Insegnanti
da Il Foglio – 09.06.2015 di Mastrocola
C’è
quello rassegnato. Il professore allunga l’occhio sconfortato sul vasto atrio
dell’Istituto Tecnico. Periferia romana. Annusa l’aria – venti contrari, venti
di sempre, mai un refolo a favore. C’è odore di caffè in giro. Pizzette e
cornetti. Pizzette con mortadella. Prosciutto e formaggio. “Ancora ’sta
mortadella? Volemo pure er chebbabbe, prima o poi! Famose moderni!”. Ecco.
Zaino/alunno/smartphone compongono un tutt’uno – creatura aliena, diversi pezzi
montati insieme, il piccolo implacabile Frankenstein – un po’ così carino, un
po’ così stronzetto – che moltiplicato per trenta e trenta e trenta, trenta per
classe per tre classi, ogni giorno occorre fronteggiare. Passa, urta, corre –
smanettando sempre, sempre cibo per il mondo esterno famelico, l’alieno. Voci:
“Aaaaa-mongoloide!”. “Aaaaaa-andicappata!”. “Aaaaaaa-anarfabetica!”. Geniale,
quasi. Sospiro del professore: “Come entri qui dentro, la mattina, ti pare di
essere la balena che ha capito di essere finita spiaggiata…”. C’è quella
entusiasta. Di solito è una professoressa (pure i professori sono entusiasti,
mica tutti abbattuti o ansimanti, pancia all’aria, sulla sabbia: ma le donne il
loro entusiasmo comunicano meglio). “Alla fine, sono meravigliosi i ragazzi…”,
e rimira, la prof. di italiano e storia, il battaglione foruncoloso dalle
braghe calate, la mutanda nera con teschi a vista e il WhatsApp perennemente
alleprato su altre direzioni – ogni altra direzione, tranne questa che conduce
alla terza A o alla quinta B o alla seconda C. La prof. come vice mamma,
teneramente materna, un filo affaticata, capace di annusare il genio
adolescenziale (quando c’è) e di sorvolare sullo svaccamento adolescenziale
(che spesso c’è), che quasi pare di sentir canticchiare la canzone del
cantautore e illustrissimo collega prof. Vecchioni, “figlio, figlio, figlio /
disperato giglio, giglio, giglio / luce di purissimo smeriglio…”. C’è il prof.
che molla, c’è quello che non molla. Quello che si appassiona e quello il cui
scoglionamento rivaleggia con lo scoglionamento dello studente/ssa che ha
davanti. L’unghia di nero laccata, il rimmel stratificato, il jeans che cinge
un voluminoso girovita che disperatamente s’avventa fuori: “A professo’, nun se
capisce…”. E quel groviglio esistenziale tra le cose che sai, magari non
semplicissime da spiegare, ma neanche particolarmente complicate, e il vetro
infrangibile verso il quale si dirigono e sul quale si frantumano, e tornano
polverizzate in un aggrovigliarsi di “amò cvd x axitivo”, di “nn”, di “xchè”,
di “qnd” e di “qnt”, figurarsi perciò se uno può stare dietro al Boiardo, il
principio di un attacco di panico nella prospettiva di altri sinonimi &
contrari – e pure un verso di Prévert (Prévert a quindici anni nel terzo
millennio fa lo stesso effetto che a quindici anni negli anni Settanta: al
facile poetare un occhio si può sempre gettare) trova una sua geniale
riduzione: “Kuest amo tt int ankor kosi vivo tt pien d sol è tt m” – e dicono
prof., tutti ormai diciamo prof., scriviamo prof. – il prof. stesso, chiamato
professore, forse non si girerebbe più. Il Maalox, ché le budella bruciano. La
pazienza. La complicità a volte. Tra cattedra e banchi. Discente e maestro.
Qualcosa poi sempre resta. Magari. Forse. Dicono (sappiamo che resta). Carezza
esistenziale agli sbracati lì davanti. Carezza (più rara e più ruvida) degli
sbracati al piccolissimo potere issato sulla cattedra. Poi dicono che è stato
il meglio – una vita dopo, però. Ma solo alcuni, lo dicono. Sorride il prof.
Piergiorgio Mori, vicepreside dell’Istituto Professionale “Giorgio Ambrosoli”
di Centocelle – quartiere periferico della capitale: “Stanchezza? Noia
esistenziale? Beh, sempre lo stesso posto… E poi, questi qui davanti, i
ragazzi, hanno sempre e per sempre diciotto anni, e tu invece ogni anno un anno
in più…”. Che furono quaranta e poi cinquanta e magari sessanta – un po’ ti
pieghi, inevitabile, e loro immutabili come pietre di Stonehenge, purtroppo non
altrettanto immobili, sempre con ossa integre. Moltiplicati all’infinito – e
diciotto anni non mutano mai, né oggi né trent’anni fa. Poi, ci sono pure i
prof. della Mazzucco.
Melania
G. Mazzucco è una scrittrice. Una delle tante. Dei tanti. Chi pensa sia brava.
Chi pensa che non lo sia. Chi non perderebbe due minuti tra le sue pagine. Chi
le considera pilastri della infinita liberazione nostra. Certo, da una cattedra
forse chissà se qualcuno sospettava potesse mai essere evocata. Per esempio, la
preside del liceo “Giulio Cesare” – la prof. Micaela Ricciardi, pensa sia
brava, dice che “il libro è bello e serve per parlare di temi come le famiglie
di nuovo tipo e l’omofobia. I ragazzi lo hanno apprezzato”. Il “Giulio Cesare”
– quello cantato e ricantato da Venditti, quello che, allora, figurarsi, “le
otto e mezza tutti in piedi / il presidente, la croce e il professore / che ti
legge sempre la stessa storia / sullo stesso libro, nello stesso modo / con le
stesse parole da quarant’anni di onesta professione”. Ecco, per dire: tra
precariato che s’allunga fin dentro la maturità della gente, adesso
quarant’anni di onesta professione pure il più onesto dei prof. se li sogna. E
soprattutto, né più la stessa storia né lo stesso libro né lo stesso modo. Il
Mazzucca style, là dove il cantautore evocava Paolo e Francesca, pure Nietzsche
e Marx, intesi il fascio e la zecca, che “si davano la mano”. Il libro in
questione s’intitola “Sei come sei” (Einaudi) – bimba figlia di una coppia gay
(con utero procurato oltreconfine), e precoce vedovanza di uno dei due. A un
certo punto, c’è il racconto/resoconto di un giovanile pompino: “Si
inginocchiò, fingendo di cercare l’accappatoio nel borsone, e poi, con un
guizzo fulmineo, con una disinvoltura di cui non si immaginava capace, ficcò la
testa tra le gambe di Mariani e si infilò l’uccello in bocca. Aveva un odore
penetrante di urina, e un sapore dolce. Invece di dargli un pugno in testa,
Mariani lasciò fare. Giose lo inghiottì fino all’ultima goccia e sentì il suo
sapore in gola per giorni…” – volendo, appunto: resoconto più che racconto.
