L’autonomia che vogliamo: governo, liberalizzazioni, reclutamento
Marco Zelioli, dirigente scolastico di I.C., Milano
1. Il punto di partenza rimane il documento della CdO Una scuola che parla al futuro (giugno 2009), che contiene delle indicazioni di fondo tuttora validissime. Ad esempio:
1. “Il passaggio ad un sistema pubblico di istruzione meno ingessato e quindi più libero, autenticamente paritario e capace di offrire percorsi personalizzati, è una necessità: lo chiedono le famiglie, lo chiedono i giovani, lo chiede l’Europa. Lo chiedono, soprattutto, le esperienze di scuola autonoma e di qualità che già sono in atto e che devono essere sostenute affinché questi esempi e modelli possano diffondersi e diventare praticabili.” (Introduzione di Bernhard Scholz– p.3)
2. “Lo Stato è chiamato a promuovere sussidiariamente l’esistenza di tutti i tentativi nei quali l’idea di persona si esprime in una responsabilità educativa e in un servizio rivolto alla comunità.
Come previsto nella Costituzione Italiana e così come accade nella maggior parte dei Paesi europei ed in gran parte dello scenario internazionale, lo Stato si limita a indicare le norme fondamentali dell’istruzione e i livelli essenziali degli apprendimenti; spetta poi agli istituti scolastici autonomi e agli insegnanti, in dialogo con le famiglie, il compito di tracciare i piani di studio, i curricula e il raccordo con il mondo del lavoro.” (Scuola: l’avventura della conoscenza – pp.5-6)
3. “L’assetto istituzionale, ordinamentale, culturale e professionale della scuola italiana è ancora segnato dal controllo statale centralistico del sistema di istruzione che ha avuto inizio a metà del secolo XIX e si è consolidato nel corso del secolo XX.
Il sistema scolastico italiano presenta aperte contraddizioni interne alla sua architettura istituzionale: l’impostazione del Ministero della Istruzione, ma anche certe forme di neo-centralismo regionale, contrastano con talune novità come l’autonomia degli istituti scolastici, la legge sulla parità scolastica, le modifiche al titolo V della Costituzione.” (La scuola italiana – p.6)
4. “È necessario dare con urgenza alle istituzioni scolastiche autonome e libere tutti gli strumenti per affrontare, con le comunità locali, le sfide educative e dell’innovazione: qui è l’origine del vero cambiamento. Le direzioni dei provvedimenti da prendere sono le seguenti:
1. piena autonomia degli istituti scolastici e libertà di scelta educativa per le famiglie
2. docenti e dirigenti come veri professionisti
3. percorsi di studio flessibili e personalizzati
4. ordinamenti in linea con il principio di sussidiarietà
5. valutazione esterna delle scuole
6. abolizione del valore legale del titolo di studio” (Le nostre proposte – p.10)
2. Punti focali che si propone di sostenere
PIENA AUTONOMIA E PARITÀ SCOLASTICA
Gli istituti sono veramente autonomi quando sono in grado di assumere decisioni, anche economiche, nei limiti della legge o nel quadro generale normativo dell’istruzione – come avviene generalmente in Europa. La “realizzazione di una vera sussidiarietà che sostenga a tutti i livelli i soggetti operanti nella società civile e ne valorizzi le risorse” non è una “pretesa”, ma una necessità.
Solo una “autonomia statutaria” può consentire “alle scuole che lo vogliano, anche attraverso progetti pilota o fasi transitorie sperimentali, di passare al regime di Fondazioni (persone giuridiche di diritto pubblico)” (Autonomia degli istituti scolastici e libertà di scelta educativa per le famiglie – p.10).
Questo è fondamentale. Non per niente, nel documento DiSAL alla Camera sugli organi collegiali (dicembre 2004) si legge “riteniamo che la scuola appartenga non agli organi decentrati dell'amministrazione statale ma al mandato sociale delle famiglie e delle comunità locali”.
