Fatti e misfatti di una riforma necessaria (ma da rifare)
-Federico Ferraù
Secondo Roberto Bin, ordinario di diritto
costituzionale nell’Università di Ferrara e principale ispiratore del sito lacostituzione.info, l’autonomia
differenziata ben fatta sarebbe un bene per il paese e quello che c’è scritto
in Costituzione basterebbe a realizzarla.
Professore, la “secessione dei ricchi”
spaccherà l’Italia?
Non vedo perché si debbano alimentare questi timori del tutto infondati e non
si voglia considerare che già oggi l’Italia è spaccata, e non per la differente
autonomia delle sue Regioni.
No. Quello che c’è scritto in Costituzione
basta a guidare il processo. Va fatta una premessa: l’autonomia è per forza di
cose legate alla differenziazione. Non dovremmo stupirci allora delle 5 Regioni
speciali o del processo delineato dall’art. 116, ma che le 15 Regioni ordinarie
siano tutte strette in un unico regime giuridico pur essendo profondamente diverse.
Forse non è superfluo chiederle: la
differenziazione è necessaria?
Sì, se si vuole che le diverse realtà
funzionino meglio di adesso. La Regione con al proprio interno una città come
Milano è diversa da quella che ha dentro Potenza o Ancona. Se uno non ha capito
questo, non ha capito nulla del significato dell’autonomia.
A chi lo dice?
Anche ai governatori che si sono associati
alla richiesta di autonomia delle Regioni del Nord chiedendo le medesime
competenze, o facendo semplicemente il copincolla dei preliminari di intesa. Ma
anche a quelli delle Regioni del Nord che non sempre hanno posto al centro
delle loro richieste le particolarità della propria regione. Si può trascurare
che cosa rappresenta Milano per la Regione Lombardia?
Sì alle differenze, dunque. E il principio
di uguaglianza?
Situazioni uguali vanno trattate in modo
uguale, ma situazioni diverse vanno trattate in modo diverso. Se la Lombardia
non è il Molise entrambe devono avere regimi diversi. Dunque un percorso di
differenziazione dev’essere salutato come opportuno e necessario. E’ una delle
poche cose intelligenti del nuovo Titolo V.
Ricapitoliamo. Per l’intesa Stato-Regione
basta l’articolo 116.
Sì. Non è un’invenzione di Zaia, Maroni e
Bonaccini. Basta che la Regione, con il consenso degli enti locali coinvolti,
raggiunga l’intesa con il Governo. Poi tocca al Parlamento, che ha la facoltà
di approvare l’intesa con una legge votata a maggioranza assoluta.
Non c’è, come dicono gli stessi
costituzionalisti firmatari, un “rischio di marginalizzazione del ruolo del
Parlamento, luogo di tutela degli interessi nazionali”?
No, anche questa è una sciocchezza, perché se
l’intesa al Parlamento non piace, le Camere possono costringere il Governo a
cambiarla. Quando Craxi fece il nuovo concordato con il Vaticano, il Parlamento
con un ordine del giorno impegnò il Governo a rinegoziare una clausola
dell’accordo. Il Concordato dell’84 è meno importante di un’intesa
Stato-Regione? Il vero problema è il triste stato in cui versa il nostro Parlamento,
sempre meno capace di essere il controllore del Governo, come dovrebbe. Ma
questa è un’altra storia, molto preoccupante, che va ben al di là della
questione dell’autonomia differenziata.
Quello che ha spaventato molti sembra
dipendere dal fatto che la richiesta di autonomia da parte di alcune Regioni è
arrivata dopo i referendum del 2017.
E’ possibile. Va detto che quei referendum
erano perfettamente inutili, soldi buttati. Lo dimostra il fatto che
l’Emilia-Romagna ha intrapreso lo stesso percorso di Lombardia e Veneto senza
bisogno di alcun referendum: bastava la richiesta del governatore. Quella di
Maroni e Zaia è stata solo un’esibizione politica anche piuttosto rozza.
