Riforma e buona scuola: analisi dettagliata e proposte per il DdL


Prime  riflessioni sul Disegno di legge 1934 A.S. “La buona scuola”

Giuseppe Cosentino  -   già Capo Dipartimento Istruzione del MIUR  -  11 giugno 2015

 

Scontro di due concezioni ?

L'inusitata durezza dello scontro in atto sul disegno di legge relativo alla scuola è il chiaro sintomo di uno conflitto “fratricida” tra due schieramenti, appartenenti alla stessa “famiglia”, che si sentono reciprocamente traditi.

Da un lato sindacati e docenti che vedono confermati da un Governo “amico” metodi impositivi e soluzioni “efficientiste” che avevano caratterizzato le stagioni Moratti e Gelmini e contro cui buona parte dell'attuale dirigenza del PD aveva a suo tempo guidato la contestazione.

Dall'altro il Governo che, avendo proposto un sistema di norme che  -seppure con alcune scelte discutibili- si iscrive nella linea di sviluppo del regolamento sull'autonomia n 275 del 1999, emanato da Luigi Berlinguer, e della legge Profumo sulle reti di scuole e sull'organico funzionale, non comprende una resistenza così totale allo stesso impianto della legge.

Sembra di assistere al rinnovarsi dell'analogo scontro di due concezioni del sistema scolastico, entrambe interne alla sinistra, che trovarono un noto precedente nell'avvicendamento Berlinguer De Mauro nell'ambito di Governi di centrosinistra..

In realtà entrambe le impostazioni hanno molti più punti in comune di quanto ritengano.

Entrambe infatti, sviluppano le intuizioni della Conferenza nazionale della scuola, promossa nel 1990 dall'allora ministro Sergio Mattarella,  e condividono la convinzione che l'autonomia riconosciuta alle istituzioni scolastiche costituisca lo strumento per rendere più flessibile e contestualizzato il percorso formativo, in coerenza con un progetto educativo di istituto che, pur nel rispetto dei profili educativi, culturali e professionali propri di ciascun ciclo di studi e dei relativi obiettivi di apprendimento, fissati a livello nazionale, consenta di rispondere ai diversi bisogni degli alunni, assicurando un curricolo più “personalizzato” relativamente ai tempi ed ai modi di apprendimento, nonché agli interessi ad ai “talenti” degli stessi alunni.

Piano triennale dell'offerta formativa e “curriculum ” dello studente, che ricorrono anche nel nuovo disegno di legge, costituiscono in definitiva strumenti per superare una didattica trasmissiva e uniforme a livello nazionale (i vecchi Programmi ministeriali) e promuovere invece l'identità culturale e progettuale di ciascun istituto, capace di realizzarsi in un contesto concreto, aperto al territorio ed al mondo produttivo, e di rispondere in tal modo al famoso auspicio di don Milani secondo cui è ingiusto “fare parti eguali tra diseguali”.

 

Gli errori fatali della contrapposizione

Appare allora necessario riaprire una reale comunicazione e riflettere con serenità sui punti oggetto dello scontro, al fine di evitare di sacrificare, su profili pur importanti ma non privi di elementi di ambiguità, la riuscita di un assetto complessivo che veda nelle scuole autonome il motore della ripresa del Paese.

In questo questa prospettiva la rigida contrapposizione è un errore.

E' un errore innanzitutto perchè una riforma imposta contro una così generalizzata opposizione da parte del mondo della scuola, evidenziata anche dall'entità delle adesioni allo sciopero ed al successivo “blocco” degli scrutini, è destinata al più ad essere raccolta in una legge formale ma non certo a tradursi in un reale processo di profonda innovazione degli ordinamenti scolastici, come del resto dimostrano vent'anni di precedenti. Dalla riforma Berlinguer, bloccata dal suo successore De Mauro prima ancora che dalla Moratti, alla “carta dei servizi” di Lombardi, alla stessa riforma Moratti. Tutte riforme regolarmente pubblicate in Gazzetta Ufficiale e mai inveratesi nella realtà del mondo della scuola.

 Fare le riforme, infatti, significa avviare complessi e partecipati processi di cambiamento, con adeguata copertura amministrativa, finanziaria e informativa/formativa, che vedano nelle legge la stimolo ma anche la valorizzazione dei modelli didattici più efficaci.

