Pubblicato il 23 Giugno 2025.

Fonte: Orizzonte scuola

Articolo di Bruno Lorenzo Castrovinci

In tempi di riforme, piani nazionali, fondi europei e innovazione digitale, è forte la tentazione di pensare che il miglioramento dell’istruzione passi solo dal rinnovamento degli spazi o dall’acquisto di nuove tecnologie. Si investe in ambienti colorati, dispositivi all’avanguardia, infrastrutture intelligenti, credendo che l’efficienza coincida con la qualità educativa. Ma c’è una domanda più profonda, più urgente, che dobbiamo imparare a porci: può davvero cambiare la scuola, se non cambia il nostro modo di guardarla?

Il rischio più grande non è la scarsità di mezzi, ma la cecità dello sguardo. In un mondo che corre verso l’efficienza, il dato e la prestazione, rischiamo di dimenticare che educare è, prima di tutto, un atto umano, relazionale, emotivo. Ciò che conta davvero non è ciò che vediamo, ma comelo vediamo: se lo consideriamo meritevole di tempo, di rispetto, di cura. La rivoluzione che serve non riguarda solo le strutture, ma lo sguardo: quello degli insegnanti, degli studenti, dei dirigenti, delle famiglie.

Perché è solo attraverso uno sguardo nuovo che possiamo riconoscere il valore di ciò che troppo spesso consideriamo obsoleto come la presenza viva in aula, l’ascolto che non interrompe, il tempo lento che consente la riflessione, la parola che accoglie e lascia spazio, il silenzio che non è vuoto, ma grembo del pensiero. Una scuola così esiste già, silenziosa, quotidiana, resistente e vive nelle mani di chi guarda ancora con meraviglia ciò che accade dentro una classe.

Il cuore del cambiamento non è la struttura, ma la coscienza

In un tempo in cui tutto viene misurato, progettato, riqualificato, anche la scuola rischia di essere ridotta a un contenitore da rinnovare, dimenticando che ciò che fa la differenza non è mai l’edificio, ma le persone che lo abitano. Un’aula modernissima, piena di dispositivi elettronici, algoritmi di tracciamento e intelligenza artificiale applicata alla didattica non vale nulla se, al centro, non vi è una relazione educativa autentica. Le neuroscienze cognitive, da Stanislas Dehaene a Daniel Siegel, ci ricordano che l’apprendimento è un processo dinamico, relazionale e affettivo, che coinvolge in modo integrato il corpo, la mente e le emozioni.

Non si attiva perché l’aula è luminosa o perché i banchi sono a rotelle, ma quando il cervello si sente al sicuro, accolto, valorizzato. L’ambiente fisico ha una funzione solo se è supportato da un ambiente relazionale e affettivo altrettanto accogliente. Il ruolo dell’insegnante si trasforma da trasmettitore di informazioni a facilitatore di significati, regista dell’esperienza, architetto della motivazione. Egli non è un facilitatore di contenuti, ma un attivatore di senso, un catalizzatore di curiosità, un allenatore di pensiero critico.

Allora il cambiamento reale non parte da riforme strutturali, ma da una presa di coscienza, da uno sguardo nuovo, più profondo, più umano, più libero. Uno sguardo capace di cogliere la complessità del processo educativo, di assumersi la responsabilità di una scuola che accompagna, ascolta e forma cittadini pensanti, non solo studenti valutati. Questo cambiamento non si misura in dati ma in presenze autentiche, in parole che accolgono, in relazioni che costruiscono senso e appartenenza.

La retorica del nuovo e il bisogno di autenticità

Abbiamo sentito parlare mille volte di scuola nuova, digitale, moderna, smart. Ci vengono proposte riforme dal linguaggio accattivante, ricche di promesse tecnologiche e parole come “innovazione”, “futuro”, “intelligenza artificiale”. Ma l’autenticità non si progetta nei bandi né si installa con un software. Si costruisce giorno per giorno nel modo in cui ci si rivolge agli studenti, nella capacità di ascoltare le loro fragilità, nel tempo dedicato alla cura del gruppo classe, nel riconoscere la loro unicità anche dietro una maschera di apparente disinteresse.

Un registro elettronico all’avanguardia, un’app per la didattica, una piattaforma di apprendimento digitale non cambiano la qualità dell’insegnamento se dietro quello schermo resta una didattica trasmissiva, fredda, disincarnata. È l’anima che manca, non l’apparato. Al contrario, un docente appassionato può trasformare anche la più semplice lezione frontale, su una pagina di libro spiegata con la voce, in un momento di apertura, in un’occasione per porre domande vere, per far vibrare la classe, per generare senso.

La scuola nuova, se non accompagnata da uno sguardo nuovo, rischia di restare una facciata decorata, esteticamente impeccabile ma emotivamente sterile. Il cambiamento autentico non sta nell’etichetta che si dà alla scuola, ma nella capacità delle persone che la vivono di renderla viva, significativa, coraggiosa.

