Ricerche/Docenti: no ai sindacati, si alla carriera


 

Pubblichiamo una rassegna stampa su tre ricerche presentate in questi giorni sulla professione docente, giunte tutte praticamente alle stesse conclusioni.

 

ANP: si alla carriera. Il sindacato non ci ha aiutati

Sono stati presentati oggi, nella conferenza stampa svoltasi presso la sede nazionale dell'Anp, i risultati della ricerca "La professione docente: valore e rappresentanza", curata da Nomisma per conto dell'Anp. In allegato è disponibile il comunicato stampa diramato al termine della conferenza.
L'indagine fornisce un quadro dettagliato delle opinioni dei docenti riguardo le attuali problematiche professionali e circa la capacità dei sindacati di farsi interpreti delle istanze della categoria.
Tra i dati rilevati dalla ricerca, ne spiccano alcuni di grande interesse:

·      incremento retributivo (78,2%), recupero del prestigio sociale (50,9%) e deburocratizzazione del lavoro (48,9%) sono le principali aspettative della maggioranza dei docenti;

·      il 66% dei docenti è favorevole all'introduzione di un sistema di carriera basato sul merito;

·      il 44,2% del campione ritiene necessaria l'introduzione di un sistema di valutazione delle prestazioni basato sui risultati, un 23% si dice incerto;

·      il 57,3% è favorevole all'introduzione di meccanismi di carriera per differenziare la retribuzione;

·      la necessità di rafforzare la collaborazione tra dirigenti e docenti è indicata dall'86,5%;

·      il 49% ritiene che il sindacato non sia in grado di promuovere efficacemente iniziative di valorizzazione della professione, secondo 43,5% lo fa ma con fatica;

·      secondo il 33,3% la principale attività del sindacato è la sottoscrizione del contratto nazionale; il 54,9% indica come attività che il sindacato dovrebbe svolgere prioritariamente nel futuro la valorizzazione della professione;

·      il 55,4% ritiene che il sindacato non abbia conseguito alcun risultato utile negli ultimi anni;

·      la percentuale degli insoddisfatti circa la capacità del sindacato di rappresentare le esigenze dei docenti è del 66,8%; l'86,7% ritiene necessari modelli di rappresentanza diversi da quelli attuali;

·      la formazione professionale (54%) e l'informazione (48,8%) sono i servizi che i docenti chiedono al sindacato di potenziare.

 

 

E i prof chiedono la carriera

Da una ricerca Gilda: favorevole l’87% della categoria

di Emanuela Micucci

Italia Oggi – 3 febbraio 2009

L‘87% dei docenti chiede la carriera e il 66% di essere valutato, meglio se da esperti esterni. E poi vogliono un vero contratto ad hoc che valorizzi la categoria. Lo chiede a gran voce il 63% dei doceuti italiani intervistati dalla Swg per conto della Gilda Insegnati. Ma le maggiori organizzazioni sindacali fanno orecchie da mercante. Cigl, Cisl e Snals, infatti, nell’ultima audizione in commissione cultura della Camera, la scorsa settimana, hanno ribadito la necessità di un contratto scuola unico. Eppure il campione rappresentativo di 400 docenti, di ruolo e precari, della ricerca “Gli insegnati e i problemi della categoria” (www.ageom.it) hanno le idee chiare. Meglio la separazione delle aree contrattuali tra docenti e non docenti perché sono figure giuridiche diverse (83%) e perché si riconoscerebbe il proprio ruolo istituzionale (34%).