E' anche un errore per un motivo più sostanziale  e cioè che le disposizioni su cui si è acceso il conflitto “ideologico” tra “cambiamento” e “conservazione” , sono in realtà sostanzialmente ininfluenti sulla capacità di migliorare in concreto l'attuale assetto della scuola. Mentre, viceversa, numerose innovazioni, comprese nel disegno di legge e condivise da tutti  -dal bonus per la formazione alla disciplina del rapporto scuola lavoro- rischiano di essere travolte nella contrapposizione sui pochi punti di effettiva criticità.

Mi limito di seguito ad esaminare i più “roventi”.

 

Autonomia

Non c'è dubbio che, soprattutto dopo l'intervento della Commissione Istruzione, esca rafforzata la coerenza dell'impianto culturale del nuovo articolo 1 rispetto all'originaria previsione del D.P.R. 275, del resto espressamente richiamato, che si intende realizzare pienamente, soprattutto con riferimento agli strumenti di flessibilità, già a suo tempo previsti, dell'articolazione modulare, del potenziamento,  della programmazione plurisettimanale degli insegnamenti.

Al riguardo semmai il nuovo testo pecca di timidezza, non avendo affrontato due aspetti che avrebbero potuto introdurre veri elementi di  novità e cioè quello di una piena “autonomia finanziaria”, gia prevista dalla legge finanziaria per il 1993, -con risorse stabili e programmabili attribuite direttamente alle scuole sin dall'inizio dell'esercizio finanziario-  e quello dell'”autonomia statutaria”, per lasciare alle scuole la scelta dei modelli organizzativi più appropriati e coerenti con il progetto educativo del singolo istituto (composizione degli organi collegiali,  eventuale istituzione di dipartimenti e comitati tecnici, ruoli di collaborazione del dirigente e di supporto alle decisioni del collegio dei docenti) .

Ciò tenendo anche conto che, essendosi rinunciato a disciplinare, per mancanza di risorse “dedicate”, una “carriera” stabile della funzione docente  -il c.d. middle management-  l'attribuzione di incarichi temporanei e dei relativi compensi andrebbe a maggior ragione lasciata alla piena autonomia delle scuole, rafforzando semmai il fondo di istituto per rendere “credibili” i compensi erogati per impegni aggiuntivi.

L'impianto prescelto dalla Commissione parlamentare andrebbe inoltre per coerenza collegato, secondo la tradizione degli stessi “decreti delegati” del 1974, al pieno riconoscimento di una dimensione collegiale e cooperativa del lavoro di tutti i docenti, finalizzata alla progettazione, programmazione e autovalutazione degli esiti dei curricoli di istituto, declinati, in relazione all'unitarietà del sapere, in termini di conoscenze, competenze, anche trasversali, ed obiettivi educativi. Ciò, ovviamente senza negare ma anzi valorizzando il ruolo di responsabilità di sintesi del Capo d'Istituto.

 Tale impianto trova del resto  fondamento nell'art  33  della Costituzione, che individua la libertà di insegnamento, nella sua duplice dimensione appunto individuale e collegiale, come la potestà “funzionale” scelta dal Costituente per assicurare apprendimenti e competenze “critiche”.

Garantire la piena libertà degli aspetti tecnici dell'insegnamento, con il solo limite della finalità all'ottimizzazione degli apprendimenti da parte degli alunni, è quindi una condizione da tener presente nell'esame di tutto l'assetto della riforma,  perchè  caratterizza questo settore rispetto al resto del pubblico impiego.

 

Ruolo monocratico del dirigente scolastico e collegialità

Il dibattito relativo al ruolo del dirigente scolastico si è incentrato, come è noto, sui temi delle nuove competenze a lui attribuite in materia di scelta, di valutazione  -ai fini della conferma in ruolo-   e  di premialità del personale docente nonchè in materia di definizione del Piano triennale dell'offerta formativa.

Premetto che, anche alla luce della vigente normativa prevista dall' art 25 del decreto legislativo n 165 del 2001, il dirigente ha già oggi ampi poteri in quanto “assicura la gestione unitaria dell'istituzione, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio”. A tal fine “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane. In particolare, il dirigente scolastico organizza l'attività scolastica secondo criteri di efficienza e di efficacia formative ed è titolare delle relazioni sindacali.” (art 1 comma 2 L 165).

