Opinioni/Bertagna: riforma possibile e occasione mancata


Entra in vigore la “Morfiormini”
(Moratti, Fioroni, Gelmini)
La Nuova Secondaria -  di Giuseppe Bertagna
Ci sarà tempo per riflettere sulle ore e sulle cattedre tagliate. Ci sarà tempo per discutere della presenza o dell’assenza di specifiche discipline nei piani di studio. Ci sarà tempo per informarsi sulla potatura degli oltre 800 indirizzi di scuola secondaria, ridotti a sei tipi di licei, a due di istituti tecnici (con 11 indirizzi) e a due di istituti professionali (con 6 indirizzi).
Ci sarà tempo per informarsi su come le scuole impiegheranno gli spazi di autonomia loro concessi dai regolamenti per modificare i piani di studio nazionali (20% nel primo biennio, 30% nel secondo; 20% nell’ultimo anno dei licei; 20% nel primo biennio, 30% nel secondo e 35% all’ultimo anno negli istituti tecnici; 25% nel primo biennio, 35% nel secondo e 40% nel quinto anno degli istituti professionali). Nei prossimi mesi, con la concitazione dei tempi strettissimi per chi si deve iscrivere entro il 26 marzo, ma anche nei prossimi anni per tutte le famiglie che hanno figli in età scolare, servirà un grande sforzo di informazione e di formazione a cui sono chiamati non solo il ministero e i docenti, ma i mass media e tutta l’editoria specializzata. Adesso, tuttavia, a ridosso dell’approvazione dei regolamenti attuativi della riforma della scuola secondaria, è importante cercare di capire lo scenario in cui si collocano.
Un abbrivio lontano
Già alla fine degli anni settanta, fu chiara una conclusione che fu, tra l’altro, motivo della nascita di questa rivista nel 1983: non si può avere una scuola di qualità aperta doverosamente a tutti, mantenendo gli ordinamenti pensati durante il fascismo, ma poi mantenuti dalla Repubblica, per una scuola riservata a pochi privilegiati. Il risultato sarebbe stato ciò che poi è sempre più avvenuto: una perdita di qualità per tutti e la perdita di prestigio della scuola. Ma la riforma non venne. Si rispose con le cosiddette sperimentazioni che moltiplicarono gli indirizzi scolastici, ma non la qualità complessiva del sistema.
Negli anni novanta, a partire dal 1996, con i sacrifici imposti dall’entrata in Europa e dalle allegre politiche di spesa dei decenni precedenti, divennero quasi un’emergenza nazionale tre linee di azione:
a) la razionalizzazione della spesa anche nell’istruzione (risparmi);
b) l’aumento della flessibilità del sistema, con l’autonomia;
c) l’urgenza di una riforma complessiva, di sistema.
Berlinguer fece le sue proposte su tutte e tre queste direzioni. Sfondò solo sulla seconda, anche se, da buon erede del centralismo democratico, la configurò non come autonomia, ma come «autonomia funzionale»: non proprio la stessa cosa (in G. Bertagna, Autonomia. Storia, bilancio e rilancio di un’idea, La Scuola, Brescia 2008). Fu tuttavia bloccato dalla politica e dalle corporazioni sindacali sulle altre due.
L’occasione mancata
La riforma del Titolo V della Costituzione che costringeva a ridisegnare l’architettura della secondaria perché affidava alle Regioni l’istruzione e la formazione professionale consentì alla Moratti di riprendere, pur cambiandone i contenuti, le due linee fallite da Berlinguer, fra l’altro potenziando la seconda, cercando di avvicinarla ad un’autonomia vera e propria. Previde uguali traguardi formativi per tutti i cittadini italiani entro i 18 anni e, per raggiungere questo traguardo posto obbligatorio per tutti i giovani, previde, dopo il secondo ciclo di istruzione, tre percorsi tra loro definiti di pari dignità educativa e culturale. Queste tre vie erano rispettivamente:
a) il percorso quinquennale dell’istruzione liceale in capo allo Stato;
b) il percorso dell’istruzione e formazione professionale regionale articolato in corsi di durata variabile tra i tre e nove anni (doveva nascere dalla rifusione unitaria e organica dell’attuale formazione professionale regionale, dell’attuale istruzione professionale statale e di una buona fetta dell’attuale istruzione tecnica statale);
c) a partire dai 15 anni d’età, il percorso dell’apprendistato, di solito più lungo di almeno un anno rispetto alla durata dei percorsi di istruzione e formazione professionale, per poter ottenere, al pari che in questi ultimi, qualifiche e diplomi secondari e superiori.
La restaurazione
Questa
ipotesi di riforma scardinava abitudini e tradizioni consolidate. Toccava più o meno piccoli privilegi. Scatenò resistenze insuperabili. Non entrò mai in vigore.
Nel 2006, Fioroni, da buon politico, ne prese atto.
Pubblicò l’anno dopo il Libro Bianco che disegnava la necessità di risparmi consistenti e dolorosi, da fare tuttavia in cinque anni e con il consenso delle parti sociali.
Smontò, nel frattempo, il secondo percorso della Moratti, reintegrando in campo allo Stato, come è oggi, non solo i licei, ma anche gli istituti tecnici e gli istituti professionali.
Lasciò alle Regioni la responsabilità di governare soltanto i percorsi di istruzione e formazione professionale triennali, di fatto destinati ai «falliti» dei tre percorsi delle scuole statali, invitando però le Regioni a delegare questa loro responsabilità agli istituti professionali statali per creare un’offerta integrata. E non suscitò scandalo in queste richieste perfino in arcigni custodi dello spirito e della lettera della Costituzione, sempre pronti a gridare al golpe costituzionale anche in presenza di violazioni
molto meno palesi del disposto contenuto nella carta fondamentale.
Nel 2008, la grande crisi economica mondiale. Tremonti tagliò corto sui risparmi: li impose in fretta e subito, senza troppe discussioni. La Gelmini, per farli senza pregiudiziali ostilità dell’opposizione, pensò bene di non toccare le modifiche ordinamentali e programmatiche introdotte da Fioroni. Nel frattempo, recuperò il recuperabile della riforma Moratti.
Una possibilità aperta Cosicché oggi si può dire che entri in vigore la «Morfiormini (Moratti, Fioroni, Gelmini)», davvero la prima riforma dell’impianto degli studi secondari a partire dal ministro De Vecchi (1936) in poi. Non è perfetta. Si poteva fare meglio e forse in maniera anche più strategica.
Ma il risultato «epocale», viste le abitudini per lo più verbose della nostra classe politica e sindacale, è che finalmente c’è, ed entra in vigore. E che fra tre anni il parlamento ha chiesto una seria verifica della sua applicazione. C’è da augurarsi che almeno questa sia condotta coinvolgendo maggioranza ed opposizione, stato e regioni, governo e parti sociali perché, al di là delle esasperazioni ideologiche tipiche della lotta politica contingente, la scuola è una cosa troppo seria per essere lasciata al pendolo delle maggioranze e agli interessi corporativi (g.b).
 
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