Opinioni/Mario Draghi su scuola e riforme


Il testo dell'intervento di Mario Draghi

In Italia i redditi più bassi

(Discorso Governatore Banca d'Italia, Torino 26.10.2007)

Il reddito deve tornare a crescere, perché riprenda il consumo, per la stabilità finanziaria, per la crescita del prodotto, e, infine, soprattutto per il benessere dei giovani. Il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi mette il dito su una delle grandi piaghe trascurate dell'economia italiana: il blocco dei redditi degli italiani, un blocco che ha permesso che si creassero delle forti differenze salariali rispetto agli altri Paesi. Differenze salariali, tra l'altro, anche molto variegate: sono più contenute per i giovani, crescono per le classi di lavoratori di età centrale, si annullano per gli anziani, diminuiscono nelle occupazioni manuali e meno qualificate. In Italia ai giovani, oltre a redditi più bassi che nel resto dei paesi sviluppati, tocca anche la precarietà. Una precarietà che sta cambiando perfino le nostre famiglie, visto che il nostro è il Paese con il più alto numero di giovani che convivono con i genitori e con il più basso numero di capifamiglia sotto i 30 anni. Il messaggio ha tanto più significato in quanto viene da un brillante economista che è anche Governatore della Banca d'Italia.(26 ottobre 2007)

 

Consumo e crescita in Italia - Lezione di Mario Draghi Governatore della Banca d’Italia Torino, 26 ottobre 2007

Tendenze dei consumi in Italia

La spesa pro capite per consumi è oggi più che raddoppiata rispetto al 1970. La sua crescita si è però fermata negli ultimi sei anni, dopo essere stata pari in media all’1,7 per cento nel corso degli anni Novanta (Fig. 1). Dal 1990 la dinamica dei consumi è stata comunque assai più sostenuta di quella del reddito disponibile, il cui valore pro capite è rimasto sostanzialmente stazionario per tutto il periodo. Questi andamenti si discostano da quelli delle altre maggiori economie dell’Unione europea (Fig. 2). Nell’ultimo quindicennio in Francia e, soprattutto, nel Regno Unito il reddito pro capite è cresciuto a ritmi sostenuti, favorendo una rapida espansione dei consumi. In Germania, che ha condiviso con noi una fase di quasi stagnazione della crescita economica fino a due anni fa, la dinamica della spesa è risultata inferiore a quella del reddito, che ha beneficiato degli intensi processi di ristrutturazione, dei miglioramenti della produttività e della rafforzata capacità esportatrice del sistema produttivo tedesco. Viene confermata la fondamentale diversità dei casi italiano e tedesco: il nostro sistema ha sofferto di una crisi di competitività internazionale, quello tedesco di una crisi di fiducia dei consumatori. I dati per la nostra economia sollevano due questioni tra loro interconnesse. La prima è quali fattori spieghino l’aumento dei consumi pur in presenza di un reddito stazionario negli anni Novanta. La seconda è se la mancata crescita della spesa delle famiglie negli ultimi sei anni sia da ritenersi un episodio temporaneo o sia invece l’anticipazione di un rallentamento strutturale della domanda con cui confrontarsi negli anni futuri.

