Opinioni/Pennac: altro che condotta, serve interesse ed esempio


Repubblica - 7 settembre 2008

Daniel Pennac: "Ma ai ragazzi serve autorità morale non 7 in condotta e grembiule inamidato"

L´intervento dello scrittore francese Daniel Pennac al festival della letteratura di Mantova
ANTONIO GNOLI

MANTOVA - Salta fuori quasi alla fine del suo intervento. Come una palla colorata che rimbalza provocatoria in mezzo alla platea. «Ho sentito dire che i mali odierni della scuola, lo scarso rendimento, il bullismo, la disaffezione, siano imputabili al ‘68. È una boiata infantile, pronunciata da vecchi bacucchi. Ma è soprattutto un modo per sgravarsi dalle proprie responsabilità. Oggi in cattedra non ci va il maggio ‘68, ma professori che devono sapere cos´è la scuola e quali problemi essa ci pone».
Daniel Pennac è netto nel giudizio. Ha insegnato per venticinque anni in una scuola per studenti "difficili". Conosce la trincea, le sue paure, le sue contraddizioni. Scrive una «Fenomenologia del somaro», ma non è un elogio della scuola perfetta bensì una messa in discussione dei sistemi di insegnamento superati del disamore che a volte avvolge la professione dell´insegnante. È un pubblico misto quello che affolla l´intervento di Pennac al Festival della letteratura di mantova, composto da insegnanti, studenti, lettori. Molti dei quali con in mano «Diario di scuola» (edito da Feltrinelli) l´ultima fatica dello scrittore francese.
La scuola è in crisi? La scuola soffre di cadute di autorità? Pennac dice di non conoscere perfettamente la scuola italiana, ma non la vede così diversa da quella francese. Non pensa insomma che i problemi fondamentali siano differenti. Divise e voti in condotta sono solo «forme esteriori dell´autorità» e alla scuola invece serve un´autorità che può essere solo «intellettuale ed esemplare» anche dal punto di vista morale. E infatti il problema più macroscopico è dato dalla concorrenza che l´insegnante deve subire dalla società mercantile e consumistica. Si tratta, osserva Pennac, di tornare alle categorie fondamentali: insegnare a leggere, scrivere, ragionare. Ma come risvegliare l´interesse spento del bambino e dello studente? Pennac ha percorso una via paradossale per giungere nel cuore dei problemi scolastici, si è chiesto cosa significa essere un alunno mediocre.
In un´epoca di numeri uno, di forsennati cacciatori di successo, di competitori estremi, di aspiranti alla fama, Pennac ha scritto di retrovie, di ballerine di fila, di eterni ultimi. Del resto, anche Pennac a scuola era un perdente. Non sappiamo se sia una leggenda o se sia vero ma lui dice che per imparare alle elementari la lettera «a», impiegò un intero anno. Pennac ci parla di qualcosa che riguarda la gran parte dei ragazzi: è la sofferenza del non capire. Si tratta di una sensazione di spaesamento e dolore, di frustrazione e paura, di ira e paralisi. Sentimenti che convivono nella figura dell´alunno disastroso. Gli insegnanti lo hanno bollato come pigro, ottuso, svogliato, i genitori hanno visto in lui il fallimento dei loro sforzi. Eppure questo alunno disastroso, è la dimostrazione di una ricchezza e di una versatilità antropologica con cui Pennac ha inteso fare i conti.
Non è il buonismo deamicisiano che anima le intenzioni dello scrittore. È che nelle pieghe di un disastro, in quella valanga di voti deludenti e di note di biasimo, si cela l´idea che la scuola, salvo poche eccezioni, renda infelici coloro che la frequentano. «Occorrerebbe suscitare curiosità senza trasmettere certezze», dice lo scrittore. Ma ora che si è sdoganato il 7 in condotta e i brutti voti nuovamente piovono sui meno bravi, come fare in modo che i Franti di tutto il mondo diventino i nuovi angeli della conoscenza? Pennac scomoda la parola amore. Si tratta di una parola pesante che non va declinata affettivamente, ed è rivolta soprattutto agli insegnanti. Bisogna amare la materia che si insegna; amare il modo di comunicarla e amare con curiosità antropologica quella tribù di alunni che ogni mattina ci si trova di fronte.

Avvenire - 1 settembre 2008

Lo scrittore sarà protagonista a Mantova
Pennac: io «somaro delle lettere» contro l'accademia