Eppure, anche secondo lei la riforma
presenta dei problemi. Vuole dirci dove stanno?
Le Regioni hanno seguito il modello con cui
lo Stato ha in passato trasferito loro le funzioni: il Governo ha incaricato le
sue burocrazie ministeriali di individuare nelle proprie competenze quelle che
si potevano concedere alle Regioni. Il trasferimento di funzioni amministrative
dallo Stato alle Regioni ordinarie nel 1971, nel 1977 e nel 1998 con i decreti
Bassanini è stato fatto in questo modo. Il problema è che Zaia, Maroni e
Bonaccini hanno fatto lo stesso a parti invertite, delegando ai propri uffici
di individuare le funzioni amministrative da richiedere. Sta davvero in questo
l’autonomia regionale da potenziare?
Che cosa avrebbero dovuto fare?
Pensare a che cosa vorrebbero fare in termini
di politiche pubbliche per potenziare il ruolo complessivo e politico della
propria Regione. Invece, affidare il compito di ridisegnare l’autonomia alle
burocrazie regionali vuol dire delegarlo a chi non ha e non può avere nessuna
visione politica, se non quella di rivendicare piccole e in alcuni casi pericolosissime
funzioni amministrative.
A quali competenze si riferisce?
In una versione degli accordi, che ora mi
sembra superata, il Veneto chiedeva competenze in materia di ambiente e beni
culturali che miravano aescludere l’intervento del ministero o delle sovrintendenza a tutela
di interessi generali di tutela; oppure avrebbe voluto poter attivare nuovi
corsi di laurea nei suoi atenei o creare un proprio meccanismo “regionale” di
valutazione della ricerca scientifica; ed anche la Lombardia voleva riservarsi
le competenze in materia di valutazione dell’impatto ambientale delle opere
pubbliche.
Con quali conseguenze?
Regionalizzare le funzioni di controllo
dell’ambiente e del patrimonio artistico e naturale presenta rischi evidenti.
Non mi sembra sia un passo che si possa compiere senza un’approfondita
riflessione sul significato e le esigenze di tutela del patrimonio nazionale.
Su questo va bloccata la strada a qualsiasi spregiudicatezza.
Anche per lei però l’autonomia non è un
male: dipende da come si realizza.
Certamente. L’intesa preliminare raggiunta
alla fine di febbraio con Lombardia, Veneto ed Emilia non entra a specificare
che cosa trasferisce lo Stato alla Regione: si parla soltanto di 23 o 20 o 16
materie in cui si riconosce alla Regione maggiori competenze legislative, ma
senza dire quali.
E chi dovrebbe dirlo?
L’ipotesi è quella di una commissione
paritetica, una per ogni Regione, composta da membri dello Stato e membri delle
Regioni, sulla falsariga delle commissione paritetiche istituite per le Regioni
speciali. Avrebbero il compito di dire quali sono i contenuti del trasferimento
e quali sono le misure finanziarie conseguenti.
E non è la strada giusta?
E’ sbagliatissima, perché il conferimento di
poteri e soldi alle Regioni avverrebbe con un decreto del presidente del
Consiglio dei ministri. Che non è nemmeno un atto normativo, però conferirebbe
alle Regioni il potere di determinare con legge regionale quali leggi dello
Stato vengono disapplicate. In pratica, si affida a una Regione di stabilire
quale autonomia vuole. Questo sì che è un vulnus al nostro sistema
costituzionale. Si sostituirebbe il quadro attuale delle funzioni regionali
fissato in Costituzione con un assetto indefinito e che verrebbe completato con
atti “politici” elaborati lontano dal dibattito pubblico e dal controllo
parlamentare.
Che prospettive ha questa operazione, se
non viene corretta?
Il Parlamento può ancora bloccare tutto. Se
invece la riforma va avanti, andrà sicuramente a sbattere contro due ostacoli
credo insuperabili: il vaglio della Corte costituzionale, che censurerà le
evidenti incompatibilità con la Costituzione, e la “bollinatura” del Mef per la
questione delle risorse finanziarie. Per ora è difficile fare previsioni,
perché il confronto è ancora limitato al piano politico e l’intesa non è ancora
stata completata.
