Pubblicato il 26 Maggio 2025.

Fonte: Sussidiario.net

Articolo di Maria Grazia Fornaroli

Sarebbe bene che la scuola superiore, in grave crisi, accogliesse alcune istanze provenienti dalla ricerca sul contesto lavorativo e occupazionale

Il tema “scuola” è spesso affrontato su queste pagine con esperienze dense e significative, tuttavia, al tempo stesso, non possiamo non riconoscere come il sistema-scuola risulti profondamente affaticato.

In un contesto ormai globale, la responsabilità di un Paese in termini di politiche scolastiche appare cruciale, ma i risultati attuali, senza farsi prendere da vani pessimismi, risultano deludenti.

In un articolo dello scorso 25 marzo Tiziana Pedrizzi ha ancora una volta ben segnalato il gap che ci contraddistingue rispetto ad altre nazioni sulla base di rilevazioni internazionali.

L’ipotesi che si intende qui proporre è di accogliere, almeno per la scuola superiore, quanto può offrire la ricerca universitaria sul tema della relazione fra contesto scolastico e contesto occupazionale.

Non si tratta di promuovere ancora una volta generiche alleanze fra sistemi, ma di guardare alla ricerca come reale opportunità per una didattica più integrata e quindi più rispondente agli attuali bisogni formativi.

In un recente convegno promosso dall’associazione di dirigenti scolastici Disal tenutosi qualche settimana fa ad Arezzo, dal titolo Direzione pedagogica (e già su questa espressione ci sarebbe molto da approfondire), Emmanuele Massagli, esperto in pedagogia del lavoro presso varie università italiane, ha indicato alcune prospettive che potrebbero costituire un’interessante ipotesi di ricerca per chi vorrà approfondirle.

Superando l’antico ritornello sull’autonomia della scuola rispetto al mondo del lavoro, si tratta di accogliere la prospettiva di riconoscere che, tra le responsabilità istituzionali della scuola, quella di mirare alla formazione di persone occupabili debba integrarsi con la preoccupazione di formare integralmente la persona.

La promozione dell’autonomia, la capacità di lavorare insieme ad altri, di comprendere il contesto di studio e di lavoro, la responsabilità di prendere decisioni, non costituiscono cioè competenze estranee al contesto scolastico, ma piuttosto obiettivi indifferibili per la scuola stessa. Non scholae sed vitae discimus.

Nella scuola superiore attuale questi traguardi sono riservati ad alcuni ambiti, ma non acquisiti interamente dall’intero sistema: è vero che alcuni istituti sono da anni fortemente impegnati in progetti connessi all’apprendistato, all’impresa formativa simulata, ma si tratta di fenomeni ancora rari e che ad oggi non sono ancora riusciti ad abbattere il pregiudizio della forte separazione fra mondo della scuola e mondo del lavoro.

“Noi non siamo operai” si sentiva rimbombare all’inizio dell’introduzione dell’alternanza scuola lavoro. Ora gli operai sono diminuiti, quasi scomparsi e questa frase raramente risuona nei collegi dei docenti.

Nella scuola superiore attuale questi traguardi sono riservati ad alcuni ambiti, ma non acquisiti interamente dall’intero sistema: è vero che alcuni istituti sono da anni fortemente impegnati in progetti connessi all’apprendistato, all’impresa formativa simulata, ma si tratta di fenomeni ancora rari e che ad oggi non sono ancora riusciti ad abbattere il pregiudizio della forte separazione fra mondo della scuola e mondo del lavoro.

“Noi non siamo operai” si sentiva rimbombare all’inizio dell’introduzione dell’alternanza scuola lavoro. Ora gli operai sono diminuiti, quasi scomparsi e questa frase raramente risuona nei collegi dei docenti.

I contenuti, i contenuti! Ci fossero i contenuti, ma non ci sono! Nella maggior parte dei casi, la prova di matematica al liceo scientifico è quasi sempre una tragedia, e il tentativo di qualche anno fa di integrarla, per renderla più applicativa, con fisica è stato precocemente abbandonato, segnatamente negli istituti tecnici industriali (elettronica, elettrotecnica, informatica), ma anche in quelli di carattere economico-giuridico, quando la prova sia affidata ad un docente esterno, il panico è diffuso e le valutazioni si discostano spesso da quelle di presentazione. Forse si salva il liceo classico, con la classica prova di traduzione, ma trattasi di esperienza fortemente elitaria per numeri e contesti.