da Parigi
Daniele Zappalà
« Faccio parte di quegli scrittori, non certo rari, che sono stati sospinti verso la scrittura dai propri entusiasmi successivi di lettore». Forse, non tutti gli ammiratori di Daniel Pennac sanno che il celebre autore francese ha passato gran parte della propria vita a mettere in pratica quel 'decalogo del lettore' poi enunciato in Come un romanzo (Feltrinelli). Istigatore instancabile alla lettura, Pennac lo è ancora nella vita di tutti i giorni, ma lo è stato soprattutto nelle vesti d'insegnante di lettere. Ospite al Festival della Letteratura di Mantova, Pennac assisterà allo spettacolo teatrale «Mal di scuola», liberamente ispirato al suo ultimo libro.
In «Diario di scuola» (Feltrinelli), da poco uscito in Italia, lei racconta fra l'altro la sua battaglia personale di professore di liceo contro l'evaporazione del piacere della lettura… «La maggioranza dei miei studenti, spesso in difficoltà, affermavano di non amare più la lettura ed avvertì presto il dovere di riconciliarli coi libri. Ma ho dovuto trovare metodi diversi rispetto a quelli usuali nel sistema scolastico, dove la letteratura è presentata in genere sotto forma medico-legale, cioè con testi preventivamente tranciati e analizzati come su una tavola di dissezione. Occorreva ricondurre gli studenti verso il piacere di sprofondare completamente in un'opera. Presi così l'abitudine di leggere in classe, un'ora la settimana, dei testi interi o solo degli inizi. Ad esempio, i romanzi di Calvino o i racconti di Buzzati».
A proposito di letture, può aprirci la sua personale biblioteca?
«Le mie prime emozioni di lettore sono legate alle Fiabe di Andersen, in particolare al Brutto anatroccolo, col quale m'identificavo come scolaro somaro. Il primo grande entusiasmo dell'adolescenza, verso i 15 anni, fu invece La saga di Gösta Berling, della svedese Selma Lagerlöf, la storia di un pastore rigettato a causa della sua ubriachezza. Poi vennero i romanzieri vittoriani, soprattutto Stevenson, ma anche Dickens e Thomas Hardy. In seguito, verso i 20 anni, venni invaso dai russi, in particolare Dostoevskij, ma anche Lermontov, Cechov, Tolstoj, Gorki.
Ricordo che si trattava di letture segrete e che evitavo gli autori francesi in programma a scuola.
Fra i 20 e i 30 anni, ho scoperto anche la letteratura italiana, a cominciare dal Deserto dei Tartari di Buzzati, che ho riletto spesso.
Ho molto amato anche Pirandello e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, cercando d'immaginare nella traduzione francese i giochi linguistici del romanzo. Il mio rapporto con la letteratura francese è cominciato coi moralisti del Seicento e Settecento. Mi sono appassionato per La Bruyère, prima di passare a Montesquieu, La Rochefoucauld e Voltaire. Un'altra lettura fondamentale per me fu quella di Controcorrente di Huysmans. Verso i 40 anni, sono approdato tardivamente al noir americano, innamorandomi di Chandler, compresa la sua corrispondenza. Fra gli autori che ho più amato c'è anche l'americano Cormac McCarthy, in particolare per la sua Trilogia della frontiera».
Lei parla di entusiasmo nella lettura. È un'emozione dello stesso ordine che la guida nella scrittura? O si tratta invece della ricerca di un ideale narrativo?
«Mi sono posto il problema più o meno da ogni angolo e amo sostenere che scrivo per ragioni di salute. Direi che si tratta di una necessità praticamente d'ordine organico. In un dato momento, si espande un appetito di scrittura che occorre presto colmare per ritrovarsi sazio almeno per qualche tempo. Non so nulla sulla natura di quest'appetito, ma non si tratta certamente della volontà di convincere qualcuno su qualcosa, dato che resto personalmente sempre invaso dai dubbi e non amo i dogmatismi. In qualche modo, si tratta di un bisogno quasi fisico d'immersione nella lingua. Mi sento come una balena in mezzo al plancton, ma con le parole al posto del plancton. La mia febbre di scrittura si gioca forse al momento della cernita di questo plancton».
Lei ha parlato in passato della fortuna di non essere uno 'scrittore imprenditore'. Cosa intende?
«Mi riferisco alla fortuna di aver schivato, anche grazie alla mia professione d'insegnante, i giochi d'influenze, le frasi di corridoio, le relazioni di potere che spesso attraversano il mondo della cultura. Ho sempre evitato di entrare nella letteratura intesa come istituzione, cioè nella critica letteraria, nelle giurie dei premi o nelle accademie letterarie. Forse perché ho sempre temuto di alienare per queste vie la mia libertà di scrittore».
Come scrittore e lettore, cosa pensa del fenomeno editoriale dei best seller 'prefabbricati'?
«Questa 'letteratura industriale', come amo definirla, mi è sempre parsa interessante in quanto ripropone spesso i codici arcaici della nostra modernità. Un po' come le narrazioni arcaiche in senso proprio, condivise in modo naturale da un gran numero di persone. Coi miei studenti, sono partito spesso da questa letteratura per passare poi dallo stereotipo al tipo letterario. Ad esempio, partendo dalla narrazione eternamente riproposta del medico impeccabile che s'innamora dell'infermiera meritevole per poi passare al Dottor Zivago di Pasternak.
Questo confronto fra stereotipi letterari e personaggi letterari è molto istruttivo. In ogni caso, resto convinto che l'industria dei best seller non potrà mai invadere l'intero spazio del mercato letterario».

«La mia fortuna è d'aver evitato i giochi di potere della letteratura.
I miei autori preferiti? Calvino e Buzzati, ma anche i moralisti francesi e Huysmans»

 
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