Quali sarebbe la sorte delle differenze
tra Nord e Sud qualora il federalismo fosse correttamente applicato? Se una
Regione ricca si tenesse il gettito Irpef, i suoi servizi sarebbero più
efficienti, a discapito delle altre.
Ma è quello che accade adesso, senza
federalismo. Prenda il turismo sanitario: non dipende dal fatto che le regioni
del Nord siano più ricche, ma dalla qualità del servizio offerto; e a decretare
l’insufficienza delle strutture del Sud sono proprio i cittadini, che venendo a
curarsi al Nord “votano con i piedi”, come si dice in America. Se tra Nord e
Sud c’è una differenza equivalente a tre anni in termini di aspettativa di
vita, è perché il Sud da sempre mostra in genere capacità amministrative più
scarse e lo Stato in presenza di un disservizio, dal malfunzionamento
amministrativo alla morte in sala operatoria, non fa il suo dovere, che è
quello di garantire l’eguaglianza dei diritti. Tutto questo non è colpa di un
federalismo che non c’è, ma di una cattiva attuazione dell’attuale
Costituzione.
Lei da tutto questo quali conclusioni
trae?
Quella che non si dice: la contropartita
politica e tecnica di ogni possibile autonomia differenziata è il buon
funzionamento degli apparati burocratici dello Stato. Chi ne parla? Nessuno,
non sembra un argomento importante. Nello stesso tempo com’è possibile che la
Lombarda non chieda competenze specifiche per Milano? E’ una situazione che
basterebbe da sola a giustificare un’intesa Stato-Regione del tutto peculiare.
Non per una volontà “secessionista”, ma per rispettare la peculiarità di
Milano, che non è un “capoluogo regionale”, ma una delle capitali mondiali.
In molti temono che la diseguaglianza si
produca se non si mantiene una redistribuzione operata dal centro.
Un’obiezione senza fondamento. Anzitutto
perché essa continuerebbe ad essere operata: trattenere l’Irpef nel territorio
è uno slogan che piace a Zaia, ma non ha molto senso e nessuna prospettiva. E
poi qualcosa è già successo. Nessuno sa che in Italia ci sono alcune Regioni
che non entrano in molte voci del Piano sanitario nazionale. Quando la crisi
finanziaria portò il governo Berlusconi a tagliare i fondi, Trento, Bolzano e
il Friuli-Venezia Giulia proposero allo Stato di non subire tagli ma di
accollarsi i costi di alcuni servizi, dall’università (Trento) alla sanità
(Trento, Bolzano e il FVG). Nessuno se n’è accorto, ma in quelle Regioni i
servizi funzionano perfettamente, i conti sono in regola e non è cambiato
l’equilibrio tra Nord e Sud. Né questo ha danneggiato le Regioni del Sud, che
continuano a ricevere i soldi come prima.
E a gestirli male.
Infatti. E’ questione di capacità
amministrativa, ma anche di capacità democratica. E’ un grande problema, forse
non solo al Sud.
Che cosa intende?
Per fare bene il federalismo basterebbe un
governo dotato di una prospettiva attenta al disegno costituzionale: che non si
fissi sul costo delle cose, dalla siringa al defibrillatore. Di questi dati ce
ne facciamo poco, abbiamo bisogno di sapere invece dove ci si cura e dove si
muore e perché. Senza analisi comparative che devono produrre dati precisi e
aggiornati, senza di cui non ci possono essere decisioni conseguenti. I costi
standard di cui si parla da anni non bastano: il costo delle siringhe non dice
niente a nessuno se non si è in grado di sapere se le siringhe acquistate
servono a guarire o a uccidere le persone.
Insomma, concludendo: non è
incostituzionale la strada intrapresa dal Governo per fare l’autonomia, ma il
modo in cui si è deciso di percorrerla; è così? Quali sono i suoi suggerimenti?