Chi è contrario teme una minore compattezza della categoria (61%) e una perdita di potere contrattuale (35%). A gradire la proposta soprattutto coloro che si collocano nel centro-destra. Tuttavia 1 insegnante su 5 ritiene che la separazione non cambierebbe molto le cose. La metà ammette di essere poco informata sul tema (in prevalenza tra i docenti della materna), nonostante il 50% dei docenti sia iscritta al sindacato. La richiesta di 2/3 degli insegnati di creare un’area contrattuale specifica è un risultato politico per noi molto importante», commenta Rino di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda Insegnati, «chiediamo al governo un impegno in tal senso perché dare maggiore considerazione sociale ai docenti non costa nulla». L’86% dei docenti, in particolare i laureati, è favorevole all’avanzamento di carriera e il 66% ritiene che sia necessario introdurre un sistema di valutazione degli insegnati ad hoc. Il merito supera l’anzianità, ferma al 20%, come criterio di progressione. Per il 37% infatti occorrerebbe basarsi sulla valutazione del lavoro svolto in classe per il 28% sui titoli di studio, per il 13% su concorsi interni. La formula migliore è l’osservazione di un esperto esterno (40%) e dei risultati conseguiti dagli studenti (29%). Maggiore resistenze per l’esame diretto di colleghi docenti (15%), dirigente scolastico (19%), alunni, genitori. Cambia, dunque, la sensibilità della categoria. La ricerca tenta un bilancio dei risultati dell’autonomia scolastica sulla didattica. Piuttosto tiepidi. Gli aspetti che funzionano meglio riguardano il calendario scolastico (20%) e l’orario (18%) i meno efficaci la flessibilità dell’impegno degli insegnati (21%) e l’autonomia di ricerca (19%). Basse retribuzioni, scarsi finanziamenti, eccessiva burocrazia sono i maggiori problemi. Con delle differenze in base al grado di scuole in cui si insegna: alla materna pesano le responsabilità, alle medie e alle superiori la mancanza di carriera.

 

 

Fondazione agnelli: Si è ingrigito il prof

di Roberta Carlini – L’Espresso  5 febbraio 2009

Salgono in cattedra sempre più tardi. Sono i più anziani d'Europa. Per i docenti italiani è allarme invecchiamento. E l'esercito dei precari blocca i nuovi ingressi

Un'aula scolastica

Lucia insegna inglese e l'anno scorso ha avuto per la prima volta studenti davvero 'suoi': finalmente in ruolo, quarantacinquenne, trent'anni di distanza dai ragazzi seduti di fronte a lei. Sua madre Antonietta, adesso settantenne, era salita in cattedra a 24 anni: tra la neoassunta professoressa di storia e il più giovane dei suoi studenti c'erano dieci anni di differenza. Di madre in figlia, la scuola italiana ha messo i capelli grigi, se non bianchi. L'età media dei docenti all'ingresso è quasi raddoppiata, e abbiamo i prof più vecchi d'Europa. Una situazione aggravata dall'ultima infornata di docenti, i 50 mila assunti col piano dell'ex ministro Giuseppe Fioroni. E bloccata per il futuro, con le scuole di specializzazione chiuse, i concorsi aboliti e le antiche graduatorie dei precari sigillate. Una ipotetica nipote di Antonietta, se avesse oggi 24 anni, non potrebbe neanche bussare alle porte della scuola. "Così, stiamo perdendo una generazione di insegnanti", lancia l'allarme la Fondazione Agnelli, che ha fotografato il fenomeno e presenterà l'11 febbraio a Roma il 'Rapporto sulla scuola 2009'.
Come Lucia, sono state in tante le ultraquarantenni approdate in cattedra con il piano dei 50 mila. In gran parte donne, con alle spalle una lunga permanenza nelle graduatorie scolastiche che da decenni sono la fonte di reclutamento prevalente. Anzi unica, visto che dal '99 non si bandiscono più concorsi nelle scuole. Da allora, l'età media dei docenti di ruolo italiani è cresciuta di quasi quattro anni: adesso è sui 50. Con lo sbarco dei 50 mila non sono arrivate forze fresche, tutt'altro. Il 'Rapporto' mette sotto la lente le new entry, con una ricerca condotta in Piemonte, Emilia Romagna e Puglia (in totale circa 10 mila neoassunti, in pratica uno su cinque). Ne viene fuori un'età media di ingresso di 41 anni e due mesi: vale a dire che i docenti del 2008 hanno ottenuto la cattedra con quasi vent'anni di ritardo rispetto ai loro colleghi degli anni '60. Ma non è tutto. Dentro le medie, come sempre, c'è di tutto. Anche un buon 13,7 per cento di neoassunti tra i 50 e i 60 anni, e un 1,2 che sta addirittura al di sopra dei 60: dunque potrebbe essere andato in pensione subito dopo essere entrato in ruolo. Mentre i neoassunti con meno di 30 anni sono solo il 2,5 per cento del totale.
Come si spiega questo enorme balzo in avanti dell'età media? "Si è creato un imbuto per entrare nella scuola, e questo rallenta tutto", dice Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli. Lo confermano i numeri sugli anni di precariato dei neoassunti: 10,7 in media, con un crescendo dalla materna alle superiori. Qui, il 54,6 per cento dei docenti assunti ha più di dieci anni di servizio alle spalle, proviene dal precariato lunghissimo delle graduatorie e delle supplenze. I contenitori delle infinite liste d'attesa, fatti come un recipiente con due tappi: con il tappo A pronto a riaprirsi da un lato man mano che le immissioni in ruolo lo svuotavano dal tappo B.

