Educare/Finkielkraut: insegnare, responsabilità gloriosa !


La spaventosa autorità dei pari

Quando niente è superiore a niente, l'educazione è democratica, ma la cultura è morta. L'elogio delle asimmetrie di Finkielkraut e il suo manifesto per una scuola conservatrice

di Flora Cescini

Tempi n. 47 – 22 novembre 2007

«L'educazione nazionale deve essere conservatrice perché, a memoria d’uomo, non si è mai insegnato il futuro: si insegna il passato, si allarga il presente al passato. Conservatrice significa che siamo tutti dei nuovi venuti nel mondo, che è più vecchio di noi. Il ruolo dell'educatore, allora, è di concedere l'ospitalità, questa è la responsabilità dei genitori: farti entrare in un mondo più vecchio di te. E se vuoi sviluppare le tue capacità realizzative, la tua attitudine a cominciare qualcosa di nuovo, bisogna che tu ti integri a tale mondo. Il problema è che in Francia il vecchio mondo ha il volto odioso delle nostre facoltà scassate, negli Stati Uniti ha il volto meraviglioso dei campus bucolici, ed è a questo che bisogna mirare, anziché reclamare la perpetuazione di uno status quo che è una rovina». Alain Finkielkraut s'è ficcato in un'altra di quelle polemiche che lo hanno reso famoso. La sua intervista a Radio France Inter dove definisce «assurdo e odioso» il movimento degli studenti che si oppongono alla riforma dell'università che vuole Nicolas Sarkozy, solo per «perpetuare la loro miseria» e cronicizzare la «clochardizzazione» dell'università, gli ha attirato nuovi fulmini. Ma la definizione della natura «conservatrice» dell'educazione che ha espresso nella circostanza è una gemma preziosa. La si può ritrovare anche nel suo ultimo libro, La querelle de l'école, che raccoglie la trascrizione di alcune trasmissioni che ha condotto a Radio France-culture sull'universo scuola.

Finkielkraut nella sua trasmissione ha invitato a parlare pedagogisti, presidi di facoltà, sociologi ed esperti di diritto che, a vario titolo, si occupano di scuola. Il quadro che ne emerge è desolante. In Francia la tragedia-scuola ha fatto passi più rapidi che in Italia. Anzitutto per un'invasione più massiccia delle pseudo scienze umane: pedagogia, sociologia e psicologia. Le varie riforme fatte oltralpe negli ultimi quarant'anni sanciscono la messa al bando della cultura legittima e del suo modo di trasmissione, tanto che oggi la scienza dell'insegnamento ha adombrato la materia insegnata: «La parola d'ordine della pedagogia attuale è riconciliare la scuola con la vita. Ma (scuola e vita) non sono mai state in antitesi, salvo pensare che solo il presente e l'ambiente immediato siano viventi». E il presente ha innalzato mura così alte che è impossibile guardare oltre, cosicché «sotto la bandiera della vita la pedagogia non si impegna a cambiare i metodi dell'insegnamento tradizionale, essa vuole modificarne i contenuti», creando uomini forse mai visti prima, prigionieri dell'immediato.

La parola "vita" malauguratamente non designa più l'esistere, le domande che da esso nascono e la ricerca di quello che altri hanno scoperto e risposto, ma una trama casuale senza significato né senso. Devastanti sono le conseguenze. Il relativismo innanzitutto: «Niente è superiore a niente. Ogni classificazione è una forma di stigmatizzazione. Dire che le umanità sono essenziali all'umanità è già impegnarsi nella via criminale di una distinzione tra i veramente umani e i non umani; allora la morte, questa grande livellatrice, diventa il modello della vita e la scuola non ha semplicemente ragione di esistere». Non c'è più nulla da trasmettere, o tramandare. Ecco perché «la pedagogia contemporanea si vuole induttiva: per sviluppare il potenziale del bambino parte dal suo vissuto. Qui è tutto il senso della rivoluzione copernicana che ha posto il bambino al centro del sistema educativo». Ma secondo Finkielkraut questa rivoluzione, «animata dalle migliori intenzioni», a giudicare dai risultati è devastatrice.  Per i riformatori della scuola «l'autonomia non è più. una conquista, ma un dato; essi fanno del bambino "l'attore della sua educazione". e pongono la sua libertà di opinione, di espressione, di discussione come fondamento del suo apprendimento». Così la disciplina è coercitiva, il maestro è oppressore e «la scuola è invitata a divenire un luogo di libertà, vale a dire di socializzazione, di comunicazione, e non più di trasmissione verticale».