La stasi recente dei consumi: una spiegazione aggregata

Nel modello di ciclo vitale, che costituisce ancor oggi il quadro teorico di riferimento per analizzare le scelte di consumo, queste sono il risultato di una pianificazione che tiene conto di tutte le risorse disponibili, correnti e future. Incrementi inattesi e ritenuti permanenti del reddito o della ricchezza inducono una espansione dei piani di consumo perché allentano il vincolo di bilancio intertemporale. Secondo stime che saranno diffuse entro l’anno dalla Banca d’Italia, la ricchezza delle famiglie italiane – non considerando quella pensionistica pubblica, in accordo con le norme statistiche internazionali – ha mostrato un deciso incremento dalla metà degli anni novanta: pur tenendo conto delle difformità nazionali nella valutazione delle attività reali, alla fine del 2004 essa era pari a circa otto volte il reddito disponibile, un valore in linea con quello del Regno Unito e nettamente più elevato di quelli di Giappone, Francia, Germania e Stati Uniti. Nel nostro paese le attività finanziarie rappresentano poco meno della metà della ricchezza totale netta, una quota superiore a quella francese, pressoché pari a quelle della Germania e del Regno Unito e molto al di sotto di quelle degli Stati Uniti e Giappone. L’indebitamento delle famiglie italiane, pur in significativo aumento, rimane molto inferiore nel confronto con gli altri paesi. La ricchezza influenza il consumo anche a seconda della forma in cui è detenuta. Le diverse attività patrimoniali tendono ad avere una fungibilità imperfetta per le differenti motivazioni che ne guidano l’accumulazione e per i diversi costi di transazione. La ricchezza finanziaria è prevalentemente un deposito di valore e ha costi di detenzione relativamente bassi; la ricchezza immobiliare residenziale è sia riserva di valore, sia bene di consumo, in quanto fornisce servizi abitativi il cui costo varia con il prezzo di mercato degli immobili. Gli effetti sui consumi di una variazione della proprietà immobiliare sono di più difficile valutazione, perché risentono delle modalità di finanziamento dell’acquisto di un’abitazione e, più in generale, del grado di sviluppo dei mercati dei capitali. A fini di stima empirica si può ipotizzare una relazione in cui i consumi aggregati delle famiglie sono una funzione del reddito, dello stock di ricchezza immobiliare e dello stock di ricchezza finanziaria. Con riferimento all’economia italiana e agli anni 1980-2006, si stima una relazione di lungo periodo secondo cui un incremento di 100 euro del reddito disponibile si traduce in un aumento dei consumi di 60; un innalzamento di 100 euro del valore della ricchezza si traduce in un aumento dei consumi di 6 nel caso della ricchezza finanziaria e di soli 1,5 nel caso di quella immobiliare1. Quest’ultimo incremento è inferiore a quello che ricerche analoghe stimano per le economie anglosassoni, compreso fra 5 e 10, riflettendo plausibilmente la diversa disponibilità di strumenti finanziari che consentono di ridurre i costi di transazione e tradurre in potere d’acquisto le variazioni del valore degli immobili. La propensione a consumare rispetto alla ricchezza finanziaria non presenta differenze sostanziali nel confronto internazionale, mentre quella rispetto al reddito appare lievemente superiore in Italia. La ricchezza pensionistica, se inclusa nella stima, ha un impatto trascurabile sui consumi nel periodo esaminato, contrariamente all’effetto positivo che si trova per il quarantennio fino ai primi anni novanta. Le ripetute modifiche delle regole previdenziali da allora intervenute avrebbero reso più incerte l’entità dei benefici futuri e la data del pensionamento, riducendo la sensibilità dei piani di consumo alla ricchezza pensionistica. L’incertezza sull’esito finale dei numerosi interventi sulla previdenza nonché il calo della ricchezza pensionistica avrebbero negli anni recenti comportato una più intensa accumulazione delle altre forme di ricchezza, contribuendo per questa via a frenare i piani di consumo. Dai primi anni Novanta, nella funzione di consumo aggregata stimata per l’Italia, il contributo del reddito disponibile alla crescita dei consumi è stato modesto. L’aumento della spesa delle famiglie nello scorso decennio appare dovuto soprattutto all’aumento della ricchezza finanziaria, il cui valore si accresceva principalmente nella componente azionaria, per l’ascesa dei corsi. Negli ultimi sei anni l’andamento dei mercati dei capitali si è ripercosso sul valore della ricchezza finanziaria e per quella via sui consumi. La ricchezza immobiliare è subentrata a quella finanziaria nel sostenere la spesa, sull’onda dei forti rialzi dei prezzi di vendita delle case. Negli anni più recenti il suo contributo è triplicato rispetto agli anni Novanta, continuando però a rimanere relativamente modesto. Il vincolo di bilancio intertemporale e, quindi, le decisioni di spesa incorporano le attese delle famiglie circa gli andamenti futuri della spesa pubblica. Le stime aggregate indicano l’operare di meccanismi di tipo ricardiano: al deciso contenimento del disavanzo nella prima metà degli anni Novanta è corrisposta un’espansione dei piani di spesa delle famiglie. Anche il calo dei rendimenti reali a lungo termine, connesso con l’ingresso nell’unione monetaria, sarebbe stato percepito come permanente, originando uno spostamento dei programmi delle famiglie dal risparmio al consumo. Le relazioni di equilibrio di lungo periodo stimate sui dati aggregati, come quelle di cui ho dato conto finora, pur riflettendo i comportamenti individuali e le caratteristiche socio-demografiche della popolazione, non colgono pienamente la varietà di fattori che a livello microeconomico influenzano la relazione tra scelte di consumo, reddito e ricchezza. Stimando la funzione di consumo con dati individuali, la variazione di spesa associata a un incremento di 100 euro del valore della ricchezza immobiliare diviene pari a circa 3 euro per le famiglie proprietarie, mentre sarebbe trascurabile per quelle locatarie; l’effetto complessivo si conferma positivo, in linea con l’intensità stimata sulla base dei dati aggregati. Nel complesso, l’evidenza aggregata fornisce una spiegazione coerente delle dinamiche recenti, ma è ai fattori microeconomici sottostanti che occorre guardare per spiegare gli andamenti futuri: attese di vita, durata delle carriere lavorative, percezione dei processi che governano l’evoluzione del reddito e della ricchezza.