(Quelli del Messaggero hanno premesso un piuttosto comico avvertimento alle
righe sopra riportate: “Avvertiamo i lettori che il brano sotto riportato ha
dei contenuti particolarmente espliciti” – a timore dei turbamenti della
pensionata di Tor Marancia, si suppone). E’ seguita denuncia dei professori che
il testo avevano proposto, difesa della preside, del ministro dell’Istruzione –
che però “certo non lo leggerei in classe a ragazzi di quindici anni”,
turbolenta presa di posizione di Iva Zanicchi con invocazione di
fame/licenziamento/calci-nel-culo e, dulcis in fundo, come si dice (a
proposito, nel caso), “quella cosa dolciastra gliela vomiterei in bocca”. Per i
prof. proponenti il mazzucchiano elaborato, persino interrogazione al Senato
(l’implacabile Giovanardi), non ammessa dal presidente Grasso, “il documento in
oggetto non corrisponde pienamente ai requisiti di proponibilità degli atti di
sindacato ispettivo parlamentare”, insomma: è osceno, si turba il Senato e
chissà cosa può passare per la testa del senatore, se casomai si arrapa – ché
di sicuro gli studenti, Mazzucco o non Mazzucco, prof. o non prof., sulla
faccenda saranno già di loro parecchio addottrinati. Poi, manifestazione di
gruppuscoli di estrema destra davanti al liceo – a motivo di scandalo del
pompino gay. “Maschi selvatici, non checche isteriche!” – spiccava sullo
striscione fesso, e siamo a un passo dal mitologico “l’omo, pe’ esse omo, a
’dda puzzà”, che quasi quasi veniva da invocare “Priscilla, la Regina del
Deserto”, checca sì e neanche isterica, e decisamente più rassicurante. E di
là, sull’altro fronte, i giornali democratici, i democratici insegnanti, le
associazioni Lgbt (schiatteremo sotto gli acronimi), i gay impegnati (“Se era
un rapporto orale eterosessuale tutti zitti, eh?”. “Dici?”. “Dico. Hai mai
visto qualcuno impressionato per un pompino eterosessuale?”. “Boh… Dici?”.
“Dico”), la sinistra indignata (“Ma tu l’hai letto, il libro della Mazzucco?”.
“Manco una pagina”. “E allora?”. “E allora è il principio”), i percorsi formativi,
la sacrosanta lotta all’omofobia, la scontata accusa di omofollia di quelli che
ogni gay ce l’hanno per frocio – a insulto, ce l’hanno… Solito teatrino. Solita
scena. Solita pena.
La
Mazzucco è relativa – è relativo pure Dante, figurarsi. Forse la questione
allora sono gli insegnanti, i prof. – quella stanca figurina sul fondo della
nostra quotidianità, che una volta spiccava, per autorevolezza e compostezza,
tra la divisa del maresciallo dei CC e la tonaca del prete e il camice del
medico. E se il prof. i genitori chiamava, lo scapaccione per lo studente,
fosse pure ancora stabile sulla soglia rassicurante del semplice seppur
accanito onanismo, era assicurato. Ora vagano, giorno dopo giorno, Consiglio
d’Istituto dopo Consiglio di Classe, su un terreno minato, contano morti e
feriti, depressione e stanchezza, alzate di genio e occhiate impazienti
all’orologio – il loro piccolo “ospedale da campo” dove pure la Mazzucco può
sembrare portare sollievo e comprensione. Molti, di diverse altre scuole, difendono
la scelta dei colleghi del “Giulio Cesare”. Altri, sorvolano: nel parapiglia,
una Mazzucco chissà che non possa capitare pure a me.
Altri,
una minoranza, dissentono. “Per quella roba lì basta leggere Catullo. O magari
Petronio”, dice la prof. Maria Grazia Ascoli, che insegna storia e filosofia al
Liceo Scientifico “Kennedy”, sul Gianicolo. Perché infine, ciò che la Mazzucco
come sapeva e come poteva ha rielaborato, senza affondare nei classici si trova
pure (per stare agli scrittori italiani) in Umberto Saba, nel suo “Ernesto” da
quarant’anni in libreria: “L’uomo accarezzò la parte che aveva lentamente messo
a nudo, ma poco, perché temeva di impazientire il ragazzo… Poi provò una strana
indefinibile sensazione di caldo (non priva, in principio di dolcezza) come
l’uomo trovò e stabilì il contatto…”, ecc. ecc. – e qui siamo più decisamente
sul versante racconto piuttosto che resoconto. “Pure Boccaccio, allora, quando
lo hanno letto in classe la prima volta…” – azzarda un prof. “Pure Boccaccio
cosa? Come la Mazzucco? Ti sei fatto la canna di un tuo studente?”. “Ma scusa,
è il principio…”. Oddio, riecco il principio.
“L’autorevolezza
sociale degli insegnanti è caduta molto, molto in basso. Questo non inficia
l’autorevolezza personale di ognuno di noi, ma… Ecco: il discredito che copre
la classe insegnante è un po’ anche colpa nostra”. Così ragiona, nella sala
professori del Liceo Scientifico “Nomentano” la prof. Piera Nardi, italiano e
latino, dal 1975 dietro la cattedra. Scuote la testa: “Gli insegnanti hanno
troppo facilmente accettato la linea dei loro sindacati, che li ha ridotti a
impiegati. Io sarei stata una che nella vita poteva iscriversi alla Cgil, però
mai ho trovato un atteggiamento che valorizzasse la qualificazione, il merito.
Anzi: ‘Ma tu fai il concorso? Ma sei matta?’. Il sindacato poteva fare molto
per non rendere questo un lavoro impiegatizio. Invece ha cercato di appiattirlo
al livello più basso, di darci piccoli contentini più per difenderci dal nostro
lavoro che per farcelo amare”. Ha lezione, tra poco, la prof. Nardi. Le carte,
il registro, l’elegante foulard. “Ma questa tendenza impiegatizia è forte anche
per colpa nostra. Abbiamo barattato piccole garanzie con qualità e personalità
di un lavoro. E poi, il solito scontato atteggiamento di fronte alle riforme,
come se fosse sempre una cosa di destra. Come se uno si dovesse giustificare
tutte le volte che vuole provare a migliorare la propria personalità”. E la
storia del “Giulio Cesare”? Né si scandalizza né si stupisce, la prof. Nardi. “Io
non avevo preso in considerazione questo suo ultimo libro, pure se c’è una
riscoperta della letteratura femminile del Novecento… Anche se poi l’intera
vicenda va riportata dentro il progetto scolastico contro l’omofobia. C’è un
percorso attraverso il quale si fanno le cose”. Come al colonnello di Garcìa
Màrquez, nessuno più scrive al prof. O alla prof. Come fece don Milani con i
suoi ragazzi, in quell’Italia degli anni Sessanta – quella scandalosa “Lettera
a una professoressa”, scandalosa perché allora qualcosa significava, una
professoressa, “per prima cosa ho scoperto l’ingiuria giusta per definirvi:
siete soltanto superficiali. Siete una società di muto incensamento che si
regge perché siete pochi”. Ora pochi non sono, i prof. Un pattuglione sterminato,
un’armata – però un po’ spersa, come quelle che nei film di fantascienza
mandano nello spazio a vagare e buonanotte, come se la scuola fosse diventata
un pianeta ostile a loro e trascurabile per il resto del mondo. Un’armata di
terracotta – come quella del Primo Imperatore Qin Shi Huangdi: immensa e
imperiale e impotente. Tranne, si capisce, per chi ha lì il figlio o la figlia
– il poco studio, le troppe canne, le cattive compagnie. E soprattutto, che non
crei problemi, la scuola, che già tanti ne abbiamo a casa! Lì stanno, i prof. –
in una sorta di terra di nessuno, né padri né madri, vice padri e vice madri,
la testa dei ragazzi spesso altrove, come altrove è la testa dei genitori. Là
dove va lo sguardo: sul maledetto smartphone.
Ha
scritto ai prof., invece, un altro prof., un super-prof., ecco. Sulla Stampa,
Luca Ricolfi, esaminati i test Invalsi (una di quelle trovate che già solo al
primo accenno filologico generano noia e disattenzione: insomma, prove sui
livelli di apprendimento degli studenti), ha lanciato pesanti accuse. Intanto,
che “i risultati dei test sono manipolati. Molti insegnanti, infatti, aiutano
direttamente i loro allievi o li lasciano copiare”. Dilagante asineria, ha
rilevato il super-prof. Grullerelli e ciuchini collodiani futuri, ha segnalato.