Il processo da avviare dovrebbe partire da
una riflessione di ciascuna Regione su quali siano le politiche che si
vorrebbero sviluppare, perché attengono alla specificità del territorio
amministrato, e quali sono gli ostacoli che impediscono di avviarle. Si
scoprirà che non sono solo le limitazioni finanziarie o le funzioni
amministrative trattenute dallo Stato ad impedirle, ma l’uniformità imposta
dalle leggi e leggine statali e dall’arcigno controllo delle burocrazie
ministeriali. Quello è lo spazio da aprire e da riempire con leggi regionali,
magari contrattate con lo Stato, magari improntate alla sperimentazione di
nuove soluzioni normative. E contemporaneamente bisognerebbe convertire le
burocrazie ministeriali, oggi dedite a controlli formali e a riscontri
finanziari che guardano tutti alla carta e non alla realtà e alla misurazione
dei risultati.
SCUOLA/ Autonomia differenziata e istruzione: 4 proposte per cambiare
tutto
- Emanuele Contu
4 proposte per far sì che l’autonomia differenziata, allo
studio del governo, possa dare luogo ad un vero cambiamento nella scuola,
realizzando per davvero l’autonomia scolastica
L’autonomia degli istituti scolastici, come
noto, è stata introdotta nell’ordinamento italiano con art. 21 della legge 15
marzo 1997, n. 59: un articolo scritto direttamente dall’allora ministro
dell’Istruzione, Luigi Berlinguer, che volle così incastonare l’autonomia delle
scuole nel quadro ampio del sistema di autonomie sussidiarie disegnato dalla
prima legge Bassanini. L’autonomia delle scuole era così riconosciuta (e non
concessa) dallo Stato contestualmente alle altre autonomie cui si intendeva
dare respiro. Il messaggio era chiaro: le diverse autonomie avevano la medesima
dignità e il trasferimento di poteri dallo Stato alle Regioni e agli enti
locali non doveva tradursi in nuove forme di centralismo localizzato, ma essere
parte di un più ampio respiro in cui le autonomie – tanto quelle emanate dalla
Repubblica, quanto quelle che erano espressione diretta della società – si
collocavano nelle loro diverse funzioni su un piano di eguale dignità, in
un’ottica pienamente sussidiaria.
In quel quadro è oggi da leggere il processo di autonomia differenziata avviato
dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: si tratta infatti di un
processo previsto dal comma terzo dell’art. 116 della Costituzione, introdotto
dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha recepito nella Carta gli
elementi di decentramento, autonomia e sussidiarietà già presenti nelle leggi Bassanini.
Non si può quindi guardare all’ampliamento dei poteri regionali come a una
semplice riproposizione delle prerogative e dei modi dello Stato di gestire la
cosa pubblica. Né per altro può bastare sostenere che le cose andranno meglio
semplicemente perché le Regioni sapranno gestire meglio – ovvero con più
efficacia ed efficienza – i compiti prima di competenza statale. Occorre invece
che la rafforzata autonomia regionale si collochi nel quadro ampio di una
rinnovata stagione di autonomie: un’occasione per dare gambe e spazio al
processo di responsabilità diffusa e sussidiarietà per cui non spetta al centro
fare quanto può essere pienamente compiuto dalla periferia, né allo Stato, alla
Regione o agli enti locali quanto la società può concretizzare come piena
soddisfazione di tutti i portatori d’interessi.
Cosa fare dell’autonomia rafforzata in
materia di istruzione e formazione? Possiamo immaginare che – come da altri ipotizzato – il
ragionare su scala regionale possa promuovere processi virtuosi di innovazione,
coinvolgendo in maniera costruttiva associazioni professionali e parti sociali,
in una logica di mediazione alta?
Proviamo ad avanzare quattro proposte, una
piattaforma che tenga al centro del ragionamento l’innalzamento della qualità
dell’offerta formativa sul territorio, il rafforzamento dell’autonomia delle
scuole e, di pari passo, lo sviluppo di un’effettiva parità tra scuole statali/regionali
e scuole gestite da enti locali e privati che decidano di restare in pieno nel
sistema pubblico.