I contenuti, i contenuti! Ci fossero i contenuti, ma non ci sono! Nella maggior parte dei casi, la prova di matematica al liceo scientifico è quasi sempre una tragedia, e il tentativo di qualche anno fa di integrarla, per renderla più applicativa, con fisica è stato precocemente abbandonato, segnatamente negli istituti tecnici industriali (elettronica, elettrotecnica, informatica), ma anche in quelli di carattere economico-giuridico, quando la prova sia affidata ad un docente esterno, il panico è diffuso e le valutazioni si discostano spesso da quelle di presentazione. Forse si salva il liceo classico, con la classica prova di traduzione, ma trattasi di esperienza fortemente elitaria per numeri e contesti.

Siamo di nuovo in una impasse, siamo ancora tenacemente convinti che le prospettive più orientate alle non cognitive skills non siano di competenza dell’istituzione scolastica, ma quando andiamo a verificare le cognitive skills non reggiamo il confronto con l’estero e non siamo soddisfatti dei nostri risultati.

L’antico adagio che la nostra scuola sia la migliore del mondo sta rapidamente svanendo.

Gli ostacoli al cambiamento che si intravvedono sono di varia natura. La scelta dei licei da parte della maggioranza delle famiglie da un lato giustificata da un comprensibile timore per altri contesti fortemente emergenziali, è tuttavia spesso causa di insuccesso e di drammatici abbandoni.

Si tratta di scuole di impianto fortemente teorico, che tradizionalmente richiedono un impegno di studio domestico, ormai raramente rispettato dagli studenti, con docenti, pur selezionati e impegnati, fortemente radicati in modelli di insegnamento non coerenti ai meccanismi di apprendimento dei nostri adolescenti. Depressione e conflitti diffusi sono quotidianamente sperimentati.

Negli istituti tecnici la situazione è certamente differente: i docenti sono in molti casi impegnati anche in altri contesti occupazionali e pertanto generalmente più disponibili all’interazione con modelli cognitivi differenti, ma proprio per le ragioni sopra esposte, spesso non è la didattica il loro focus di interesse, il turnover è più frequente e tra l’altro i docenti si trovano di fronte ragazzi meno scolarizzati, più spesso non nativi italofoni, che hanno scelto istituti comunque molto impegnativi, senza il necessario background, né linguistico, né logico-matematico. Da ciò derivano selezione più elevata e altissimo rischio dispersione.

Gli istituti professionali, spesso considerati dalle nostre élites e dal legislatore come contesti di frontiera, costituiscono in realtà laboratori didattici estremamente interessanti: i docenti che li scelgono sono spesso più disponibili a piegarsi al bisogno formativo rispetto all’ossessione per la conclusione del programma, più coinvolti nel confronto con i contesti lavorativi e quindi anche più orientati a un’innovazione didattica in una prospettiva di forte personalizzazione. Una prospettiva che forse sarebbe opportuno “esportare” anche in altre tipologie di scuole superiori.

Il grido di allarme è alto: la demografia della scuola italiana richiederà con urgenza un profondo cambiamento; il confronto serio e sereno con il contesto lavorativo potrà fornire alla scuola un’occasione importante di ripensamento della didattica stessa.

Che il mondo del lavoro – ma anche quello della ricerca e dell’università – richieda persone dotate di affidabilità, di desiderio di impegnarsi in contesti produttivi, persone non esasperatamente conflittuali o rinunciatarie è una consapevolezza irrinunciabile e forse indifferibile anche per chi sia impegnato esclusivamente nel contesto scolastico.

Si tratta, crediamo, di competenze, queste, assolutamente condivisibili da chi guardi all’educazione come introduzione alla realtà, in una costante tensione al bene comune.

Non si tratta di piegarsi a un vuoto funzionalismo, nella preoccupazione riduttiva, “alla tedesca”, di scuola orientata al placement; si tratta di prendere sul serio la necessità di un radicale cambiamento, senza il quale saranno sempre di più coloro che, potendo, sceglieranno per i propri figli altri sistemi scolastici, apparentemente più vincenti, ma drammaticamente saranno sempre di più anche i casi di abbandono e di esclusione.

Un’interazione sempre più sistemica fra il mondo del lavoro e quello della scuola potrebbe costituire, se non la panacea, almeno un’ipotesi di sviluppo a cui guardare con interesse e fiducia.

Condividi articolo