E di ciò, i prof. ha incolpato. “Gli insegnanti che concedono la maturità (e,
prima della maturità, la licenza media) ad allievi che non hanno nemmeno
lontanamente raggiunto gli standard previsti da questi ordini di scuola, ad
allievi che non sono in grado di scrivere o comprendere un testo, ad allievi
che hanno cancellato quasi del tutto quel poco di matematica che la scuola ha
loro comunque insegnato, ad allievi che sono perfettamente ignoranti in storia,
geografia e scienze, questo tipo di insegnanti lo stato penoso dei loro allievi
lo conoscono benissimo, perché si vede ad occhio nudo, senza bisogno di alcun
raffinato strumento di valutazione. Per alzare i livelli di apprendimento,
basterebbe che gli insegnanti rispettassero i programmi e non abdicassero al
loro ruolo”. Questo e altro, scrisse Ricolfi. Rispettare? Abdicare? Per
Gabriella Bertero, “insegnante, da trent’anni in un istituto professionale”,
facile, troppo facile – “tutti, Lei compreso professore, mi scusi, pensano di
sapere sempre ciò che si può o si deve fare”, e un lungo elenco di doglianze, a
sua volta, sull’illustre critico rovescia: “A me piacerebbe che ognuno di voi
che scrivete, parlate, decidete per gli altri, veniste a vedere che cosa c’è in
un’aula: il ragazzo con le crisi di panico, l’allievo che arriva pieno di
lividi per le botte in famiglia, il cinese (o l’indiano, il rumeno, il
marocchino) che arriva a metà anno senza sapere una parola di italiano (e che
deve essere seguito, inserito, aiutato…), il disabile senza sostegno e altro
ancora…”.
Cena
a casa di amici. Giorgio è un giornalista – de sinistra, si direbbe: de
sinistra, però con juicio. Leandro Sorrentino è professore di ruolo dopo
diciotto anni di precariato, “quando cambi due scuole l’anno”. Adesso mette la
giacca e la cravatta sempre, per rispetto, “in qualche modo sono l’estrema
propaggine delle istituzioni”. E’ pure musicista. Gran suonatore di sax. Ha
suonato alla Biennale, “sto in una storia del jazz napoletano”. Dice: “Secondo
un report del ministero, quando ho cominciato, nel ’94, la soglia di attenzione
dei ragazzi era di circa venti minuti, ora al massimo di sei, sette minuti. Uno
su tre è perennemente online. Ho trovato presidi che si raccomandavano: non
dovete bocciare, ricordatevi che gli studenti sono i nostri clienti. Proprio
così dicevano: clienti”. Adesso insegna italiano e storia all’Istituto Tecnico
Commerciale “Leonardo Pisano”, vicino Bagni di Tivoli, sulla Tiburtina, in
parte sprofondato e finito nei container, racconta, in parte ancora sulla terraferma
– come una grande nave saccheggiata dai pirati e arenata sul bordo della
statale. Ma felice di esserci, dice: “A me non mi frega se, come dicono i
colleghi, siamo pagati poco. Questo è il nostro lavoro”. Dice pure: “Siamo a
volte gente un po’ triste, un po’ stanca”. Dice degli studenti: “Capaci di
mettersi a piangere come vitellini, se gli sequestri il cellulare”. Dice dei
genitori, che di solito si precipitano a dar man forte – al figliolo, quasi
sempre praticamente ignoto: “Arrivano da me incazzati: professo’, ha messo
quattro a mio figlio, ho speso pure 400 euro di libri! Ma se non li apre?
Difendono i figli a ogni costo, sempre. Ci sono di quelli che si mandano le
mail per aprire la discussione sui vari professori… Altri, per fortuna, capiscono
che tu sei un loro alleato, non un nemico, che con i figli passiamo più ore noi
che loro…”. A volte è così, la scuola, “dove nessuno chiede conto di niente,
dove tutti non vogliono rotture di coglioni”.
Discussione,
tra melanzane e parmigiano, del caso Mazzucco. Il prof. Sorrentino, al sax,
dice che è contrario “agli insegnanti che fanno leggere in classe giornali
sportivi o i libri di Moccia”. Dice che casomai, per parlare di erotismo in
letteratura, “Aminta” del Tasso va pure meglio. Il prof.: “E’ il nuovo civismo,
col rischio della deriva ideologica. Ci si sente parte della missione di chi
vuole costruire il cittadino nuovo. Per quello che riguarda la Mazzucco,
intanto un primo problema di qualità letteraria. Tu puoi parlare di Achille e
Patroclo e metterci questi temi, non ti pare?”. L’amico giornalista: “Una
follia che porta a costruire dei piccoli manifesti pret-à-porter che non fanno
i conti con la realtà. Che fai, mi fai leggere la Mazzucco? Invece di
rispondere con una discussione all’altezza della questione, mi proponi le tue
idee di mondo?”. Il prof.: “E’ vero quello che dici. Non devi vendere te
stesso, sedurre intellettualmente i ragazzi con le tue letture. Devono lavorare
loro, io metto un argomento al centro. Loro si facciano avanti con le proposte:
poi, può essere ‘Madame Bovary’ o un eccesso di pornografia su internet”.
L’amico giornalista: “Non c’entra niente l’omosessualità. Questa è solo
un’operazione ideologica per convincere ragazzini di diciotto anni che farsi i
pompini tra di loro sia normale – quando magari, sotto i banchi, se ne sono già
fatti chissà quanti… Un’operazione speculare a quella dei preti che dicono:
niente sesso prima del matrimonio. Insomma, per me pensare all’equazione
Muzzucco = liberazione è impossibile”. Il prof.: “Io non credo che la scuola
debba andare a vedere qual è la scelta erotica di ognuno, ma rendere più
elastica la capacità di accogliere gli altri”. L’amico giornalista: “Ecco: vi
porto il mio mondo, i miei pomeriggi televisivi con le Concite di turno…”. Dal forno
si tira fuori la torta. Calda.
“Animula
vagula blandula” – come i versi dell’imperatore Adriano, che sempre qualcuno fa
tradurre in classe, così un po’ vanno smarriti i prof., mentre fra i denti
tengono quel poco (nei casi felici anche quel molto, ma sono casi molto più
sporadici) dell’antica autorevolezza che resiste, come certi popoli che
rimpiangono e rivangano sempre vecchi splendori sepolti da secoli. Il
trascinare registri, carte, circolari, normative, decreti, graduatorie (a
esaurimento, pure: la vita dell’insegnante è inseguita da tali paranoici
abbinamenti lessicali) – il buon senso, il senso comune, il dover piacere, la
fatica, il peso degli anni o sennò il peso dell’incertezza, e spesso entrambi i
pesi. L’aula, raggiunta dopo tanto deambulare tra logica e illogico, finalmente
serrata, pur se approdo faticoso, dove una trentina di creature in fase di
eruzione ormonale sono persino più scoglionati di te, è come la Fortezza
Bastiani – arriveranno i tartari della quinta A? quelli del provveditorato? i
nuovi turni del preside? Ecco, che poi neanche più preside è, adesso Dirigente
Scolastico s’appella, e dunque DS, e galleggia l’esistenza del prof. che a
volte fa venire in mente il fuochista del Titanic di Francesco De Gregori,
“quando mi mettono a faticare / per pochi dollari nelle caldaie / sotto il
livello del mare / in questa nera nera nave / che mi dicono che non può
affondare”. Neanche la “nera nave” della scuola italica dicono può affondare –
e anzi, scommette adesso il trionfante Matteo Renzi sul ritorno
dell’autorevolezza persa dei prof., la “la recupereremo centimetro dopo
centimetro”, stiamo freschi: è risalita da Muraglia Cinese, chilometri bisogna
fare, migliaia di chilometri, altro che centimetri. Però, almeno provare a
cominciare. E invece, come dopo l’avvenuto affondamento, galleggiano i prof.
