Scuola inutile, sarebbe da rifondare
laSicilia.it – 10.04.2014 - di Giuseppe Di Fazio
Martedì 8 aprile nelle scuole superiori siciliane erano assenti 6.920 studenti di ultimo anno, a motivo dei test di medicina. Quegli stessi studenti, così come i loro colleghi impegnati in questi giorni in test per altre facoltà (Veterinaria, Architettura), hanno messo da parte Leopardi e Manzoni, Kant ed Hegel, la geografia astronomica e la letteratura inglese, per prepararsi alla prova che aprirà loro le porte dell'Università e, si spera, di un futuro lavorativo. Per prepararsi a questo esame i medesimi studenti da anni si sottopongono a uno studio parallelo, pagando spesso rette a istituti (privati) specializzati. In tutto questo la scuola - che pure il governo Renzi ha messo al primo posto dell'agenda politica - che c'entra? Praticamente nulla. Tanto che gli stessi allievi frequentano le lezioni, ma con la testa si trovano altrove e per prepararsi all'esame vero (perché ormai quello di maturità va in secondo piano) si scelgono istruttori a pagamento. E allora perché investire 3,5 miliardi per puntellare strutture cadenti di una istituzione che certifica il suo fallimento alla conclusione degli studi?
La scuola, infatti, non prepara all'Università.
Ma non prepara gli studenti neppure ad affrontare la vita.
La sua funzione formativa, negli anni, ha subìto un calo progressivo. Gli alunni che concludono gli studi superiori difficilmente possono dire di aver assimilato le coordinate mentali per districarsi nei meandri della vita, o il senso critico utile a orientarsi dentro i problemi quotidiani.
E gli stessi insegnanti, demotivati dopo anni di denigrazione sociale nei loro confronti, sembrano aver gettato la spugna: educare i giovani, per loro, è ormai una missione impossibile. La scuola italiana assomiglia, perciò, a una fabbrica di automobili che prepara con cura lo scheletro delle vetture, inserisce pneumatici di prima scelta, optional all'avanguardia, ma monta un motore che alla prima prova su strada fa cilecca. Quella fabbrica non avrebbe molte prospettive di sopravvivenza e l'imprenditore provvederebbe subito a rifondarla. E' la stessa cosa che, forse, occorrerebbe fare con la nostra scuola.
A che serve, infatti, investire miliardi per rimettere in piedi il contenitore (le strutture murarie), se poi il contenuto (metodi di insegnamento, formazione degli insegnanti, passione educativa) resta precario? L'esempio dei test per l'università è la cartina di tornasole di un sistema dell'Istruzione schizofrenico.
Il governo ha un ministro che guida tutto il sistema, dalle elementari all'Università. Ma se la scuola non prepara per il lavoro, né per l'Università, essa rischia di diventare inutile. Di fatto stiamo uccidendo l'educazione e distruggendo i nostri ragazzi. Perché con l'ansia di prestazione che l'ideologia dei test e del futuro assicurato instillano in loro, di fatto abbiamo convinto gli studenti che, se desiderano farsi strada nella vita e non vogliono fare la fine di quello sfigato di Giacomo Leopardi, devono mettere da parte la ragione, il senso critico e le domande del loro cuore. Non meravigliamoci, poi, quando i nostri ragazzi misurano il loro valore dall'esito della prestazione nei test e se, di conseguenza, scelgono vie di evasione dalla realtà che devastano la loro vita.
Scuola inutile? Proviamo con il pluralismo
laSicilia.it – 12.04.2014 - di Michela D’Oro, Preside Istituto Sant’Orsola
Giovedì scorso ho letto su La Sicilia l’editoriale di Giuseppe Di Fazio “ Scuola inutile sarebbe da rifondare”. Ho un sobbalzo: descrive proprio quello che si vive di questi tempi a scuola, la nostra povera scuola.
Non sono mamma di aspiranti studenti di Medicina o Architettura, ma sono preside di scuola superiore dei suddetti. L’anticipo della data dei test rispetto agli anni precedenti ha fatto solo suppurare una ferita già aperta.
Alcune questioni in gioco: cosa un sistema scolastico ritiene essenziale che i suoi utenti raggiungano alla fine del percorso? Quale fisionomia umana, civile si vuole costruire? Quali competenze sono imprescindibili per il giovane che si affaccia al mondo del lavoro o dell’istruzione terziaria? Mai un serio dibattito si è sviluppato su questi temi nei luoghi in cui si doveva sviluppare. E così alla fine l’Università ha fatto per conto suo (ma non era unico il Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca?) ed ha fatto dei test d’accesso come dei quiz: non è dato sapere in base a quali prerequisiti o a quali competenze maturate a scuola dalle future matricole, nonché nostri alunni.
Volevano forse dire al mondo della scuola che nessuno se ne fa niente dei nostri voti di maturità? Che il sistema scuola è autoreferenziale? Probabile! Certo una riflessione la scuola la deve fare: il 42% di disoccupazione giovanile ci deve dire qualcosa? Il 44% dei laureati che ammette di aver sbagliato la scelta della scuola superiore ci deve dire qualcosa? Ci deve dire qualcosa il fatto che potremmo tecnicamente definire non equo il sistema statale d’istruzione, giacchè “sbagliare sezione”, solo per dirne una, significa non avere le stesse possibilità degli altri e totalizzare differenze di punteggi ai test Invalsi che equivalgono ad anni di studio?
Non avendo seriamente affrontato queste ed altre questioni, ci meritiamo i “nuovi privati” che spopolano nella scuola, quelli che raccolgono adepti a suon di migliaia di euro per preparare ai quiz di cui sopra, mentre i “vecchi privati” quelli che la scuola la fanno da secoli, o forse l’hanno proprio fondata, muoiono. Ma è giusto così! C’è l’art. 33! Ma mi chiedo: quale onere è per noi tutti quel 42% di disoccupazione? Quale onere è il 25% di abbandono dopo la scuola dell’obbligo e il 35.7% di Neet? Quale onere le basse competenze matematiche dei quindicenni?
Se una cosa non va si cambia, si aggiusta, si butta via, dipende. Parliamone.
Perché non sperimentare forme sussidiarie dell’offerta formativa? Perché non dare veri strumenti d’attuazione all’autonomia scolastica e alla libertà di scelta (anch’essa in Costituzione e sempre nell’art. 33)? Noi siamo al paradosso che i fondi europei per le regioni obiettivo (leggi Pon) li possono usare solo le scuole di stato? Perché? Le risposte a bisogni così ampi e diffusi non hanno bisogno di mobilitare tutte le risorse dell’intera società civile?
Si sta aprendo un interessante dibattito sul costo standard dell’istruzione cioè sul costo standard per alunno nella scuola pubblica (statale+paritaria) per assegnare i fondi pubblici “a tutte le scuole sulla base del numero di iscritti”.
E’ un argomento delicato e complesso, messo in campo non per trovare spiccioli per le scuole dei preti, ma perché il sistema centralistico e statalista non ha data buona prova di sé. Sarà pur lecito allora provare col pluralismo, come ci insegnano tutte le migliori esperienze internazionali, e senza farne una guerra di religione?