La gestione migliore possibile dell’esistente, oltre che essere senza prospettive, è frustrante. Se si vuole ottenere qualcosa bisogna puntare in alto, immaginando la gestione delle scuole da parte di un “Consiglio di Amministrazione o di Indirizzo come unico organo di gestione della scuola statale, nel quale possono entrare enti pubblici e privati, Fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni non profit, Enti locali, le imprese e qualsiasi altro soggetto che sia interessato all’educazione dei ragazzi”, con potere di assumere il dirigente e i docenti e regolare con essi il rapporto di lavoro “nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e dei diritti sindacali, tenendo conto delle risultanze oggettive del sistema di valutazione esterna delle scuole”.
E’ un elementare principio di equità (non di egualitarismo) sostenere che ”le risorse finanziarie pubbliche attribuite dallo Stato o dall’Ente locale alle istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione accreditate” siano “erogate sulla base del criterio principale della quota capitaria, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica” (idem, p.11). Non bisogna tornare indietro rispetto alla Legge 62/2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”) che “definisce il sistema nazionale di istruzione come costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie e degli Enti locali. Le scuole non statali, che svolgono un servizio pubblico, sono riconosciute parte essenziale del sistema nazionale di istruzione integrato”, e va loro dato il “giusto” riconoscimento economico (idem, p.11).
Infine, solo con un’effettiva libertà di spesa (entro regole certe e controllate – si capisce) non è presuntuoso proporre che si rispetti “tipicità” della scuola dell’infanzia, “anche nella didattica, in rapporto alla forma del pensiero e dello sviluppo globale del bambino”; che nella scuola primaria la “effettiva pluralità delle opzioni relative all’orario” si sposi alla “piena autonomia di gestione dell’organico sul modello didattico scelto dalle scuole”; che per la scuola media si rifletta seriamente, essendo “il momento in cui si svolge la prima riflessione sull’esperienza” degli adolescenti, e perciò essa deve corrispondere “con flessibilità ed efficacia al suo compito di introdurre allo studio delle discipline e di orientare lo studente nelle scelte successive” (idem, Ordinamenti in linea col principio di sussidiarietà, p.14).
VALTUAZIONE DI SISTEMA E ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO
Se “le istituzioni scolastiche autonome sono responsabili della gestione dei risultati degli alunni, sia in termini di miglioramento dei livelli di apprendimento, sia di riduzione della dispersione scolastica” (idem, Autonomia degli istituti scolastici e libertà di scelta educativa per le famiglie – p.11), ne consegue quasi automaticamente la duplice richiesta di
-Valutazione esterna delle scuole (idem, p.15):
~ sui risultati conseguiti “in termini di incremento degli apprendimenti degli studenti, più che sulla congruenza dei processi”;
~ periodicamente, scuola per scuola, da un ente “terzo” (individuato per necessità pratica nell’INValSI) e nei momenti di ingresso e di uscita dai diversi livelli di scuola;
~ con l’indicazione, in un rapporto nazionale, del “valore aggiunto realizzato da ogni singola scuola”.
- Abolizione del valore legale del titolo di studio (idem, pp.15-16) che non corrisponde ad un “valore reale, cioè alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità effettivamente conquistate”. L’abolizione del valore legale è una “condizione, certo non sufficiente ma necessaria, per una reale qualità degli studi e per una valutazione e una certificazione legate a valori più obiettivi”.
3. Reclutamento
(tralasciando la questione dei nuovi Dirigenti, perché la procedura è avviata)
La richiesta di fondo resta che alla scuola sia data più voce in capitolo sulla valutazione “in ingresso” dei nuovi docenti nel periodo del TFA (Tirocinio Formativo Attivo).