tra oggetti che accompagnano la deriva, una vita tra la cabala e la modulistica
e l’acronimo: il personale ATA, la SSIS, il MIUR, la A037, i test dove ti
chiedono: “Chi ha detto: ‘L’uomo schiavo è della società?’: a) Marx, b) Freud,
c) Marcuse, d) Aristotele”, i concorsi per il TFA, la A036, i CDC, il DSGA,
l’Open day (che non è night diurno), il master on line, “la nostra utenza”, la
104 (per chi ha un familiare in difficoltà: oggettivo diritto, spesso insensata
baraonda, di solito appellata “lacentoeeeeeequattro”, così a cantilena), il POF
– ecco, ecco: il fondamentale Piano per l’Offerta Formativa:
pof/pof/pof/pof/pof/, che a un ronfare di gatto somiglia, il dilagante
“cretinismo genitoriale” (“genitoriale” è altra parola che appesta ogni
documento scolastico) con cui ogni prof. prima o poi fa i conti, che porta le
pizzette calde ai figlioli che fanno le occupazioni, il Che bello di mamma
sua!, che difende lo smartphone della creatura con le unghie e i denti, che
trova sempre una giustificazione e mai un limite. Limite loro, magari. La
sensazione di trovarsi dentro un mondo come quello indecifrabile dell’Istituto
Benjamenta di Robert Walser, “qualche volta succede che tutta la mia vita qui
dentro mi appaia come un sogno incomprensibile”. E la cattiva (e ingiusta:
giurano, e vagando per licei e istituti tecnici pare così) fama di sfaticati
dalle poche ore di lavoro quotidiano e dai molti mesi di ferie estive. “Una
fama pessima, è vero. Poi, se li conosci, i professori non sono così brutti
come li dipingono”, ride (ruggisce) la prof. Ascoli, quella del “Kennedy” sul
Gianicolo.
Fenomale
testimonianza di un paio di anni fa di Christian Raimo, professore e scrittore,
sul lieto addottrinamento che l’insegnamento precede: “I corsi – biennali –
costavano circa 3.000 euro, era obbligatoria quanto inutile la presenza, erano
ridicoli al 90 per cento, irritanti nella loro vaghezza e mancanza di
programmazione, quasi nulli – spesso controproducenti – da un punto di vista
didattico. I rari casi li posso citare con un paio di nomi e un paio di
cognomi”. E rammenta di quando “un pomeriggio siamo stati obbligati in seicento
(tutti partecipanti delle SSIS delle classi umanistiche)” a seguire un convegno
su Didone, pensa tu, “l’idea era quella di far vedere come un argomento potesse
essere trattato in modo multidisciplinare. Di fronte a seicento persone a cui
di Didone quel giorno non fregava molto e che magari avevano dovuto pagare la
babysitter pur di essere presenti, sei professori facevano battutine tra loro e
snocciolavano i loro pareri su Didone in letteratura, arte, filosofia, con una
capacità retorica che avrebbe raccolto a stento una decina di persone tra gli
uditori solo se già molto interessati all’argomento”. Così andò: “Gli esami
finali per l’abilitazione sono stati puerili, siamo usciti praticamente tutti
con il massimo punteggio, 42. Tutti tranne io e un mio collega, praticamente,
41, perché la mia tutor mi disse che le dispiaceva ma non aveva capito come si
assegnavano i punteggi”. E dunque: “Quel che si sta venendo a creare è una
sorta di ‘bolla finanziaria dell’istruzione’…”. Bella intuizione.
Al
Liceo Classico “Pilo Albertelli” – e l’Albertelli era un prof. del liceo
stesso, storia e filosofia, allievo di Gentile, ammazzato dai nazisti – già
Regio Liceo, hanno studiato Enrico Fermi, “al termine di un brillante percorso
scolastico”, racconta credibilmente la targa sul muro, Massimo D’Antona,
trucidato dalle Br, Ettore Scola e Carlo Cassola e Carlo Salinari. Sta a fianco
di Santa Maria Maggiore, due passi appena da Termini. Pavimenti liberty,
vetrine con angoscianti animali impagliati, specchi concavi e binocoli
dell’Ottocento nell’apposito museo. In biblioteca si intravede pure un
sopravvissuto saggio di Ceausescu sulla pace nel mondo, acquistato chissà come
e perché. Mi dicono i suoi amici: vai a parlare col prof. Ricciardi, è uno dei
pochi che ha fatto innamorare i suoi studenti dei “Promessi sposi” – di solito
una croce di cui ci si libera a maturità avvenuta. Giovanni Ricciardi insegna
da venticinque anni. Greco e latino. E scrive. Gialli – col suo commissario
Ottavio Ponzetti, che “invece di seguire le nuove tecnologie cerca sempre di
seguire il suo fiuto”. E più o meno, racconta, così ha fatto per imbrigliare
l’attenzione spesso in contumacia dei ragazzi sulla sorte amorosa (e piuttosto
tediosa) di Renzo e Lucia. Alla fine, basta leggere. “Basta portare i testi
come sono, leggerli spiegandoli il meno possibile, con una sorta di lettura
rapsodica. Per i ‘Promessi sposi’ come per ‘Iliade’ e ‘Odissea’. Accostare gli
studenti al testo senza mediazione, un insegnamento di tipo artigianale.
Puntare in alto, non dimenticare di stimolare lo studente. Certo, se si
preferisce Baricco a Dostoevskij e Tolstoj…”. Sfuggire la peste della
“narratologica” (pure questo pare esistere), “c’è una superfetazione sulla
presunta ricerca dello studio della narrativa”. Ricciardi è uno di quei prof.
contenti del lavoro che fa – “non è la mia unica fonte di gratificazione”, ma
sa che pure qui, tra i corridoi e le aule di un liceo storico, non meno che nei
corridoi e le aule di un professionale di periferia, la sua è figura sminuita,
socialmente, diciamo così, evirata. “Il ruolo sacrale è andato perso, adesso
non è più garantito. Te lo devi conquistare sul campo, magari essere un po’
televisivi. Poi, ormai neanche si capisce più come si diventa insegnanti…”.
Dice che questa tendenza c’è da una ventina d’anni, da quando lui era ancora un
giovane insegnante. “Adesso, appena c’è un problema, l’insegnante viene messo
in discussione dai genitori. Se non piace, una loro delegazione va subito dal
preside: se non mandi via il professore ritiriamo i nostri figli… C’è sempre
più la tendenza della scuola pubblica ad assumere gli atteggiamenti della
scuola privata. E a non far mai scontrare i ragazzi con la vita, ad accettare i
fallimenti”.
Qualche
personale fatica, sempre lì dentro tra le aule dell’ “Albertelli”, tra il
grifone impagliato e la foca carnivora, ha da lamentare Andrea Monda, che insegna
religione e cura una sua rubrica su Avvenire. Ora, se ogni cosa con difficoltà
compete con lo smartphone, figurarsi religione. “Il pregiudizio ci precede”,
sorride Monda. Tra gli studenti e pure tra i prof., “non state a sentire il
collega, non ha serenità di giudizio, è stato scelto da un vescovo… Più o meno,
una spia del Vaticano: il mio voto non fa media, non incide. Io non ho un voto,
ho un giudizio”. Dice che c’è il sospetto e a volte il processo verso la
“strega cattolica”, pure quando si è trattato di andare a San Pietro dal Papa –
più o meno precisare, a qualche atterrito genitore molto laico, e quindi al
mondo genitoriale (ahi!) tutto, che andava il prof. in quanto prof. di
religione, non andava il prof. in quanto prof. del liceo. Monda scuote la
testa, e morde un panino al bar all’angolo: “Insegnare religione vuol dire
credere, e non puoi farlo se non credi. Ma è difficile farlo anche quando
credi. Ho fatto il corso di abilitazione in Vicariato, ci hanno spiegato: non
siete catechisti, ma insegnanti”. E di cosa parlate? “Domande filosofiche e
teologiche ne arrivano sempre meno. E complessivamente riflettono il contesto
in cui vivono. E allora, il gusto della provocazione: la ricchezza della
chiesa, le nozze gay… Lo sento, il pregiudizio su di me. Così spesso non
rispondo apposta, spesso loro vanno in bestia perché sono ormai abituati ad
avere sempre le risposte. E sempre si aspettano la risposta che già sanno. Per
poi dirmi: eh, certo, lei è amico del vescovo… Provo a rompere il gioco, a non
farmi chiudere nel pregiudizio”. Sono piccoli squali – quelli lì davanti,
fiutano il sangue che scorre dalla cattedra, sanno dove è il rischio e dove la
quiete. Umanamente opportunisti. O forse no, forse tutto è ancora più
complicato. “Noi, come docenti, siamo una generazione un po’ stanca, spompata,
spossata, un po’ burocrazia e un po’ ufficio del catasto. I genitori, poi… Loro
non sanno dire di no, ma se lo diciamo noi arrivano arrabbiati. E’
paradossale…”. E la Mazzucco? Il panino del prof. Monda è finito. L’acqua pure.