Il sistema limbico, la porta dell’apprendimento

Le neuroscienze lo dimostrano con chiarezza: senza emozione non c’è apprendimento. A livello biologico, il sistema limbico, la parte più profonda, primitiva e reattiva del cervello, è il primo a essere coinvolto quando riceviamo un’informazione. Questo sistema include strutture fondamentali come l’amigdala, l’ippocampo e l’ipotalamo, che regolano la memoria, la motivazione, il senso del pericolo e l’elaborazione delle emozioni.

Solo se l’informazione suscita una risonanza affettiva significativa, che si tratti di stupore, interesse, paura, gioia o coinvolgimento empatico, essa riesce a superare la “dogana emozionale” rappresentata dall’amigdala e viene poi indirizzata alla corteccia prefrontale. È in questa zona, evolutivamente più recente, che risiedono le funzioni cognitive superiori come il pensiero logico, la pianificazione, la memoria di lavoro, la presa di decisione e l’autoriflessione.

Se lo stimolo è percepito come irrilevante, monotono, impersonale o ansiogeno, viene semplicemente bloccato o espulso dal sistema limbico, impedendo così l’attivazione della corteccia. In altre parole, il cervello decide cosa vale la pena apprendere in base all’intensità emotiva che quello stimolo genera. Il sistema limbico agisce, quindi, come una soglia biologica e affettiva poichè filtra gli stimoli e li trasmette alla corteccia solo quando attivano curiosità, sorpresa, senso di sfida o connessione interpersonale.

Dal sistema limbico alla corteccia: come l’emozione accende il pensiero

Quando una stimolazione emotiva positiva o coinvolgente viene captata dal sistema limbico, si attiva un circuito neurobiologico complesso e sinergico che innesca una vera e propria cascata di attivazioni neuronali. Il sistema limbico è, infatti, la sede primaria dell’elaborazione emotiva, e svolge un ruolo chiave nell’attribuzione di valore agli stimoli. Al suo interno, l’amigdala agisce come una sorta di radar affettivo che scansiona l’ambiente, valuta l’importanza dello stimolo percepito e ne determina la rilevanza soggettiva. Se lo stimolo è ritenuto significativo, perché genera stupore, piacere, interesse o una forma di tensione positiva, l’amigdala comunica con l’ippocampo, responsabile della formazione e consolidamento della memoria a lungo termine, e contemporaneamente invia segnali alla corteccia prefrontale.

Quest’ultima è la sede delle funzioni esecutive superiori: l’attenzione selettiva, la pianificazione, l’analisi logica, il controllo degli impulsi, la presa di decisioni. Ma la corteccia si attiva solo se riceve stimoli sufficientemente carichi di senso, di energia emotiva. Senza un adeguato grado di coinvolgimento, essa resta inattiva o lavora in modo meccanico, riducendo l’apprendimento a una memorizzazione sterile e temporanea. Le emozioni agiscono quindi come carburante per l’accensione dei processi cognitivi poiché, in loro assenza, il cervello non ritiene utile dedicare risorse a quell’informazione.

Educare alla consapevolezza emotiva, dunque, significa potenziare la capacità di pensare. Significa creare contesti in cui le emozioni possano essere riconosciute, accolte e trasformate in stimoli per la riflessione. L’intelligenza emotiva non è alternativa all’intelligenza logica, ma ne è la condizione di possibilità. Solo ciò che tocca il cuore riesce a illuminare la mente.

Conclusione, una rivoluzione silenziosa comincia dallo sguardo

È facile parlare di innovazione, più difficile è riconoscere la dignità del quotidiano. Eppure, è proprio lì, nel cuore semplice e silenzioso della routine scolastica, che può accadere la vera rivoluzione educativa. Una rivoluzione che non fa rumore ma lascia tracce profonde in uno sguardo che si posa su chi è in difficoltà senza giudicare, in una parola che rompe il silenzio dell’indifferenza, in una relazione che restituisce senso al fare scuola.

Non ci serve una scuola nuova nel senso dell’ennesima riforma o della ristrutturazione edilizia, anche se sono necessari, ci serve una visione nuova, più ampia e più umana. Ci serve uno sguardo capace di leggere il non detto, di vedere l’invisibile, di ascoltare anche ciò che non viene espresso. Uno sguardo che abita la scuola non come un luogo da correggere ma da comprendere, da curare, da vivere.

Solo così potremo costruire una scuola più giusta, più viva, più umana, una scuola che non ha paura della complessità, che si lascia interrogare, che si mette in discussione. E forse, un domani, potremo finalmente accorgerci che tutto ciò che cercavamo, senso, motivazione, appartenenza, era già davanti a noi. Ci bastava imparare a vederlo davvero.

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