Quando ai prof bastava sapere

La parola "educazione" (da ex ducere: trarre da e introdurre a) è ora più conforme allo spirito del tempo: «Gli adulti si piegano: l'obbedienza è diventata una virtù parentale» e «il bambino affrancato dall'autorità degli adulti è. un individuo senza dio né maestro. È abbandonato alla spaventosa autorità dei pari». Lo svilimento di tale parola tocca anche il mestiere dell'insegnante: «Quando ho scelto la via dell'insegnamento la professionalità dell'insegnante era una qualità intellettuale e non psicologica. Non si domandava all'insegnante, per essere efficace, che fosse un simpaticone, un buon ragazzo dedito e collaborativo, ma che conoscesse bene la sua materia. L'autorità pedagogica non era ancora considerata dall'istituzione una "violenza simbolica" e procedeva dal sapere. Quell'epoca sembra finita: la parola "professionale" cambia di senso. Altre finalità appaiono. Occorre - ci viene detto - rispondere alle attese degli allievi e sapersi regolare sugli sbocchi professionali esistenti nella società. Ora, lungi dall'essere superata dal nuovo dato economico e sociale, l'antica definizione del mestiere mi sembra più attuale, più necessaria che mai in un mondo lasciato - fuori dalla scuola - al semplicismo feroce del pensiero binario: un mondo allergico alla sfumatura e nel quale trionfa un po' ovunque l'alleanza istupidente fra buoni sentimenti e violenza manichea». Perché è proprio in nome delle buone intenzioni che si dice «basta con la grandezza, questo oltraggio alla democrazia. Un nuovo mondo nasce dove tutto è uguale».
La responsabilità più grande

Almeno l'educazione liberale, ormai tramontata, ci aveva dato l'esperienza delle cose belle. «Ora, dare questa esperienza non è più legittimo perché lo stesso processo democratico ci invita a pensare che ognuno può decidere da sé quello che è bello. Una logica di equivalenza si è instaurata. Si parla della cultura degli antichi, della cultura dei giovani, la cultura senza epiteto esiste sempre meno. Questo movimento è un movimento egualitario, democratico», ma, osserva Finkielkraut, la scuola può uscire dalla crisi in cui si trova solo «se preserva delle gerarchie, asimmetrie tra il maestro e l'allievo, ma anche tra quel che è bello e quel che non lo è».  La democrazia che, sino a poco tempo fa, si esplicitava come il diritto alla scuola per tutti, sta subendo ora uno spostamento di campo significativo: «La priorità democratica è di definire la cultura comune non in funzione di quel che i professori possono offrire, ma in funzione di ciò di cui i giovani hanno bisogno per vivere pienamente la loro vita», scrivono due sociologi francesi. Come una lama sottile che va a fondo, osserva Finkielkraut: «Si dice che il capitalismo conduca la danza. Io penso, tra me e me, che sia il democratismo e il "né bambini né adulti; né privato, né pubblico; né cultura né non cultura; né bello né brutto, né arte né kitsch". Tutto è cultura, tutte le differenze si equivalgono. Dunque tutto è simile, nessuna forma si impone, nessuna eminenza sussiste. E l'uguaglianza regna».  Ma la parte più entusiasmante di questo libro di Finkielkraut è quella dove il filosofo raccoglie le sue esperienze personali: «Mi sono reso conto, sin dai miei primi anni di insegnamento che meglio comprendevo un testo, più riuscivo a catturare l'attenzione degli allievi». Un realismo che supera di schianto tutte le tecniche e le strategie pedagogiche: chi insegna sa bene che, quando la materia è saldamente posseduta, non occorre altro. Gli alunni lo avvertono immediatamente. E senza esitazione ascoltano ed elaborano. Ancora Finkielkraut: «Istituire, cominciare, introdurre: si può immaginare responsabilità più gloriosa?». E qui gli adulti sono costretti a tornare su quel certo senso di frustrazione, di cui ci si lamenta continuamente. Quella frustrazione, sembra dire Finkielkraut, altro non è che un depistaggio, perché non si può costruire una scuola e una politica scolastica basate sugli studenti come dovrebbero essere anziché così come sono. E questo è certo, «ma non si saprebbe neanche essere soddisfatti, senza reagire a quel che si è fatto di loro».

La felicità del divenire altro

Il filosofo francese rimette al centro il problema educativo, senza patetismi irragionevoli o allarmi vuoti come bolle di sapone. «Essere insegnanti non è solo un mezzo, è uno scopo, una liberazione, un'apertura, è la felicità del divenire altro, è, come richiama l'etimologia della parola scuola, la forma suprema del piacere. Lo abbiamo dimenticato. In questa dimenticanza, più ancora che nell'incapacità di offrire ai nostri bambini un avvenire privo di angosce, sta - mi sembra - il nostro fallimento più grave. Poiché, a differenza di un'economia mondializzata, questa incapacità ci è interamente imputabile».

 

 
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