Caffè. “Non ci siamo mai arrivati, alla Mazzucco. Il gusto di essere sempre
all’avanguardia, mi sembra di vedere un basso livello di noi insegnanti. Tutti
i colleghi si riempiono la bocca: uguaglianza! Mai discriminazione! Tutti i
diritti! Libertà di insegnamento! Ma dovremmo preoccuparci un po’ meno della
norma e offrire più bellezza”.
Un’altra
scuola, all’altro capo di Roma. Borgata La Rustica. Istituto Tecnico per il
Turismo “Livia Bottardi” – qui fu girato il film “La scuola”, quello tratto dai
libri di Domenico Starnone, che qui ha insegnato: la sala professori come
ultima ridotta nell’incertezza che tutto circonda, la Fort Alamo che difende e
imprigiona, la diligenza serrata – minacciose “ombre rosse” tutto intorno. (In
uno dei libri di Starnone, “Fuori registro”, c’è il ritratto della
professoressa Marotta, dentro questo mondo di scuole superiori “freneticamente
immobile”. La prof. Marotta forse non esiste più. Eccola: “Amo molto gli
insegnanti come la collega Marotta. In vita loro hanno soltanto insegnato. Di
pomeriggio preparano le lezioni sugli stessi libri su cui studiavano da giovani
con ottimi risultati. A sera correggono compiti usando gli stessi segnali in
rosso e in blu che usava il loro insegnante del liceo. La mattina arrivano
sempre puntuali, fanno l’appello, interrogano con metodo partendo un giorno
dalla A, un giorno dalla Z, e poi ripetono ad alta voce agli studenti le cose
che impararono decenni prima all’università. Hanno poco da spartire con gli
insegnanti-architetti, gli insegnanti-ingegneri, gli insegnanti-pubblicisti,
gli insegnanti-sindacalisti, gli insegnanti-artisti, gli insegnanti-bottegai,
gli insegnanti coi grilli per la testa. Non c’è una virgola in comune tra loro
e quelli che arrivano a scuola con auto portentose, il telefono attaccato alla
cintola come una rivoltella. La collega Marotta ha visto poco o niente del
mondo di fuori, e intanto vede sempre più cose dentro il suo cassetto…”. Gli
altri, tutto del mondo vedono – credono di vedere – ma intanto “questi colleghi
nel loro cassetto non vedono niente di niente. A volte non vedono nemmeno i
loro allievi”).
Al
“Livia Bottardi” insegna Fernando Battista. Dal 2000 insegnante di sostegno.
“Sostegno a ragazzi ‘con abilità speciali’, ragazzi ‘diversamente abili’:
cambiano sempre i nomi, non la sostanza che sta dietro al cambiamento dei
nomi”. Madre, sorella, fratello – tutti insegnanti, in famiglia. Lui ha fatto
volontariato pure a Calcutta, ha la passione per la danza (meglio:
danzaterapia) che a volte ha incrociato, quando possibile, anche il suo lavoro
di insegnante. Passione nata a sedici anni, e pure quando faceva il militare
“nascondevo in caserma le cose da danza, e facevo lezione nelle ore di libera
uscita”. Ha avuto, quest’anno, anche un gruppo di rifugiati politici.
“Relazionarsi con il corpo, l’apertura verso i diversi, la tolleranza verso i
diversi”. E’ un punto di vista un po’ particolare, quello del prof. Battista.
“Non si può pensare a un insegnante che non sia anche pedagogo, un po’ come un
danzatore bravissimo nella tecnica che però non comunica nulla”. Ma al
Turistico di La Rustica, come allo Scientifico con elegante mattonellato del
centro storico, poco cambia. “Ruolo dell’insegnante svalutato”, dice il prof.
che danza. “I genitori per assicurarsi l’affetto dei figli li difendono sempre
a spada tratta, e questo fa perdere autorità a noi professori. Ci succede di
dover svolgere anche parte del ruolo della famiglia. Dovrebbero esserci delle
regole, ma a casa questi ragazzi fanno quello che gli pare, così a scuola
vogliono fare quello che gli pare”. Alzale spalle: “Però gli adolescenti fanno
il mestiere di adolescenti. Siamo noi adulti che dovremmo ricominciare a fare
quello di adulti”. Certo non è un prof. da bastone, il prof. Battista, non è il
professor Aristogitone di Mario Marenco – “quarant’anni di insegnamento nella
scuola, quarant’anni di duro lavoro fra questa quattro mura scolastiche!” –
pure se rammenta che “a volte serve il bastone”, si dialoga, certo, “se io do
attenzione, faccio vedere che mi accorgo di loro, loro di questa attenzione se
ne accorgono”, ma lo stesso “non devono avere la pretesa di aver ragione.
Bisogna ricordare sempre che di là ci sono degli adolescenti e di qua un
adulto. Non devi lasciare il comando a loro, sennò ti fregano”. E soprattutto,
“non cadere mai nelle provocazioni, non reagire dando in escandescenza, non
diventare inutilmente autoritario. L’unico risultato è che allora, appena
possibile, provano a fregarti”. Ed è un po’ quello che spiega, dall’altro capo
della città, la prof. Ascoli: “Non devi mai sbottare quando ti arrabbi, mai
andare fuori dai binari, metterti a urlare. Vuol dire che la classe l’hai
persa. Vuol dire che sono loro i più forti”.
E’
pure un esercizio di tauromachia, tenere per ore, nella minuscola arena
dell’aula venticinque o trenta adolescenti che a tutto pensano tranne (spesso)
a quello che tu dici dalla cattedra. Sandra Suraci insegna matematica allo
Scientifico “Nomentano”. E’ di ruolo dall’84, fa un trentennnio esatto
quest’anno. Si sistema sul divano. Il gatto nero e lucido di casa mostra uno
scarso interesse, al primo accenno di conversazione vira decisamente verso
croccantini e cesta. Disinteresse felino. Prima dello Scientifico, per anni ha
insegnato all’Istituto Professionale del Tufello, “dove gli studenti ti mandano
a quel paese, e ti ci mandano pure i genitori. Allo Scientifico è diverso: ti
vorrebbero mandare a quel paese, ma non lo fanno. I genitori, invece, ti dicono
cosa devi fare. Trasmettono ai loro figli il concetto che, siccome ti pago lo
stipendio, possono dirti loro cosa fare”. Questa faccenda dei genitori sempre
torna a galla – in ogni scuola, pregevole liceo o più sgarrupato professionale,
prof. giovane o prof. vecchio, di destra o di sinistra, entusiasta o
scoglionato: i bamboccioni dopo la cameretta hanno invaso pure la camera
matrimoniale. “Una volta si dava sempre ragione ai professori, adesso sempre ai
figli. Persino quando i ragazzi dicono: mamma, ha ragione la prof., non ho
studiato… Non hanno capito che stiamo dalla stessa parte. Certo, per fortuna ci
sono pure quelli che vogliono che il ragazzo studi bene, ma molti proprio non
si rendono conto che il fronte è comune. L’autorevolezza con i ragazzi te la
puoi conquistare, ma ai genitori non gliene frega niente. Alcuni ti vedono più
o meno come la parrucchiera, come l’estetista: io ti pago, tu mi dai un
servizio”. E’ pure uno slalom, quello quotidiano del prof., “essere assertivi
senza essere aggressivi” – il filo di lama, la permalosità di ognuno messa alla
prova (il prof., l’allievo, il genitore). E perciò, si possono pagare raffiche
di ripetizioni, ma per carità, l’estate no: il volo è prenotato, l’albergo
pure, non s’intrometta, professore, con le nostre vacanze! Dice la prof. Suraci
che ha deciso di diventare insegnante perché alle medie le capitò la fortuna di
una prof. completamente pazza, “voglio diventare come lei!”. Pentita mai,
magari a volte si sente la stanchezza, fisica anche, “quelli della mia età
dovrebbero metterli da un’altra parte, magari in segreteria”, perché appunto di
quotidiana tauromachia si tratta, “provo a insegnare matematica ma anche a far
crescere i ragazzi”, neanche un attimo ti puoi distrarre – e il mare che ti
rumoreggia davanti è sempre di ormoni in crescita, mentre sulla riva della
cattedra c’è un maggio-adagio-adagio che s’insinua. “Stare con i ragazzi
stanca. Ci sono quelli tra di noi che, negli ultimi anni di insegnamento,
entrano in classe aspettando solo che l’ora finisca… Poi, mediamente i
professori maschi hanno un altro lavoro: chi fa l’ingegnere, chi l’architetto,
chi ha dieci condomini da mandare avanti, per noi donne è diverso…”. Qualche
settimana fa, la prof. Suraci è andata a teatro, a vedere “La scuola” – dal
libro di Starnone, poi film di Lucchetti, poi di nuovo testo teatrale: la
stessa filiera – con Silvio Orlando: quell’aula professori come una cittadella
assediata, fare lo scrutinio ed essere scrutinati, prof. che a loro volta
assediano se stessi. Ed ecco, calato il sipario: “Gli spettatori non insegnanti
uscivano disgustati, per noi è stata una bella sofferenza: ti ci riconosci, ti
fa ridere. Certo che quelli che non sono insegnanti non ci si riconoscono,
sennò non direbbero la solita cazzata: c’avete tre mesi di ferie…”.
