Fonte: www.centroculturaledimilano.it del17 gennaio 2024
Articolo di di Paolo Covassi
Secondo un recente rapporto dell’Ocse un italiano su tre rientra nella categoria degli analfabeti funzionali. L’analfabetismo funzionale impedisce a una persona di leggere, scrivere e far calcolo in maniera elementare e ordinaria: ne consegue che l’analfabeta funzionale non è in grado di intervenire attivamente nella società. Di conseguenza stenta a rapportarsi con la complessità dei fenomeni culturali, sociali, politici e civili, avendo di essi una comprensione soltanto approssimativa: non riesce a capire un articolo di giornale, riassumere un testo e men che meno ad appassionarsi a qualsivoglia forma culturale e artistica. Problema assai serio. Interviene un prof di scuola superiore alle prese in classe con lo spinoso argomento
Qualche anno fa si era sparsa la voce che il punto vendita di una famosa catena di supermercati, da sempre presente nella nostra città, avrebbe chiuso, dal momento che ne era stato realizzato uno più grande nella città vicina. La voce si diffuse talmente che il direttore del punto vendita pensò bene di affiggere dei cartelli proprio per smentire tali voci. Mentre mi avvio con il mio carrello a fare la spesa vedo due signori di una certa età davanti a uno di questi cartelli che recitava: “Si comunica alla spettabile clientela che le voci relative alla chiusura di questo punto vendita sono destituite di qualsiasi fondamento”. Mentre passo sento uno dei due signori che dice all’altro: “Visto, te l’ho detto che chiude!”.
Una bic blu basta?
Racconto questo episodio a una delle mie classi per spiegare alcuni aspetti del processo comunicativo e, non mi aspettavo che si sganasciassero dalle risate, ma almeno che capissero il paradosso… Imbarazzato, provo a spiegare dove stava l’aspetto “buffo” della situazione, ma gli sguardi che ricevo sono vivaci come quelli delle cernie sul banco del pesce del martedì.
Un po’ costernato provo ad approfondire, pare che il problema sia legato al lessico: i ragazzi della mia classe non hanno capito perché i termini utilizzati non li conoscono. Ne nasce una discussione (non particolarmente partecipata in realtà), dove cerco di spiegare l’importanza di avere un lessico ampio, spiego che non possiamo pensare qualcosa se non abbiamo le parole per dirlo, ma evidentemente è un concetto troppo astratto. Azzardo una similitudine. “Immaginate di dover dipingere un quadro, quanti più colori avete a disposizione, tanto più saprete rappresentare fedelmente ciò che avrete davanti. Lo stesso è con le parole…”
“Prof, io ho visto il video di uno che disegna cose pazzesche usando solo una bic blu”
“Sì ma dubito possa rappresentare un bel tramonto, per esempio…”
“Sì l’ho visto anch’io – interviene un altro risvegliandosi probabilmente alla parola ‘video’ – prof vuole vederlo?” Il tempo di dire no ed è già di fianco alla cattedra con il cellulare in mano. Quando riesco a convincerlo con parole e gesti a tornare al banco ormai la discussione è degenerata e riesco a ottenere il silenzio mentre, non si sa come, l’argomento sono i madonnari in piazza Duomo e cosa succede se piove… credo si dovrebbe provare a individuare un teorema per cui le discussioni in classe sono più animate quanto meno sono inerenti al tema della lezione.
Capisco o non capisco
Riesco a recuperare un minimo di ordine e, all’improvviso, l’intervento illuminante arriva da uno degli ultimi banchi: “Vabbé prof, ma se uno può dire la stessa cosa in modo più semplice è meglio. Zero sbatti” e accompagna l’ultima osservazione scambiando un cinque con il compagno di banco.
