Scelta delle superiori, quei pregiudizi che fanno il male dei ragazzi.
Com’è possibile che il futuro lavoro conti così poco tra i criteri di scelta
della scuola dopo la terza media?
IlSussidiario - 11.02.2019 - Roberto Pellegatta
I giovani italiani ed i loro genitori hanno
interesse a prepararsi
a un lavoro o a una professione? “Lavoro” e “professione”, si badi bene,
non “posto di lavoro” o “occupazione”. Guardando il costante andamento delle
iscrizioni alle scuole superiori viene qualche dubbio. Così come leggendo le
statistiche di AlmaDiploma, dove il futuro lavoro è al quinto posto tra i
criteri di scelta della scuola dopo la terza media.
I dubbi vengono anche ascoltando le polemiche
che hanno occupato le piazze e i media contro l’alternanza scuola-lavoro, non
solo da parte dei cosiddetti “movimenti degli studenti”, ma anche di movimenti
sindacali e opinionisti.
Poi c’è il record di Neet, un paese con il
maggior numero di giovani che non studiano, non hanno un lavoro e nemmeno lo
cercano (19,9% contro la media Ue dell’11,5%).
Infine ci sono i dati sulla disoccupazione
giovanile, in Italia tra le più alte d’Europa, da leggere con un altro dato
paradossale: aziende che vogliono assumere, ma non trovano le professionalità
che cercano. Un piccolo dato dalla provincia di Reggio Emilia: nella
meccatronica, richiesta di personale specializzato nel 2018 pari a 1.300 unità,
diplomati solo 151; nell’elettronica e informatica 500 contro 189 diplomati;
nella moda 160 richieste e 23 persone.
Ma allora la scelta dopo la terza media deve
o no tener conto anche di queste situazioni?
Restiamo sui dati, limitandoci ai diplomati.
L’inserimento nel mondo del lavoro dei diplomati va dall’11% di chi esce dal
liceo classico (si va all’università), al 44,5% per i professionali (i tecnici
si attestano in una posizione intermedia, al 35,4 per cento) (dati Miur).
Che la formazione sia finalizzata alla
persona, alle sue competenze generali prima che a quelle professionali
richieste dal mondo del lavoro è cosa sacrosanta. Ma escludere in modo palese
l’attenzione al futuro inserimento nella vita attiva è segno di poco realismo
e, alla lunga, di danno alla persona, perché il lavoro (tanto disprezzato dalla
nostra cultura gentiliano-marxista) è invece dimensione fondamentale per la
realizzazione della persona.
Quindi il rapporto tra indirizzo scelto e
occupazione giovanile dovrebbe prendere più attenzione.
E invece le scelte scolastiche delle
iscrizioni alle superiori e l’opinione corrente nelle scuole medie, nelle
famiglie, nella cultura dei media parlano diversamente.
Nella mentalità comune la
scuola superiore “vera” è il liceo, i
tecnici sono di serie B, i professionali di serie C, la formazione
professionale di serie ultima, rifugio per gli “incapaci”. E’ impressionante
ogni anno toccare con mano ovunque la forza di questo pregiudizio.
Quest’anno alle prime superiori delle 2.698
scuole statali e delle 1.565 paritarie sono ancora leggermente aumentate le
iscrizioni al liceo (+0,1%). C’è la minuscola novità del +0,3% agli istituti
tecnici, ma con il calo negli istituti professionali (-0,4%), dove neppure la
loro “miniriforma” ha giovato ad
una loro maggiore attrattiva. Limitatissima rimane la piccola quota di
iscrizioni alla formazione professionale regionale, tra l’altro limitata al
Nord e bloccata da anni nei posti disponibili. In Sicilia addirittura le
iscrizioni sono chiuse da due anni.
Perché questa continua liceizzazione nelle
scelte delle famiglie, ovviamente specie nelle regioni del Centro-Sud? Perché
restano inascoltati i (pur limitati) appelli del mondo delle imprese per
centinaia di migliaia di posti di lavoro per tecnici che rischiano di restare
scoperti o per la forte carenza di ingegneri?
I dati del Miur mostrano che solo il Veneto
va in controtendenza, con la percentuale più bassa di scelta di licei e più
alta di scelta per gli istituti tecnici.
Si potrebbe sbagliare, ma la prima
impressione è che queste scelte nascondano un rinvio della scelta. Chi sceglie
il liceo rinvia la scelta professionale all’università. Negli istituti tecnici
la scelta è rinviata di fatto alla classe terza. Mentre l’opinione corrente è
che la scelta dell’istruzione e formazione professionale sia troppo
precocemente vincolante (lo ribadiva la Cgil ancora ieri sul suo sito).
L’esperienza personale di direzione di scuole
superiori statali mi ha mostrato invece che le difficoltà di una scelta
sbagliata si vedono benissimo già in prima. E proprio se affrontata in prima,
la difficoltà ha maggiori speranze di diventare occasione di ripresa.
Ho imparato a ritrovare la strada con ragazzi
e genitori, trasformando i fallimenti incontrati nell’opportunità di una nuova
scelta. Quando la comunicazione reciproca funzionava (purtroppo non sempre era
così…), ci trovavamo ad assistere nel nuovo indirizzo frequentato – talvolta
addirittura nel giro di pochi mesi – ad una ripresa di fiducia, al respiro
nuovo di chi ritrovava l’interesse perduto.
Per
questa ragione occorre guardare alla classe prima della scuola superiore,
soprattutto ai primi mesi, come una grande occasione di verifica, lungo la quale anche l’impatto con il fallimento, se affrontato
subito e con coraggio, può trasformarsi nell’occasione di una ripresa, come una
palla elastica che scontratasi col duro pavimento rimbalza e ritorna in orbita.
Ho letto molte critiche al sistema tedesco
dove vige una scelta scolastica precoce. Ma nessuno può seriamente ritrovare là
neppure uno di quei dati negativi sulla condizione giovanile ricordati
all’inizio. L’illusione di rinviare una scelta (così come il mito della scelta
giusta e infallibile) non fa che rinviare un percorso di maturità, rinunciando
a misurarsi col reale ed a dare senso a quanto ci circonda, alla propria realtà
personale ed alla fatica del lavoro.
Viene il dubbio (e l’invadenza dei genitori
nelle scuole e nelle università sembra confermarlo) che si tratti in realtà di
paure degli adulti, di loro insicurezze e di una visione del lavoro che ha ben
poco da proporre in positivo, come possibilità di realizzazione di sé, per
viverlo invece solo come fonte di denaro, come elemento di successo o come
qualcosa da sopportare tra una vacanza e un viaggio.
Assieme a un cambio culturale occorre con
urgenza “investire massicciamente e in maniera nuova sull’educazione e la
formazione” (Magatti) perché non c’è nulla di peggio che “sacrificare
l’intelligenza”. E questo investimento deve iniziare da un serio rinnovamento
dell’istruzione tecnico-professionale.