La
prof. Maria Grazia Ascoli, con un passato anche all’ufficio stampa della
Sellerio, ha almeno l’aggancio salvifico della filosofia. E a volte il “Simposio”
di Platone come la “legge morale” di Kant come la metafisica sembrano accendere
piccoli fari di attenzione. Pure Nietzsche va forte. “A diciotto anni sono
sempre fantastici, comunque. Possono essere insopportabili, ma ti sorprendono
sempre. Molto meglio degli adulti. E i prof. sempre più vecchi, più frustrati,
più stanchi, più avviliti…”. Ma lo stesso, dice la prof. Ascoli, né con gli
studenti ci si deve mostrare deboli, né lei sui suoi colleghi infierisce. “I
lavativi tra di noi sono al massimo il cinque per cento. E poi, se non hai un
minimo di passione, guarda che è tremendo entrare in una classe. E non è vero
che lavoriamo tre ore al giorno, che abbiamo tutti i pomeriggi liberi, che
abbiamo tre mesi di vacanza. La maggior parte di noi lavora moltissimo. E
magari molti sono avviliti per questo: perché non hai più prestigio sociale,
succede spesso quando dici a qualcuno: io insegno, di essere guardata con
commiserazione… I genitori stanno col fiato sul collo, ma in fondo, quando li
incontro, non mi dispiacciono affatto… Poi, ci sono pure di quelli che hanno
voluto comunque che il loro figlio facesse il liceo, perché c’è anche il
prestigio, mentre lui avrebbe voluto fare il cuoco o lavorare la terra. Una
ragazza voleva fare l’estetista, la madre le ha imposto il liceo: mai
l’estetista! E così abbiamo avuto un’alunna infelice invece di un’estetista
felice… E comunque fuori li aspetta il nulla, non capiscono che aggancio c’è
con quello che gli diciamo… Sono molto più fragili, di quelli che ricordo anni
fa. E la nostra condiscendenza di comodo su tutto non li aiuta…”.
Sandro
Onofri era un insegnante. E uno scrittore. Insegnava a Pomezia, litorale
romano. E’ morto a soli 44 anni, nel 1999 – brutta malattia, poi, come si dice.
Brutta e ingiusta e fulminante. Nel suo computer trovarono un diario. Parlava
della scuola e del suo lavoro di insegnante. Autoritratto – forse pure perfetto
ritratto di chissà quanti altri. “Sono disgustato da tutto questo, dagli alunni
che pensano a quanto prendono i compagni invece di mettersi con la testa a
studiare, dalla mia rassegnazione a fare il minimo indispensabile e niente di
più per non perdersi per strada la maggior parte degli studenti,
dall’impossibilità sempre più evidente, tutto sommato, di portare dentro scuola
la mia vita. E’ ogni giorno più consistente il bagaglio che devo lasciare ogni
mattina fuori dal cancello: nessuno dei miei poeti preferiti, nessuno dei miei
film, nessuno dei miei musicisti preferiti (…) Entro e porto in classe sempre
più la mia maschera, non me stesso. Insegno non il mio sapere, con i suoi
limiti ma anche con le sue urgenze, bensì un sapere impersonale, agnostico,
ragionevole. Sono non un pedagogo né uno scrittore che insegna ma un
professionista dell’educazione, che fa onestamente ma non in maniera brillante
– perché non può, non gli interessa – il suo mestiere. Mi guadagno il favore
degli studenti non con la simpatia né con la generosità dei giudizi (a questo
punto non sono ancora arrivato) ma con una scandalosa volgarizzazione dei
contenuti” (Sandro Onofri, “Registro di classe”, Einaudi). Paola Mastrocola è
insegnante – lettere in un liceo scientifico a Torino. E scrittrice. Dice
(scrive) che un giorno, dopo qualche anno di assenza, è tornata a scuola “e il
mio mestiere non c’era più”. “Peccato, perché era un bel mestiere. Non so
spiegare con esattezza cosa sia avvenuto; mi dicono che la scuola era vecchia e
quindi andava rinnovata, e che per questo si è finalmente avviato un lungo
processo di riforme. A me è sembrato un lento e inesorabile movimento verso il
basso. Una specie di valanga, una frana, una ‘caduta massi’ che ha prodotto in
pochi anni, ai piedi della montagna-scuola, un’enorme e infinita pietraia: la
‘lapedicina’, direbbe Michelangelo. Non so perché adesso mi viene in mente la
parola ‘lapedicina’, forse perché è una parola bellissima, di quelle che ti
restano appiccicate in testa. Viene da lapis, che vuol dire pietra” (Paola
Mastrocola, “La scuola raccontata al mio cane”, Guanda). Traboccano, le aule,
di prof. pure scrittori – ché la professione certo aiuta, e magari la
contingenza impone qualche forma minima di distrazione, di gratificazione. Così
– per non fissare solo l’orizzonte da adunata condominiale, e spesso con lo
stesso identico tedio, del Consiglio d’Istituto o di quello di Classe: il
romanzo magari di discreto successo o le poesie in dialetto calabrese.
Quasi
mai autoconsolatori, i professori che scrivono. Magari qualcuno di vanità pecca
– l’arcaico selfie del dettagliato resoconto che segnala il tuo quotidiano
impegno sul fronte, contrapposto al più sbrigativo selfie fotografico degli
alunni che stringono d’assedio la tua giornata – ma è persino più crudele delle
cronache giornalistiche ciò che registrano sulla loro professione.
Alessandro
D’Avenia, sul frequentatissimo blog, foto con ammirevoli riccioli biondi, così
scrive – dopo il caso Mazzucco al “Giulio Cesare”, pur se “non conosco il libro
in questione”: “Denunciateci, cari genitori, ma non per quello che facciamo
leggere ai vostri figli, ma per quello che non facciamo leggere loro. Noi
insegnanti, frequentatori delle belle lettere a volte rinunciamo alla bellezza.
Per questo dovete mandarci in galera. Denunciateci perché non facciamo leggere
che una vivisezione de ‘I promessi sposi’ (chi non odia quel romanzo dopo la scuola?).
