Sami Modiano è un uomo di 92 anni, è l’ultimo testimone rimasto della deportazione della comunità ebraica di Rodi. Ogni estate torna nella sua isola e ogni mattina alle dieci e mezza va alla sinagoga, la stessa di quando era bambino. Attende le persone sulla porta – non esistono appuntamenti, accoglie chi arriva – le accompagna e racconta la storia di quel mondo che non esiste più. Di quella comunità sono rimaste solo due cose: Sami e la sua sinagoga.
La sua voce che ricorda è una delle cose più emozionanti che abbia mai incontrato, è tranquilla, calda, affettuosa, commossa. È una voce che sente la responsabilità della memoria e l’importanza della cura, per questo l’ho registrata, per questo ho voluto che diventasse un podcast per tutti coloro che non sono mai andati ad ascoltarlo alla sinagoga. La vita di Sami è straordinaria, caratterizzata dalla capacità di resistere, di rimettersi in piedi, di inventare sempre un nuovo capitolo. Una vita avventurosa in cui ha fatto il trasportatore di frutta nel cuore dell’Africa e il pescatore nell’Egeo, in cui ha trovato l’amore e il coraggio di ricostruire la fiducia nel mondo e nelle persone, lui che perse tutta la sua famiglia, i parenti e gli amici nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Per sessant’anni, fino al 2005, è rimasto in silenzio, il dolore del ricordo era troppo forte, poi quando aveva già 75 anni ha deciso di parlare. È tornato ad Auschwitz insieme al suo amico di prigionia Piero Terracina e ha scelto di raccontare, di dare voce alla memoria: «Ho deciso di rompere il mio silenzio. Di fare anch’io la mia parte come l’ha fatta Primo Levi e come l’hanno fatta tutti quei pochi sopravvissuti che hanno cercato di far capire al mondo quello che era successo. E ho giurato che fin quando avrò la forza di farlo non mi fermerò. Non posso dimenticare tutte queste persone innocenti».
Gli ebrei arrivarono a Rodi dopo essere stati cacciati dalla Spagna nel 1492, per oltre quattrocento anni vissero in pace nell’isola delle rose, parlando la loro lingua di origine spagnola e abitando in un quartiere, non in un ghetto. Con la Seconda guerra mondiale due terzi dei 6000 ebrei lasciarono Rodi per cercare salvezza e fortuna oltre gli Oceani. I quasi due mila che rimasero vennero deportati tutti insieme la mattina del 23 luglio 1944.
Fecero il viaggio più lungo, prima in nave e poi in treno, per arrivare fino al campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. Sami aveva appena compiuto 14 anni ed era con suo padre e sua sorella.
Arrivarono alla rampa della morte, davanti alle camere a gas, il 16 di agosto e quel giorno la comunità di Rodi venne cancellata.
«Nel campo ho avuto la fortuna di avere ancora papà per un mese, da agosto fino alla fine di settembre. E in quel poco tempo mi ha dato dei consigli, mi ha dato la sua benedizione, mi ha detto: “Tieni duro, Sami, tu ce la devi fare, tu ce la puoi fare”».
Per parecchi giorni cercò anche la sorella da cui era stato diviso all’arrivo dei vagoni ad Auschwitz: «Ogni sera, dopo le dodici ore di lavoro, facevo su e giù lungo il filo spinato che divideva la parte degli uomini da quella delle donne per provare a vederla. I miei tentativi erano sempre vani, finché una sera, dopo venti giorni di prigionia, non vedo una mano che mi saluta. Ho pensato che non potesse essere mia sorella. Era una ragazza con un pigiama a righe, rasata a zero. Era magra. Ho detto no. Ho lasciato venti giorni fa una bellissima ragazza. Non è possibile che sia lei. Ma quella mano insisteva. Poi ho rischiato, mi sono avvicinato e alla fine l’ho riconosciuta. Non so come definire questo incontro: c’era dolore, c’era sofferenza, c’era gioia. Ci siamo fatti dei gesti perché non potevamo parlare, ma ci siamo capiti».
«Ci siamo rivisti altre tre o forse quattro volte. Mia sorella da quando era morta la mamma si era sempre occupata di me, mi aveva protetto, aiutato, mi aveva insegnato a stare al mondo e quando, durante la guerra, avevamo poco per cena lei mi dava la sua parte. L’ultima volta che ci siamo visti mi sono detto: “adesso tocca a te, Sami, aiutare tua sorella”. Quella sera non ho mangiato la mia razione di pane, 125 grammi, e con grande gioia ho deciso di darla a lei, l’ho avvolta in uno straccio e gliel’ho tirata dall’altra parte del filo spinato. Lei l’ha presa e ha fatto il gesto di abbracciarmi. Mi teneva stretto. Dondolava. Vedo ancora quell’abbraccio e lo sento ancora adesso, una cosa di una tenerezza infinita, che non ho parole per spiegare. Poi ha richiuso il pane nella stoffa e me lo ha ritirato indietro.
La sera dopo non è venuta, io non potevo accettare l’idea che non ci fosse più, mi dicevo che forse quel giorno non era potuta venire e così ogni sera tornavo ad aspettarla. Ma lei non sarebbe mai più venuta. Ho dovuto ammettere a me stesso che se ne era andata, lo aveva fatto in punta di piedi».
Il lager dopo la sorella si portò via anche il padre e Sami rimase solo. Sono passati 78 anni ma ancora si commuove, soffre, la notte sogna sua sorella, ma non pronuncia mai una parola di rabbia. Ha trovato una sua serenità, una forza incredibile: «Io sono contento della mia vita, di quello che ho fatto. E quando verrà il mio momento me ne andrò tranquillo, ma fino a quando ci sarò terrò fede al giuramento che ho fatto davanti a quelle cinque camere a gas, ai forni crematori: “Io ci sono e non mi fermerò, vi ricorderò e lo farò fino all’ultimo, fino all’ultimo”. Per questo sono ancora qui».
Insieme a sua moglie Selma ogni sera fa una passeggiata per le strade del vecchio quartiere ebraico, anche lei è nata su quest’isola, si salvò dalla deportazione perché suo padre la nascose in una grotta di montagna, dove sopravvisse mangiando lumache.
Ancora oggi Sami cammina e vede la Rodi che non esiste più: vede il panettiere che faceva i dolci della tradizione ebraica, vede il negozio del calzolaio e quello delle ricamatrici. Vede l’angolo dove giocava con suo cugino, sente il profumo delle patate e delle castagne cotte nella cenere, vede ancora quel negozio che lo affascinava più di tutti gli altri, con le aringhe, le sardine, i sacchi di fagioli, di lenticchie e di riso.
Da settantotto anni però non esiste più nulla di quel film, ogni scena è stata cancellata con una decisione presa nel giorno del suo compleanno, il 18 luglio del 1944, quando tutti i capi famiglia vennero convocati dai nazisti e rimasero cinque giorni chiusi in una caserma. Mentre cammina però risente gli stessi profumi, quelli non li sta immaginando, quelli sono rimasti uguali: l’albero con i fichi maturi, il melograno, le rose e l’odore del mare. Poi con Selma vanno a sedersi in una panchina sotto i platani a prendere il fresco e a ricordare. Mi piacerebbe fermare il tempo e sapere che saranno lì per sempre. Nella mia testa sarà così.
(Questa puntata di Altre/Storie si intitola: “Tieni duro, Sami” e la potete ascoltare qui).