“Vero, incalzo io – non c’è modo migliore di attirare l’attenzione che accogliendo un’obiezione – nel caso del cartello che vi ho raccontato potevano senza dubbio scrivere in maniera più diretta, più comprensibile, ma a volte ci sono argomenti che non sono semplici e hanno bisogno di frasi complesse per essere spiegate. Quando studiate diritto, per esempio, cosa fate se non capite qualcosa?”
“Lo salto”
“Lo imparo a memoria”
“Me lo segno e chiedo alla prof” (affermazione che scatena osservazioni di varia natura, ma che dimostrano che nel campo dell’ingiuria i miei discenti hanno un vocabolario vasto e colorito)
“E’ che io non penso di non capire. Cioè, io capisco, ma non quello che c’è scritto, cioè, capisco cosa c’è scritto ma non capisco cosa vuol dire davvero e io però penso di aver capito. Quindi non mi chiedo se ho capito, perché per me ho capito”
Forse è la complessità della frase o la sua intuibile verità, ma l’esito è che almeno in classe torna il silenzio. “Allora – riprendo – è per questo che quando leggiamo qualcosa e chiedo se avete capito rispondete sempre di sì?”
“Sì. Credo”
In effetti quando poi mi fermo a chiedere il significato di qualche parola non dicono quasi mai che non la conoscono ma inventano, intuiscono, improvvisano, abbozzano per assonanza e, ovviamente, prendono delle cantonate colossali. In alcuni casi l’esito sarebbe veramente comico se non fosse tragico. Provo a insistere: “Scusate, ma come fare a svolgere un compito di economia aziendale o di matematica (era un classe di futuri ragionieri) se non capite cosa vi chiede il testo?”
“Io prendo tre” e la frase viene detta col tono di chi ha trovato la soluzione definitiva
“A me la prof lo scrive sempre… però tanto alla fine al sei ci arrivo”
“Allora potresti prendere di più…” e qui l’espressione si fa più simile a quella di un bovino a cui cerchi di spiegare che qualche metro più in là l’erba è più buona.
Quando i commenti calano di intensità chiedo: “Ma c’è qualcosa che vi interessa?”
“Prof, ora suona”
“Ok, lo prendo per un no…”
I ragazzi sono fuochi da accendere
In effetti è l’ultima ora e i banchi sono già totalmente spogli, qualcuno ha già indossato la giacca ed è seduto con l’espressione di un centometrista che aspetta il colpo di pistola. Mi arrendo, per ora. Riprenderò il discorso nei prossimi giorni.
Mentre finisco di compilare il registro nel surreale silenzio che precede la campanella (il silenzio serve solo per sentirla) ripenso a un episodio che mi è accaduto in gita a Firenze proprio con questa classe. Entriamo in Santa Maria Novella, spiego velocemente il crocifisso di Giotto, quindi comincio a spostarmi per vedere le altre opere e, dopo pochi minuti, mi accorgo che sto parlando da solo. Alcune ragazze stanno girando a gruppetti, i ragazzi sono tutti seduti sulle panche della chiesa, proprio sotto il crocifisso, ognuno con lo sguardo fisso sul proprio cellulare. Mi ricordo ancora il cazziatone che gli ho fatto appena usciti. Ma forse, alla fine, il vero problema è solo uno: la curiosità. Quando a lezione scorgo qualche sguardo che si accende per la curiosità capisco che l’ora non è passata inutilmente, suscitare domande è più importante che dare risposte e, forse, la curiosità non è altro che l’intuizione di una risposta possibile. Non so se sia (solo) colpa degli smartphone o di cos’altro, ma se aveva ragione Plutarco nel dire che i giovani non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere, l’impressione è che i nostri ragazzi siano legna umida, verde. Occorre un lavoro più lungo e paziente per accenderla…
“Sapete – dico interrompendo il religioso silenzio che attende la campanella – una ricerca dice che un italiano su tre è un analfabeta funzionale. Cercate di non essere voi quel trenta per cento”
Suona la campanella, escono ed alcuni mi guardano un po’ offesi dal sentirsi definire analfabeti funzionali, ma non sanno perché.