Denunciateci perché non facciamo leggere Dante, perché è difficile, perché
tanto non lo capiscono, perché parla troppo di Dio. Denunciateci perché non
facciamo leggere i classici per intero ma li facciamo a brani, come in
macelleria. Denunciateci perché facciamo credere ai ragazzi che le poesie siano
inutili coriandoli…” – insomma, se volete denunciatelo. Sul filo del paradosso
procede invece Marco Lodoli, altro prof. e altro scrittore: “Sono i professori
la piaga della scuola, rubastipendi senza passione, anacronistici difensori di
antichi valori privi di senso. Tutto funzionerebbe a meraviglia, se queste
cariatidi superbe fossero più preparate. Il mondo va avanti e loro sempre
indietro, gessetto e autobus, Aristotele e Leopardi, giacchetta striminzita e
bella ciao…”. E dentro il quadretto neorealista, invece, perigliosamente e
coraggiosamente lottano, assicura Lodoli, “con una lancia di legno in mano
devono affrontare draghi fiammeggianti”. Perché hanno, i temerari, spiegava su
Repubblica oltre dieci anni fa sempre Lodoli, un Grande Nemico davanti – non
gli studenti, ma il demone che li infiamma: la Facilità. “La Facilità è la dea
che divora i nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita. La
Facilità non va certo confusa con la Semplicità, come ben sintetizzava il
grande scultore Brancusi, ‘è una complessità risolta’…”.
Erano
un’autorità, i prof., sono diventati un enigma. Magari pure a se stessi.
Inventarsi/reinventarsi/sopravvivere. Provare ogni giorno a sfondare un muro:
chi con la Mazzucco, chi con Platone. Le mani che una volta intimorivano,
adesso sono vuote. C’è molto di più nello smartphone che in tutto quello che in
un anno intero quella poveretta/quel poveretto dietro la cattedra possono far
conoscere/apprezzare. E tutto meno interessante – pare. Pure meno interessante
di quello che c’è a casa, comunque. Le mani sono vuote – la lotta è a mani
nude. “Guadagnavo di più quando facevo il cameriere o il Babbo Natale nei
centri commerciali”, raccontano i prof. Che sono, scrivono gli analisti, circa
770 mila. Qualche anno fa, secondo la Fondazione Agnelli, erano 840 mila – e
per dire del groviglio e della matassa, la stessa Fondazione Agnelli, dopo mesi
di studio alzava bandiera bianca: “Il numero esatto non lo conosce nessuno”.
Far leggere un libro è difficile – lo scarico da Wikipedia quasi automatico.
“Se volessimo veramente che i giovani leggessero – ha scritto sul Corriere
della Sera Paola Mastrocola – faremmo un’altra scuola, non questa, che li fa
tranquillamente uscire a quindici anni incapaci di parlare, scrivere, leggere
ad alta voce e capire il senso”. C’è la sensazione, racconta un prof., di
custodire solo un ampio infinito parcheggio. Quasi soccorrere, prima che
insegnare. Le parole, i numeri, la geometria, la storia, le lingue – però c’è
innanzi tutto il versante assistenziale (di “scuola assistenziale” parlava
l’articolo sul Corriere): il disabile, l’immigrato, la dispersione scolastica,
“i bisogni educativi speciali”, e allora sei un po’ insegnante e un po’ vice
qualcos’altro, un po’ psicologo e un po’ amico/a, un po’ complice e un po’
carnefice, un po’ educare e un po’ spiegare: e nelle mani disarmate finisce
anche la Mazzucco e l’adolescenziale pompino gay, che ha reso isterici gli
ometti selvatici protestatari. Media, media, sempre la media di tutto – il
percorso per l’esatta finale mediocrità su tutto. E allora inventare, inventare
sempre, per tenersi a galla, per non scomparire tra quei flutti adolescenziali.
Il prof. Sorrentino, quando insegnava a Napoli, in certi quartieri, diciamo
così, complicati, si ritrovava l’alunno bullo, il teppista in evoluzione che
picchiava i compagni, che arroventava con l’accendino la chiave di casa e poi
la spiaccicava sul collo del vicino di banco. Come lo tieni fermo, questo, con
la monaca di Monza? E perciò: “C., fammi trenta flessioni!”. Al criminale in
erba s’illuminava lo sguardo, scattava in piedi sull’attenti: “Subito,
professo’!”. Uno, due, tre… ventisei… trenta!”, ed eccolo domato per quella
mattina. E il suo primo sguardo grato, tra l’affanno e il sudore, così saliva
verso l’intruso oltre la cattedra. Eraldo Affinati, altro prof. scrittore,
insegna lingua italiana a studenti stranieri. Ed ecco cosa ha scoperto – la
differenza tra questi alunni e gli altri: “Molti di questi ragazzi provengono
da civiltà antiche e, anche se talvolta sono analfabeti, hanno nel sangue una
tradizione che noi stiamo dimenticando. Certi afghani, di fronte a un testo,
sanno concentrarsi in un modo che i loro coetanei europei non conoscono.
Vedendo la pazienza certosina con cui studiano l’alfabeto, mi sembra quasi di
riconoscere il vecchio studiolo medievale. E mi chiedo se è stato giusto per
noi esserci lasciati alle spalle quella serietà applicativa”. E Silvia
Avallone, la scrittrice di “Acciaio”, ha annotato sul Corriere della Sera: “Ho
visto troppi aspiranti professori con i volti segnati dalla disillusione
mollare tutto all’ultimo momento perché ‘così, a questo prezzo, non ne vale la
pena’. Non sei nessuno. Non hai più nemmeno un centesimo di quell’autorevolezza
che avevano i tuoi insegnanti dieci, vent’anni fa. Sei in graduatoria, sei un
supplente. Uno che supplisce a un vuoto pazzesco”.
E
appunto “Acciaio” di Silvia Avallone, per esempio, il prof. Piergiorgio Mori –
vicepreside all’Istituto Professionale “Giorgio Ambrosoli”, Centocelle, avrebbe
voluto dare da leggere ai suoi ragazzi. “Mi sarebbe piaciuto”. Ma ha preferito
non farlo. “Anche lì, ci sono pagine con scene, diciamo difficili, di rapporto
tra le due protagoniste. Rischiavo magari di mettermi nei guai, senza per
questo voler passare da bacchettone. O di offendere la sensibilità di qualcuno.
Il libro della Mazzucco? Io non lo avrei scelto. Magari una o due persone
potrebbero sollevare scandalo… Farlo leggere a tutti, non so…”. Dice il prof.
Mori che ci vuole pazienza – “vedere una lampadina che si accende, in alcuni si
semina, in altri no”. Riecco sempre il filo, il bordo, la lama del rasoio: il
mutare, piuttosto che lo scandalizzare, allora. Racconta: “Qualche anno fa ho
dato a un ragazzo un lavoro sui romanzi di Pasolini. Dopo un po’ mi dice:
‘Professore, non la posso fare quella ricerca su Pasolini, perché ho letto su
Wikipedia che era un pedofilo’. ‘Prova a studiarlo, non lo era’, dico io. Dopo
qualche giorno mi arriva un suo biglietto: ‘Anche se Pasolini faceva cose
odiose, era un grande poeta”. E tre anni dopo, insieme alla sua ragazza, mi ha
invitato alla mostra su Pasolini al Palazzo delle Esposizioni…”. E perciò, più
che impazienza il prof. Mori la pazienza invoca, “i risultati si vedono a lungo
termine, quando sono cresciuti, quando sono diventati adulti, magari tu non li
vedrai mai. Come su un astronave, immagini il paese che verrà”. Lavorava alla
Telecom, il prof. Mori. Il famoso concorsone del Duemila – che è come epica,
nel racconto di molti insegnanti, sorta di saga di Gilgamesh da tramandare nei
decenni dei patimenti successivi – fa quasi per caso, spinto dagli amici.
Vince. Passa dietro la cattedra. “Mai pentito. Il lavoro più bello del mondo.
