Recentemente il ministro dell’Istruzione e del Merito G. Valditara nel commentare il ddl sul voto in condotta ha auspicato di «tornare, dal prossimo anno scolastico, a formule comprensibili al posto di quelle astruse introdotte di recente» con il proposito di cambiare «il sistema di valutazione alla scuola primaria» sostituendo «le definizioni “incomprensibili “avanzato”, “intermedio”, “base”, “in via di prima acquisizione”» ed auspicando che «alle elementari le valutazioni siano chiare, semplici: ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente, gravemente insufficiente».
Appare improprio e non dignitoso qualificare con aggettivi quali astruse e incomprensibili le formule di valutazione che sono state utilizzate a partire dal dicembre 2020 nella scuola primaria, formule che, al di là delle considerazioni di merito, documentano un impegno didattico dei docenti e delle scuole per promuovere l’acquisizione di competenze negli alunni e che esplicitano una descrizione qualitativa che necessariamente il voto numerico limita.
Per la quarta volta dal 2008 potrebbe cambiare, così, la formulazione della valutazione periodica e finale alla primaria: dai giudizi ai voti, poi ai giudizi descrittivi e, a breve, ai giudizi sintetici.
Quando, nel 2020, fu introdotta la sperimentazione obbligatoria dei giudizi descrittivi – nel bel mezzo della pandemia e in corso d’anno – le scuole primarie per adattarsi fecero un grande sforzo ripensando indicatori e obiettivi e, andando oltre il dettato ministeriale, costruendo forme di comunicazione agli alunni e alle famiglie che favorissero la novità che quella riforma proponeva: puntare al valore formativo della valutazione ed al suo essere non puro momento certificativo degli apprendimenti acquisiti, ma strumento di dialogo per accompagnare in modo personalizzato il cammino di crescita degli allievi.
Valore e dialogo che oggi hanno cominciato a diventare condivisi ed efficaci.
L’accantonamento delle formule oggi utilizzate per descrivere i livelli di apprendimento per sostituirle con espressioni che alludono a voti rischia implicitamente di ricondurre la valutazione degli apprendimenti ad una documentazione di pure performance disperdendo l’investimento sull’insegnamento per competenze su cui si è sviluppato il lavoro pedagogico di questi anni, significativo proprio nei contesti scolastici attuali che registrano difficoltà e fragilità emotive nei bambini.
Perché, invece, non far concludere almeno un periodo quinquennale di sperimentazione dell’attuale modello – che ha comportato, non si dimentichi, l’impegno di ore di formazione e di lavoro da parte dei team formativi e dei dirigenti scolastici – programmando, semmai, un ponderato monitoraggio degli esiti, anche in dialogo con le scuole e con le associazioni professionali, per introdurre, poi, eventuali correttivi?
Resta l’amarezza di rilevare la fatica degli ambiti della politica e dell’amministrazione a concepirsi come strumento di servizio e non di governo sostitutivo dell’autonomia scolastica che, dove bene esercitata, crea modelli, promuove strumenti efficaci, opera con modalità comunicative che favoriscono il dialogo scuola-famiglia. Una concezione centralista che, oltre che a generare disorientamento e demotivazione, non fa il bene della scuola e dei suoi protagonisti.
Milano, 29 febbraio 2024 Ufficio stampa DiSAL