Prima proposta: assegnare alle scuole il
compito di individuare i propri docenti in entrata, attraverso un meccanismo
simile a quello della chiamata per competenze già introdotto, timidamente, con
la legge sulla “Buona Scuola” e poi annullato dall’attuale governo. Si dovrebbe
garantire ai docenti già in ruolo presso una scuola la permanenza nell’attuale
sede di servizio, assicurando così un’introduzione graduale del nuovo sistema
che sarebbe adottato solo per i nuovi insegnanti e per quanti decidessero di
mutare di sede su base volontaria.
Parallelamente, ed è la seconda proposta, le
Regioni dovrebbero favorire l’attivazione di percorsi di formazione per docenti
della scuola secondaria che permettano il conseguimento di una specializzazione
con valore abilitante, necessaria per essere chiamati a ricoprire posti stabili
(quindi non semplici supplenze) nelle scuole sulla base del proprio curriculum.
A differenza di quanto fin qui realizzato in Italia, questi percorsi dovrebbero
non essere tutti uniformi, ma rivolgersi a differenti categorie di aspiranti
insegnanti per favorire, ad esempio, l’accesso all’insegnamento di chi in una
prima fase della sua vita lavorativa ha preferito dedicarsi ad altre
professioni.
Terza proposta: dare spazio a molteplici
forme di autonomia scolastica rafforzata, adottando un modello simile a quello delle charter schools che trova
ampio spazio ad esempio nel Regno Unito, in Portogallo o negli Stati Uniti. Si
tratta in sostanza di consentire alle scuole che ne faranno richiesta e che –
sulla base di una valutazione esterna – presenteranno determinate
caratteristiche di mantenere i finanziamenti pubblici, ma dotandosi di una più
ampia autonomia gestionale, fino a consentire una riorganizzazione degli
strumenti di governance e un ampio margine nella definizione dei curricula,
all’interno del perimetro definito dagli ordinamenti nazionali dei percorsi di
istruzione. Nel sistema charter dovrebbero poter entrare, senza distinzioni,
anche le scuole gestite da enti locali e privati, che accederebbero in questo
modo a finanziamenti analoghi a quelli fin qui riservati alle scuole statali:
una scelta di piena integrazione tra scuole pubbliche che favorirebbe la
libertà di scelta delle famiglie, venendo meno in accesso la barriera
rappresentata dalla retta.
Quarta e ultima proposta: rafforzare il
sistema di valutazione delle scuole, potenziando con risorse regionali il
modello costruito da Invalsi a livello nazionale, che sta dando prova di buona
affidabilità. L’obiettivo sarebbe generalizzarne l’applicazione per garantire
in breve tempo la valutazione di tutte le scuole pubbliche – quindi
statali/regionali e paritarie – nell’arco di un triennio. Non parliamo qui di
un sistema regionale di valutazione, sia chiaro, bensì di un rafforzamento
regionale del sistema nazionale di valutazione, lasciando la titolarità delle
operazioni in campo a Invalsi come attualmente avviene. Il sistema di
valutazione potenziato dovrebbe consentire di seguire più da vicino il percorso
di miglioramento delle scuole che otterranno valutazioni più basse (anche su
questo esistono esperienze virtuose realizzate a suo tempo con le
sperimentazioni nazionali VSQ e Vales) e di verificare il possesso e il
mantenimento dei requisiti delle scuole che opteranno per il sistema charter,
per le quali la valutazione potrà almeno in fase iniziale essere effettuata con
maggiore frequenza, ad esempio su base biennale.
Immaginare che il regionalismo rafforzato si
risolva solo in un’ipotetica migliore gestione dell’ordinaria amministrazione
sarebbe rassegnarsi al topolino partorito dalla montagna. Ci sono gli spazi per
non accontentarsi a fare un po’ meglio e decidere di percorrere invece strade
in gran parte nuove per l’Italia, ma già ampiamente sperimentate nel resto d’Europa:
sarebbe un peccato non provarci.