Tranne un giorno, quando ricevi lo stipendio: deprimente”. E’ vero, dice, si
pensa più agli insegnanti che ai ragazzi, nell’organizzazione sindacale che la
vita (e la lotta) dei prof. sovrintende, “una specie di ammortizzatore sociale,
tanti lavorano così”. Dice pure: “L’altra tragedia è la burocrazia, il
microlinguaggio settario, il festival della 104. Viviamo ormai nel terrore
delle querele, in classe e soprattutto durante le gite. Lo dicessero, se
vogliono consegnare la scuola in mano agli avvocati… Mica sono cambiati tanto,
i ragazzi. E’ cambiato il mondo intorno a loro. E la scuola è vista come un
grande parcheggio. Jean Vilar, che fu praticamente l’ideatore del Festival di
Avignone, diceva: ‘Dateci una buona società e vi daremo un buon teatro’. Ecco,
possiamo dire: dateci una buona società e vi daremo una buona scuola”.
Che
figurarsi, poi, lo studiolo medievale da Tommaso d’Aquino – mentre Facebook
reclama, WhatsApp pretende, lo smartphone tutto sovrintende… Appunto Lodoli,
nel suo “Il rosso e il blu” (i colori dell’antica autorità andata in disarmo,
che maneggiava la prof. Marotta di Starnone nei suoi tediosi, eroici
pomeriggi), fa questo illuminante racconto: “Un giorno ho detto in classe:
‘Scrivete sul quaderno questi titoli di romanzi, per chi quest’estate avesse
voglia di leggere qualcosa di interessante’, e quasi tutti i miei alunni hanno
preso il telefonino. “Dico, scrivete questi titoli”, e una simpatica ragazza di
Tor Bella Monaca ha replicato seria seria: “Li sto scrivendo sul cellulare così
stanno al sicuro”. Consiglia questo, la prof. Ascoli: “Macché letture d’estate.
Al massimo, dico loro se vogliono leggere qualcosa di classico: Platone, le
tragedie greche… Ecco, le tragedie greche: tutto il resto che viene è già stato
detto…”. Al prof./sassofonista Sorrentino (per dire di come e quanto salvare il
salvabile sia difficile, e della vastità di quello che la scuola assedia),
capitò che, quando stava a Napoli: a) non aveva il televisore; b) voleva
preparare una lezione su Costantino, sull’ultima parte dell’impero romano.
“Andai alla Feltrinelli di Napoli. ‘Scusi, vorrei una biografia di Costantino’.
‘Ecco’, e mi diedero un libro con la foto di un tizio in copertina. ‘E chi è
questo?’. ‘Costantino’. ‘Mah, io veramente cercavo l’imperatore’. ‘Ah, scusi…
Tutti chiedono questo Costantino, appena arrivato’. ‘E l’imperatore
Costantino?’. ‘Ah, lo trova al piano di sotto’. Costantino Vitagliano, quello
di ‘Uomini e donne’ stava sopra, Costantino l’imperatore stava nel
sottoscala…”. Perciò, non appena il prof. Sorrentino in aula apre bocca e cita
Costantino, quale dei due – quello in piena vetrina o quello nel sottoscala –
avrà mai raggiunto l’immaginazione dei ragazzi (di allora, però, ché già adesso
il Costantino televisivo trionfante pare antico come quello imperiale)? Meglio
il jazz.
Curioso
paradosso: tanto scarsa la considerazione sociale, tanto poca la residua
autorevolezza, tanto carente la soddisfazione personale, eppure il prof. è
personaggio mediatico di primo piano. Almeno in televisione. Tra le fiction di
maggior successo, ecco appunto “Provaci ancora prof” e “Fuoriclasse”. La prima
serie con Veronica Pivetti (prof. Camilla Baudino, ispirata al personaggio di
Margherita Oggero, altra prof./scrittrice, versante thriller), la seconda con
Luciana Littizzetto (prof. Isa Passamaglia, ispirata ai racconti di Domenico
Starnone, versante cuore di mamma). Il genere è sempre quello: prof. bruttina
ma tanto sensibile, di mezza età ma di vivace intelligenza, materna eppure
ferma. La prof. ideale, insomma. La prof. Baudino, di suo, è più portata agli
intrighi gialli – tutto un affollarsi di cadaveri, di morti ammazzati, una vita
costellata più di assassini che di rime petrarchesche; la prof. Passamaglia,
sempre di suo, è più portata al sollecito intervento verso i pargoli in
dotazione – spinelli, scompensi ormonali, giovanili cazzate. Intorno a loro, la
vispa scuola italica: presidi matti, colleghe femmine in depressione, colleghi
maschi piacenti ma purtroppo gay, mariti sospesi tra comprensione e
stronzaggine. Qualche amorazzo qua e là – ma rispetto alle impennate della
Mazzucco, quasi edificanti carmelitane. Le attrici protagoniste sono brave, le
serie non sono male: se non s’innalza la qualità della scuola almeno s’impenna
quello dello share. Piace il prof. – virtuale, però, piace. Come Costantino.
Massimo
Recalcati è psicoanalista. Lacaniano. Scrive sui meglio giornali (Repubblica).
Partecipa ai meglio festival (della Mente). Appare nelle meglio trasmissioni –
sotto la libreria pensosa di Concita De Gregorio nel “Pane quotidiano” (a
proposito: ma com’è prof. la Concita! Anzi preside, perlomeno, di quelle da
temere!), nel non meno pensoso studio di Fabio Fazio. Capello sapientemente
scomposto, giacca blu professorale, occhiali adeguati, barba di un paio di
giorni – che uno lo vede e dice: lo psicanalista! Scrive cose appropriate, il
prof. Recalcati, per esempio sull’illusione (così la definisce)
dell’insegnante-psicologo, dopo averne sentito un degno rappresentante di un
liceo vantarsi del fatto di scansare da parte i programmi ministeriali “per
dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi
raccogliendo le loro confidenze più personali”. Matita rossa – saggia matita
rossa – da parte dello psicanalista (a tali faccende espressamente addetto) su
Repubblica: “Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel
per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com’è noto, i programmi
didattici si disinteressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in
questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni
insegnante – lascia il posto a una supplenza diretta del mestiere del genitore.
Mentre l’informatizzazione cognitiva della scuola esalta un sapere senza vita,
questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare una vita senza sapere”.
In una nuova transumanza da Fazio, ha poi difeso i prof. che hanno proposto la
Mazzucco in classe (quella pagina della Mazzucco: pure Fazio, diligentemente,
ne ha evitato la lettura al pubblico addottorato di Rai Tre), “hanno fatto il
loro lavoro, portato gli allievi verso la lettura, verso la letteratura”, ma
soprattutto ha dato precisa, e sorprendente, indicazione su come indirizzare il
lavoro in classe: “Trasformare gli oggetti del sapere, tutti gli oggetti del
sapere, da una poesia a un teorema di matematica, in corpi erotici che
catturano il desiderio degli allievi. Questo è il lavoro degli insegnanti”.
Pure questo?
Si capisce che il prof.
un po’ si perda – dover trovare una punta di erotismo non tanto in Carducci,
magari col soccorso dell’aspro odor dei vini si fa, ma pure nella successione
di Fibonacci o nel triangolo isoscele, ecco, come si procede? L’apposita
circolare c’è? Che dice? Però almeno un prof., alla fine, magari quarant’anni
dopo, lo ricorderemo. Perché era molto bravo. O perché era molto stronzo. Perché
eravamo molto giovani – e davanti al prof. (malinconico) sempre tutti hanno
(abbiamo) diciotto anni. Tutti ricordano. Magari male. Come quel ministro
democristiano, al quale un giorno, si favoleggia, in un ristorante torinese,
presentarono Norberto Bobbio. “Ministro, il professor Bobbio…”. E quello,
allungando la mano: “Molto piacere, professore. E, mi dica, in quale liceo
insegna?”. Bobbio precisò. Seccato. Peccato. Per la gloria del liceo – e dei suoi prof.