È successo anche nell'anno della fuoriuscita dei 50 mila, compensati subito da nuovi ingressi, finché l'allora ministro Fioroni non ha chiuso il tappo A, e la lista d'attesa è diventata 'a esaurimento'. Ciononostante, ancora adesso è assai numerosa: è un esercito di 336.337 persone. Va detto che tra queste oltre 70 mila sono già docenti di ruolo, iscritti nelle graduatorie solo perché vogliono cambiare materia o scuola: e però, anche senza considerare questi ultimi, abbiamo comunque 260 mila precari in lista d'attesa, età media 37 anni. È vero che sono alle viste un bel numero di pensionamenti (300 mila in dieci anni, prevede il 'Rapporto'), ma con i tagli delle ore di lezione, il maestro unico e le eventuali nuove regole sulle pensioni, c'è da scommettere che prima che questo esercito entri in ruolo la sua età media si sarà alzata di un bel po'. Secondo stime ministeriali, i tempi d'attesa per insegnare materie letterarie alle superiori sono di nove anni, mentre per lingue straniere sono addirittura 21. Fanno eccezione solo le graduatorie delle materie scientifiche al Nord, che sono già quasi esaurite (e in assenza di concorsi si comincerà ad assumere supplenti, ricominciando ad alimentare il precariato).

Un bel problema, per una scuola che è già la più vecchia d'Europa. E non è l'unico. "Tra quei precari in attesa di conferma in ruolo c'è di tutto", dice Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, "chi ha fatto un concorso e chi no, chi viene dai più diversi percorsi. Tutti si aspettano più o meno a ragione l'assunzione. Ma se entrano tutti in ruolo, per i prossimi 15-20 anni non entra più nessun altro". Cioè non entrano i giovani laureati o laureandi che vorrebbero insegnare: non a caso sono state chiuse le Siss, le scuole di specializzazione post-laurea che costituivano uno dei canali per entrare nell'insegnamento. Un blocco totale "che ci farebbe perdere una generazione intera di insegnanti", dice Gavosto. E allora, che fare? Gli esperti della Fondazione Agnelli ipotizzano un doppio canale, che da un lato selezioni tra i precari in lista d'attesa, dall'altro riapra le porte della scuola ai neolaureati. Non solo per abbassare l'età media, ma anche per introdurre un meccanismo di selezione basato sul merito e non sull'anzianità. A questo proposito, le conclusioni della ricerca sulle new entry sono lette con un certo ottimismo: "Sono molto arrabbiati per il lungo precariato, ma anche molto motivati", spiega Molina, "e per il 30-40 per cento sono favorevoli all'introduzione di meccanismi di valutazione del loro lavoro". Selezione, valutazione, incentivi, differenziazione di carriere.
Alternative a quelle che Anna Armone, un'altra delle esperte che hanno collaborato al 'Rapporto', chiama 'lo schiacciamento': schiacciati dal precariato, ma anche dall'assenza di valutazione, di doveri ("Persino l'aggiornamento professionale non è obbligatorio") e da adempimenti burocratici in continua mutazione. Ma la valutazione non è un pranzo di gala, soprattutto quando scendono risorse e posti da mettere in palio: "È chiaro che, in quel caso, vanno valutati anche i dirigenti", dice Armone, "ma non è ancora chiaro se sarà lo Stato o le regioni a fare la valutazione, certo è che a queste ultime sono passati poteri e competenze, per cui potremo avere salari diversi tra i docenti da regione a regione". Mentre una proposta di legge leghista già si spinge oltre: albi e concorsi regionali, con obbligo di residenza.

(05 febbraio 2009)

 

 

 
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