Fonte: Sussidiario.net
Articolo di Tiziana Pedrizzi
Una recente indagine di Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca sui divari della scuola in Italia offre linee operative di affronto di problemi consolidati

Il 9 luglio si è tenuta l’annuale presentazione dei risultati INVALSI. La piena assunzione istituzionale ne è stata definitivamente consacrata per la ennesima volta dalla presentazione alla Camera. In effetti, da più parti esce la constatazione che non sono molti i Paesi anche occidentali che possono vantare una mole così imponente e attendibile di dati, articolata per aree disciplinari ed annualità, sui livelli di apprendimento dei propri giovani.
Quest’anno nel mese di maggio si sono tenuti due interessanti seminari-convegni di apertura: uno a cura dell’apparato interno alle istituzioni: INVALSI, MIM, Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, Università, l’altro su iniziativa di una parte importante dell’imprenditoria italiana: Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca. Iniziative che possono dirci qualcosa su come si intenda avanzare.
Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca si sono concentrate sulle possibili modalità di intervento. Fatta una sintesi chiara e completa delle conclusioni cui sia PISA che INVALSI sono arrivati in termini sia dei divari esistenti che delle possibili correlazioni (non cause certe, insistono sempre tutti!), l’attenzione si è puntata sui fattori di processo che potrebbero determinare differenze all’interno delle macroaree territoriali e generare esempi positivi in un contesto pur negativo.
Questo sia a livello di regioni – ad esempio Liguria e Lazio esprimono livelli inferiori a quelli di NordOvest e Centro cui appartengono, mentre Abruzzo e Puglia esprimono livelli superiori a quelli della macroarea Sud – che a livello delle singole scuole. Cinque scuole con risultati più positivi in un contesto negativo sono state individuate e si è ipotizzato quali possano essere i fattori determinanti in proposito.
È stato identificato un gruppo di scuole secondarie di secondo grado con risultati nettamente superiori a quelli medi attesi in un dato contesto territoriale, considerando indirizzo di studio, status socioeconomico e culturale (ESCS) e media provinciale degli apprendimenti.
Cinque di queste scuole sono diventati casi di studio (un liceo e un tecnico, 3 professionali) in Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Puglia (2). Per ciascuna delle 5 scuole si è realizzata una visita, interviste semi-strutturate e analisi di documenti rilevanti ai fini delle politiche scolastiche, al fine di ricavarne esempi positivi.
Ecco i fattori che facilitano il successo. Per quanto riguarda l’organizzazione: logica cooperativa, gestione unitaria ed integrata, comunicazione con le famiglie, gestione non autoritaria, minimizzazione dei conflitti; per quanto riguarda la gestione delle risorse su progetti esterni: coinvolgimento di studenti e professori, integrazione con i fondi della scuola, analisi delle ricadute con focus sulle competenze di base, fidelizzazione degli insegnanti anche supplenti, rinnovamento di spazi e laboratori.
Infine per quanto riguarda didattica e curricoli: collegialità interdisciplinare basata sulle competenze di base, centratura sullo studente, modelli comuni di progettazione, valorizzazione delle dimensioni pratiche e professionali delle competenze di base. Insomma tutti i must be degli ultimi decenni (una volta si diceva dover essere), fra cui è difficile, anche se ineludibile, scegliere le priorità.
Ma sono state considerate anche politiche di carattere strutturale, la cui responsabilità esorbita dalle possibilità e competenze delle scuole.
Orientamento più efficace alla scuola media: presumibilmente si intende la presa in considerazione della formazione per il lavoro che invece è considerata dai docenti generalmente come il refugium peccatorum.
Nocciolo duro delle competenze di base trasversali nel biennio iniziale comune: e qui c’è forse da domandarsi se non si sia già fatto abbastanza, soprattutto per gli istituti professionali, il luogo dei maggiori abbandoni, ormai chiaramente causati dal peso quantitativo e qualitativo della formazione generalista.
Autonomia differenziata, cioè più rilevante solo per le scuole dai buoni risultati e conseguentemente innovazione come tendenza complessiva e non confinata a singoli progetti (magari a quelli finanziati). Ed infine creazione seria e solida del middle management.
Per i sempre meno numerosi sopravvissuti cultori della materia questo impianto di analisi ha ricordato un po’ la prima grande inchiesta sulla scuola effettuata durante il ministero di Berlinguer (1999-2000) denominata Monitoraggio, anticipo ed accompagnamento della legge sull’Autonomia. Nella quale, sulla base di una analisi qualitativa, il focus sul divario Nord-Sud, ora chiaramente individuato da PISA ed INVALSI, era stato eluso e si era diagnosticata una situazione della scuola “a macchie di leopardo” cioè da differenze dislocate su tutto il territorio nazionale.
Una analisi solida incentrata sull’apparente (sostiene qualcuno) arretratezza dei risultati di apprendimento del Sud continua a latitare. Forse sarebbe bene riprendere i dati per ritrovare gli indicatori di una polarizzazione sociale: “primine”, segregazione fra le classi durante l’obbligo, segregazione negli indirizzi superiori ed assenza di formazione per il lavoro, segregazione nell’università. In proposito un’interessante ricerca del seminario INVALSI 2004, una delle pochissime sul tema Sud, ha dimostrato che gli ESCS (Economic, Social and Cultural Status) inferiori si aggregano nelle università locali, mentre gli ESCS superiori trasmigrano al Nord, con la sola eccezione del polo di Napoli.
Il seminario di INVALSI che si era tenuto il giorno prima con un focus parzialmente diverso, su molti punti aveva registrato una certa assonanza. Dopo una esauriente illustrazione dei concetti e della realtà della dispersione esplicita ed implicita (un concetto, questo, di conio INVALSI che si sta affermando, relativo ai casi di conseguimenti di titoli che non corrispondono ai parametri minimi necessari per conseguirli), si è passati ai lavori in corso. All’individuazione in forma “granulare”, cioè specifica e dettagliata, delle scuole particolarmente problematiche, presenti peraltro su tutto il territorio nazionale, al fine di permettere un intervento specifico e produttivo sulla didattica.
Certo, il sistema messo in azione anni fa di definizione del RAV, Piano di miglioramento, visite esterne e rendicontazione sociale sembra un po’ accantonato, anche se ne starebbe per iniziare una nuova edizione e, senza una spinta anche istituzionale ,è presumibile che le scuole non vi si affannino intorno, vista la gragnola di nuove sollecitazioni cui sono al solito sottoposte.
Del resto nel finale si è sentito un invito da parte della ricerca in campo scolastico a controllare gli effetti delle innovazioni, che non vanno sempre dati per scontati. Invito serio soprattutto nel nostro Paese, ma bisogna anche considerare che la scuola è un meccanismo ad effetto lento, in quanto per sua natura opera principalmente sulla trasmissione e non sull’innovazione, anche se innovarne i meccanismi è necessario per la stessa trasmissione.