Cambiamenti demografici

Nel 1996 il numero di persone con oltre 65 anni sopravanzava quello degli individui con meno di 15 anni di circa il 15 per cento; nel 2006 lo superava del 40 per cento, circa tre anziani ogni due adolescenti. La durata media della vita continua ad aumentare: la speranza di vita dei sessantacinquenni è cresciuta di circa due anni tra il 1993 e il 2003. Si è ridotto il numero dei figli. Molte ne sono le ragioni, ma vi ha influito la percezione crescente che le condizioni reddituali e l’organizzazione della vita familiare, soprattutto nelle grandi città, siano di ostacolo alla procreazione. Queste sono tendenze comuni a tutte le economie avanzate, ma particolarmente pronunciate in Italia. Altri cambiamenti hanno riguardato la struttura della famiglia. Dal 1993-94 al 2003 la quota dei nuclei familiari con uno o due componenti è aumentata di sei punti percentuali sul totale, arrivando a costituire oltre la metà delle famiglie italiane. In particolare, la quota dei nuclei con una persona sola è aumentata di quasi cinque punti, raggiungendo un quarto del totale, in larga misura per l’aumento del numero di donne anziane sole. Questi mutamenti hanno importanti conseguenze per il livello, la composizione e la dinamica della domanda per consumi. L’allungamento della durata della vita media può implicare una minore spesa se non vi si associa un prolungamento della vita lavorativa. Nelle fasi più avanzate del ciclo di vita i consumi tendono a essere finanziati prevalentemente con i trasferimenti pensionistici, oltre che con il decumulo della ricchezza. Al ritiro dal mercato del lavoro può seguire un calo della spesa superiore a quello riconducibile al minore reddito o al cambiamento delle abitudini e delle esigenze connesso con la cessazione dell’attività lavorativa. I consumi, anche a parità di altre caratteristiche, tendono a essere più bassi nelle famiglie giovani e in quelle più anziane e a crescere, anche se in misura meno che proporzionale, con la dimensione del nucleo familiare. Anche la composizione della spesa varia considerevolmente lungo il ciclo di vita: considerando ad esempio le persone che vivono sole, nel 2005 la spesa per la sanità è pari all’1,7 per cento del totale della spesa per consumi per i giovani fino a 35 anni, sale al 5,0 per cento per le persone con 65 e più anni; la quota degli acquisti per abbigliamento passa invece dal 6,6 per cento dei primi al 3,4 dei secondi. Le condizioni demografiche possono avere apprezzabili effetti macroeconomici, che non sono colti dalla dinamica dei redditi e della ricchezza aggregata. Un esercizio basato sull’indagine dei consumi dell’Istat mostra che se la distribuzione delle caratteristiche demografiche delle famiglie italiane fosse rimasta quella del 1997, nel 2005 la spesa familiare media sarebbe risultata superiore di circa l’1,5 per cento a quella effettivamente realizzatasi; quella in abbigliamento e in mezzi di trasporto sarebbe stata superiore di quasi il 3 per cento. Il progressivo invecchiamento della popolazione contribuirà a frenare la dinamica della spesa privata nei prossimi anni; insieme con la riduzione della dimensione dei nuclei familiari concorrerà a modificarne la composizione. Questa conclusione è parziale, perché assume implicitamente che i profili dei redditi e della ricchezza, come di altri fattori che influenzano le decisioni di spesa, saranno per le generazioni future simili a quelli delle generazioni passate. Tuttavia, già oggi si osservano in queste variabili tendenze in contrasto con questa ipotesi.

