazionale e quindi è al cuore di ogni esperienza educativa e didattica, come lo è la generazione del vero sapere, quando non vuole ridursi a concetti accademici e autoreferenziali. Molti studenti si dicono afflitti dall’ansia e da diverse forme di malessere e vedono nella scuola un luogo che richiede continue performance. Mettere al centro il lessico del desiderio potrebbe essere la strada per ridare a giovani e adulti un respiro di senso e di fioritura dell’umano. Un desiderio che, come ricorda Cornaggia, “è un bisogno che rispetta la verità e la libertà”. (pag. 32)