Fonte: Il Sussidiario.net. Articolo del 19.10.2023 di Maria Grazia Fornaroli. La quadriennalità negli istituti tecnici e professionali è una buona riforma. Molte le difficoltà da affrontare: serve un cambio di paradigma
Quadriennalità negli istituti tecnici industriali: un’ipotesi di lavoro da non lasciar cadere. Anzi una provocazione a un autentico mutamento didattico e metodologico.
L’ipotesi realistica è che alcune decine di istituti tecnici industriali dal prossimo anno possano strutturarsi in percorsi quadriennali. Ad oggi, nel sistema di istruzione solo i licei hanno avuto l’opportunità di tentare questa strada.
Si tratta di una strada molto suggestiva ma non semplice. Quali le obiezioni diffuse? La selezione, soprattutto nei primi due anni, è molto alta, sfiora il 20%. “Chissà cosa accadrebbe se invece di 5 anni al giovane studente (perché di utenza prevalentemente maschile si tratta) se ne proponessero solo 4?” Come si potrebbero compattare “programmi” in un tempo così esiguo? Un curriculum con così tante discipline? Come per tutti i quadriennali, la grande modifica farebbe immaginare il biennio costretto in un anno solo. Cosa e dove “tagliare”?
Molti ragazzi iscritti ai tecnici sono portatori di disturbi specifici e neo-arrivati in Italia; per loro una riduzione degli anni di scolarizzazione potrebbe costituire, a parere di chi tenacemente è legato al percorso quinquennale, un’ulteriore penalizzazione.
Tutte obiezioni comprensibili, ma certamente, ancora una volta, dobbiamo considerare alcune questioni decisive: nella maggior parte dei Paesi il percorso di scuola superiore è più breve del nostro, spesso anche i corsi universitari di area tecnica privilegiano la triennalità (la laurea breve), soprattutto nell’area tecnica i nostri ragazzi devono confrontarsi con contesti produttivi multinazionali per i quali l’età anagrafica è fattore determinante per l’assunzione.
Si tratta sicuramente di un’interessantissima sfida che avrebbe bisogno di docenti estremamente motivati, desiderosi di rimettersi in gioco.
Ma questi docenti ci sono? Forse sono sempre più rari, soprattutto negli istituti tecnici industriali, nei quali ingegneri e professionisti fruiscono in molti casi del part time, scegliendo di dedicare molte energie ad attività professionali molto più remunerative. Se il loro “doppio lavoro”, assolutamente legittimo, ha il pregio anche per la scuola di tenerli desti rispetto ai grandi mutamenti tecnologici e organizzativi, il loro essere a scuola per sole poche ore li rende inevitabilmente poco disponibili a costituire quel middle management di cui, in più occasioni, si è detto che la scuola ha enormemente bisogno.
Questo per ingegneri e tecnici. Per i docenti “generalisti” altra questione spinosa: si tratta di contesti più difficili, in cui le devianze, gli atteggiamenti oppositivi sono più diffusi, in cui il “programma” stenta a decollare secondo parametri standard e allora molti insegnanti, appena è possibile, preferiscono migrare verso contesti liceali, più semplici, più consoni a una classe docente che, anch’essa in modo assolutamente legittimo, si concepisce ancora in una prospettiva prevalentemente intellettuale, con una preferenza per un approccio teorico allo studio, erede di una grande tradizione, ma che ora in certi contesti appare davvero impraticabile.
Quindi?
Quindi è l’occasione di compiere scelte coraggiose in scuole che desiderino, pur fra mille difficoltà, accogliere la sfida di una’introduzione consapevole alla realtà tecnologica di cui il Paese ha enormemente bisogno, con passione e apertura.
Consideriamo alcune ipotesi di lavoro.
1. Contribuire a far superare ai docenti della scuola secondaria di primo grado (ma anche ai genitori) il pregiudizio che i “bravi” vadano al liceo, i meno bravi al liceo scienza-latino e via così, quelli del “6” al tecnico e al professionale. Stereotipi duri a morire, ma davvero anacronistici.