Mercato del lavoro e redditi

La generazione che sta ora entrando e che entrerà nei prossimi anni nel mercato del lavoro vivrà in un mondo radicalmente diverso da quello delle generazioni attive nella seconda metà del secolo passato. Diversi sono oggi il funzionamento del mercato del lavoro e il livello delle retribuzioni. Negli ultimi dieci anni l’occupazione è aumentata considerevolmente, nonostante lo sviluppo modesto del prodotto. È il risultato della moderazione salariale, delle riforme e degli accordi contrattuali che hanno aumentato la flessibilità nell’utilizzo del lavoro. Il tasso di occupazione delle persone di età compresa tra i 25 e i 35 anni è aumentato di circa cinque punti percentuali. Tuttavia, a opportunità d’impiego decisamente maggiori di quelle offerte, alla stessa età, alle generazioni precedenti si è accompagnata una sensibile riduzione dei salari d’ingresso. I diplomati o laureati entrati nel mercato del lavoro negli anni più recenti percepiscono, in termini reali, una retribuzione prossima a quella che ricevevano coloro che entravano nel mercato del lavoro all’inizio degli anni Ottanta e inferiore a quella di coloro che entravano nei primi anni Novanta. I più bassi salari d’ingresso, in un contesto in cui quelli medi nell’economia hanno continuato anche solo moderatamente a crescere, non hanno schiuso profili di carriera più rapidi. La riduzione del reddito da lavoro appare, almeno in parte, di natura permanente e, cosa più importante per le decisioni di spesa, è percepita come tale dai lavoratori. L’esperienza lavorativa dei giovani differisce da quella delle coorti precedenti anche per la sua maggiore discontinuità e imprevedibilità. Nell’ultimo decennio l’incidenza di impieghi temporanei tra i lavoratori dipendenti di età compresa tra i 25 e i 35 anni è raddoppiata, raggiungendo il 17 per cento. L’entità complessiva del fenomeno della precarietà è tuttavia più ampia, poiché ricomprende i molti fra i lavoratori classificati come autonomi che prestano il loro lavoro secondo modalità e tempi caratteristici dell’occupazione alle dipendenze. Tra questi la quota dei più giovani è elevata e sfiora il 45 per cento. La discontinuità della vita lavorativa costituisce un freno alla spesa per larga parte del ciclo di vita. In assenza di strumenti e competenze finanziarie adeguate, a parità di reddito permanente, una maggiore volatilità di quello corrente può indurre agenti prudenti a comprimere la domanda e a risparmiare di più per accumulare le risorse necessarie per fronteggiare eventuali situazioni avverse. Nel confronto internazionale, i livelli retributivi sono in Italia più bassi che negli altri principali paesi dell’Unione europea. Secondo dati dell’Eurostat relativi alle imprese dell’industria e dei servizi privati nel 2001-02, la retribuzione media oraria era, a parità di potere d’acquisto, di 11 euro in Italia, tra il 30 e il 40 per cento inferiore ai valori di Francia, Germania e Regno Unito. L’Italia mostra, come la Francia, un profilo ascendente per età, mentre in Germania e Regno Unito il profilo è a U rovesciata: le retribuzioni raggiungono un apice in corrispondenza delle età più produttive, calano negli anni successivi (Fig. 3). Le differenze salariali rispetto agli altri paesi sono appena più contenute per i giovani, si ampliano per le classi centrali di età e tendono ad annullarsi per i lavoratori più anziani. Il differenziale è minore nelle occupazioni manuali e meno qualificate. Questi dati rappresentano valori medi e risentono delle diverse caratteristiche individuali dei lavoratori e delle loro occupazioni; parte delle differenze è per esempio spiegabile con il più basso livello di istruzione della manodopera italiana. Anche a parità di caratteristiche individuali, tuttavia, le retribuzioni mensili nette italiane risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a quelle tedesche, del 20 a quelle britanniche e del 25 a quelle francesi. Percorsi di carriera più incerti e discontinui rendono più difficile prevedere l’ammontare complessivo dei contributi versati nel corso dell’intera vita lavorativa. Sono maggiori i rischi relativi al valore della ricchezza pensionistica effettivamente disponibile in futuro, poiché essa dipende in misura significativa dall’andamento dei mercati finanziari. Può aggiungersi l’incertezza suscitata dalle ripetute modifiche delle regole previdenziali. Nel complesso, i più giovani potrebbero essere indotti a comprimere ulteriormente la spesa, già moderata da un reddito permanente atteso più basso che in passato. La percezione di un minor reddito permanente e la maggiore volatilità di quello corrente si riflettono anche sulle scelte dei giovani in merito al momento in cui abbandonare la famiglia d’origine, sommandosi alle molte altre ragioni culturali e sociali. Nel confronto europeo, l’Italia è il paese con la quota più alta di giovani che convivono con i genitori e con la quota più bassa di nuclei familiari con capofamiglia al di sotto dei 30 anni. Negli ultimi dieci anni la quota di giovani tra i 25 e i 35 anni che vive ancora nella famiglia d’origine è cresciuta di circa cinque punti percentuali, al 45 per cento; la quota è più elevata per i maschi che per le femmine. I tassi di fecondità sono tra i più bassi in Europa.