Nel documento Audizione Commissione VII Istruzione – Camera dei Deputati - Schema Formazione iniziale dei docenti (maggio 2010) si chiedeva di:
1. agganciare la formazione iniziale con la scuola reale
2. non scoraggiare l'accesso all’insegnamento nella scuola dell'infanzia e primaria
3. superare nella sostanza l'Università-centrismo per delineare una formazione dove l’Università riconosca a pari grado il ruolo delle Istituzioni scolastiche autonome
4. alla crescita della preparazione disciplinare affiancare la preparazione didattica, metodologica e relazionale
5. investire adeguatamente nello sviluppo della professione docente
e si sottolineava “l’eccessiva lunghezza della formazione per la scuola dell’infanzia e primaria”.
Di fronte alle scelte ministeriali ci dobbiamo scoraggiare o dobbiamo insistere in spe contra spem?
P.S. - Nel documento Le proposte DiSAL per Dirigenza, contratto e riforme, all’indomani del primo incontro col Ministro Moratti (2002), si rivendicava la possibilità che il “preside” mantenesse un contatto diretto con la vita scolastica quotidiana, con le classi: “In quasi tutti i sistemi scolastici europei (con unica eccezione in Francia) il capo di istituto mantiene un diretto rapporto con l'attività di insegnamento”. Nello stesso documento si diceva: ”Va rivisto il dimensionamento delle scuole, distinguendo i limiti della scuola materna, elementare e media inferiore, dove le relazioni educative non devono essere sacrificate alla struttura, da quelli della superiore. Vanno comunque eliminate situazioni che superino i 1000 studenti, contrarie ad ogni aspetto seriamente formativo e culturale”.
1. A chi risponde la scuola?
2. Concorsi di “Istituto o di Reti di Istituti” vs “chiamata da Albo regionale”
Nella formazione deve avere maggior peso il parere delle scuole presso le quali gli aspiranti insegnanti sono stati messi a lavorare nell'anno di tirocinio (sentendo anche il parere della “utenza finale”)
3. Seguire o no la strada delle “Associazioni di scuole autonome”?
A Torino c,è e funziona (nata da ITS, quindi proiettata alle sponsorizzazioni ed alla progettazione di percorsi formativi collegati all'esterno (stages, ecc)
Nel Lazio c'è, ma affronta i problemi in modo troppo “partitico”.
A Milano l'ASAM, idem...
In ER sono nate per sollecitazione degli EELL, che volevano “pochi referenti qualificati”; ma le associazioni del genere sono “fondate su un nulla giuridico”, tant,è che poi si sono “dovute” trasformare nell'unica forma giuridica oggi prevista (dal DPR 275/1999), cioé le “reti di scuole”.
Ma se la sussidiarietà ha un valore, e ci troviamo di fronte ad un neo-centralismo regionale o perfino provinciale, forse vale la pena partecipare. Dobbiamo valutare se possa essere interlocutore valido o no, in prospettiva e non in base ai bislacchi tentativi odierni.
Se non c'è una base comune di orientamenti, però, anche la sola collaborazione è difficile, figurarsi la definizione di una linea comune.
Ma sono “associazioni di presidi” o “associazioni di scuole”? da chi ricevono il “mandato di rappresentanza”?
E' possibile che una “rappresentanza unica” possa prescindere da una “concordanza di indirizzi educativi”?
Oggi come oggi qualsiasi istituzione scolastica è in balìa di chi ha il governo degli Enti Locali. Si tratta forse di non soccombrere, proponendo un modello di “Associazione di scuola autonome” costituita per mantenere libera l'autonomia scolastica, e non per “collocare” delle persone in posti “in vista”.
Sono necessarie le reti di scuole per la realizzazione di un “mandato educativo condiviso”.
NO ALL'USO “STRUMENTALE” DELLE RETI: dare un contributo del 5% alla scuola-capofila per la distribuzione dei fondi regionali per attuare la “alternanza scuola/lavoro” (= 210.000 €).
NO ALLE FORZATURE: nessuna “associazione unica”, ma “pluralismo associativo”.
4. Che il rapporto Università/scuola sia “paritario” per la valutazione del TFA.
5. NO ALLA “VERTICALIZZAZIONE FORZATA”, ma solo laddove le situazioni locali lo consentano.
NO AL NUMERO COME UNICO PARAMETRO DI RIFERIMENTO