2. Promuovere una vera didattica orientativa che aiuti a scoprire i talenti, le attitudini, i gusti dei singoli ragazzi affidati e ad evitare che dopo i primi insuccessi comincino i giri di valzer tra scuola e scuola, che solo raramente si concludono con soddisfazione.
3. Far incontrare anche ai docenti di questo segmento di istruzione le nuove professioni; una visione esclusivamente scolastico-centrica rischia davvero di censurare le potenzialità di ciascuno e di indirizzare a scuole e a discipline per nulla corrispondenti alle caratteristiche di ogni studente.
Il nativo digitale ha più bisogno dei suoi coetanei di qualche anno fa di ridestare passione e curiosità per mettersi in moto, altrimenti non si stacca dal cellulare o, se lo fa, la testa rimane là dove giace il device.
Essenziale è ripensare i curricula soprattutto dei primi anni; purtroppo questo tipo di studente vive la dimensione teorica dell’apprendere e l’applicazione personale come totalmente estranee al suo modus vivendi.
Conosciamo le esperienze positive di Portofranco e affini; si tratta di diffondere queste pratiche con investimenti per scuole aperte al pomeriggio, per offrire la possibilità di condividere la fatica dello studio e per far trovare all’adolescente adulti competenti che accettino, da buoni allenatori, di riconoscere le difficoltà e di aiutare a risolverle.
Non è il caso di accennare al tema delle metodologie attive, se ne è parlato in più occasioni; sicuramente vanno conosciute e sperimentate, ma anche la lezione tradizionale, là dove sia presente un “maestro”, cattura sicuramente. Quello che non cattura più e che genera rifiuto, sfiducia e abbandono è la stanca ripetizione di programmi svuotati di interesse, spesso ahimè anche per chi li propone.
Le pratiche didattiche sperimentate nei percorsi IFTS e ITS possono sicuramente offrire paradigmi di trasmissione del sapere interessanti; il vecchio “slogan “fuori le aziende dalle scuole” risulta davvero obsoleto: in azienda, come in qualsiasi luogo di lavoro, si impara per tutta la vita e si impara anche ad insegnare, a correggersi. Forse paradossalmente è la scuola, luogo di sapere per eccellenza, che è davvero affaticata e renitente a “imparare ad insegnare”.
Il PNRR ci sta dotando di laboratori in alcuni casi di alto profilo, ma non sarà solo questo a far migliorare l’apprendimento. Si tratta di amare il proprio sapere fino al punto di essere disponibili a proporlo in maniera nuova e affascinante. Le mamme con i bambini inappetenti provano ricette nuove e gustose!
Altra interessante possibilità, ma ancora di nicchia, è l’esperienza dell’apprendistato, il noto modello duale tedesco, in cui trovano sviluppo e successo quei ragazzi con intelligenze più orientate a un apprendimento più pratico che teorico. Con l’apprendistato le discipline tecniche si acquisiscono sui luoghi di lavoro e a scuola si continuano ad approfondire quelle più teoriche, i dati delle poche esperienze già in atto sono confortanti, i ragazzi conseguono il diploma negli stessi anni dei loro compagni rimasti sui banchi e si inseriscono a pieno titolo nel tessuto produttivo.
Infine, la grande assente dal curriculum degli istituti tecnici industriali, la filosofia. Può una società tecnologica come l’attuale, in cui alcune scelte decisive, non solo in termini economici, ma ambientali e talora anche di natura etica, privare di alcuni fondamenti della ricerca filosofica chi queste scelte dovrà compierle? Sarebbe assolutamente necessario, come accade in gran parte dei Paesi “sviluppati” inserire nel curricolo alcune ore, alcuni moduli di filosofia, non certo per riprodurre la disciplina in una vecchia veste storicistica, ma per educare anche i tecnici a porsi le domande essenziali dell’esistere.
Purtroppo, infine, nel panorama degli istituti tecnici si assiste alla quasi esclusiva assenza di scuole paritarie. Le ragioni le conosciamo: il costo esorbitante dei laboratori e di un numero di docenti particolarmente oneroso.
La presenza e il dialogo con scuole che possano mettere la didattica al centro del proprio lavoro potrebbe essere un fecondo scambio che tuttavia non credo possa trovare esiti positivi, almeno a breve. Se non altro, è un auspicio.