Le risposte possibili di politica economica

Occorre che il reddito torni a crescere in modo stabile. La produttività è la variabile chiave. Il recente aumento dell’occupazione si è associato a una minore produttività del lavoro: è diminuito il ritmo di crescita dell’intensità di capitale, sono divenute profittevoli occupazioni a basso valore aggiunto. È mancato il sostegno della crescita della produttività totale dei fattori. Le giovani generazioni d’oggi guadagnano meno delle precedenti perché la loro produttività è meno adeguata al paradigma tecnologico corrente di quanto non lo fosse la produttività delle generazioni entrate nel mercato del lavoro nei decenni passati al vecchio paradigma. Riportare la produttività su un sentiero ra14 pidamente ascendente risolve il problema di offerta dell’economia italiana, consente aumenti retributivi, rafforza la domanda interna. La politica economica può aiutare il rilancio della produttività e della crescita. La concorde diagnosi dei mali italiani porta in primo piano l’esigenza di misure volte a riformare le regole dell’economia e della spesa pubblica. Saranno quelle stesse misure "strutturali", mirate ad aumentare l’efficienza e la competitività della produzione interna, a sostenere i redditi e i consumi delle famiglie, assicurando la crescita dell’economia. Il ventaglio dell’azione pubblica è ampio. In connessione con i temi che ho qui trattato s’impongono tre campi. Una coraggiosa riforma del sistema d’istruzione, e in particolare dell’istruzione superiore, deve sollecitare i giovani in procinto di affacciarsi sul mercato del lavoro a investire seriamente in capitale umano. Deve consentire loro di valutare e selezionare la qualità dell’istruzione ricevuta. Deve rendere trasparente ai datori di lavoro il riconoscimento del talento perché sia adeguatamente valorizzato, anche nelle politiche retributive. Nel mercato del lavoro vanno individuati gli strumenti per ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità. Vi sono modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono. Un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento può ricostruire l’equilibrio fra attesa di vita, attività lavorativa e modelli di consumo. Aggiungo che la necessità di accumulare ricchezza a fini precauzionali è tanto meno cogente quanto più è avanzata l’offerta di strumenti finanziari e assicurativi adeguati ai nuovi profili di rischio e incertezza. Lo sviluppo dei mercati finanziari e quello della competenza e deontologia degli intermediari possono contribuire a soddisfare queste esigenze. Stimolarli è un nostro impegno.

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Una ripresa della crescita del consumo è fondamentale per il benessere generale, per la crescita del prodotto, per la stessa stabilità finanziaria. Destinatari e protagonisti di questo processo sono in particolare i giovani. La politica economica avrà successo se li aiuterà a scoprire nella flessibilità la creatività, nell’incertezza l’imprenditorialità.

 

 
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