Qualunque capo di istituto, con un minimo di autorevolezza e capacità di leadership, ha sempre guidato con assoluta padronanza la gestione della propria scuola, a partire dagli indirizzi fondamentali della sua identità culturale, recepiti nel piano dell'offerta formativa, avvalendosi, per la sua definizione, dei docenti collaboratori, ed orientandone anche l'approvazione da parte del collegio dei docenti. Ben altri sono i problemi lamentati dalle associazioni dei dirigenti  -dalle “molestie “ burocratiche ai vincoli finanziari e normativi, all'incertezza ed esiguità delle risorse-.

 Alla luce di tale assetto istituzionale, che il nuovo disegno di legge, nella versione licenziata dalla Commissione Parlamentare, ha sostanzialmente confermato, ribadendo contestualmente le competenze di “bilanciamento dei poteri” degli organi collegiali,la questione della scelta dei docenti, che tante  polemiche ha suscitato, appare enfatizzata rispetto all'effettiva portata della disposizione e ai suoi concreti effetti.

Va innanzitutto rilevato che l'idea di fondo -quella cioè di favorire l'incontro di competenze ed aspirazioni dei singoli insegnanti e le esigenze formative che processi innovativi e diagnosi valutative fanno maturare nelle singole scuole-  non è affatto nuova ed anzi è stata per la prima volta sollevata nel “Quaderno bianco della scuola”, promosso dal governo Prodi, e coordinato da Fabrizio Barca.

L'elemento nuovo di criticità è costituito semmai dalla scelta, operata dal disegno di legge, di affidare al solo dirigente scolastico il compito di proporre gli incarichi triennali  -in coerenza con il piano dell'offerta formativa dell'istituto-   ai docenti di ruolo assegnati all' “Ambito territoriale di riferimento”, anche tenendo conto delle candidature dagli stessi presentati. Inoltre  suscita perplessità il fatto che sia prevista anche l'  utilizzazione di personale docente per classi di concorso diverse da quelle per le quali lo stesso è abilitato.

Va sottolineato al riguardo che gli “Ambiti territoriali” costituiscono in realtà mere articolazione dei “ruoli” regionali e in essi confluiscono pertanto docenti che hanno già perfezionato con l'Amministrazione regionale il rapporto di impiego, sia che provengano da concorsi sia dalle Gae o da altri eventuali bacini ovvero da altre sedi di titolarità in caso di richiesta di trasferimento.

Ne deriva una perfetta corrispondenza tra docenti inclusi negli Ambiti e numero dei posti vacanti  e disponibili nel relativo organico. Conseguentemente, se “l'incontro”  spontaneo tra domanda del docente e l'offerta della scuola non avviene (es. inerzia dei dirigenti, molteplici o nessuna offerta per singolo docente), lo stesso disegno di legge prevede che sarà l'ufficio scolastico regionale a provvedere all'assegnazione d'ufficio alle istituzioni scolastiche dei docenti “non destinatari di alcuna proposta”.

In altri termini poiché si tratta di professori di ruolo con diritto al posto e stipendio già erogato, sembra evincersi dal testo che tutti avranno infine una sede.  Il meccanismo della “scelta” sarà pertanto necessariamente limitato ad un certo numero di scuole e di docenti con caratteristiche particolari (es, aree a rischio), limitandosi in definitiva a consentire l'opzione al singolo docente della sede più gradita rispetto alla molteplicità di quelle offerte.

 Un certo numero di scuole ed un certo numero di docenti “residuali” non potranno comunque scegliere e questi ultimi si vedranno attribuita d'ufficio la sede. In tale contesto normativo appare problematica la stessa possibilità, attribuita al dirigente scolastico, di scegliere docenti di altre classi di concorso, lasciandone uno in soprannumero.

In realtà il meccanismo della scelta avrebbe avuto un senso solo se limitato ad Albi di abilitati  e non di docenti di ruolo e si fosse concretizzato in sostanza in un effettivo decentramento del reclutamento, attraverso concorsi , anche per soli titoli, a livello di singole scuole o di reti di scuole.

Va poi detto che “a regime”, almeno per i docenti neo vincitori di concorsi regionali , magari senza servizio pregresso, sarà nei fatti molto difficile, salvo poche casi, individuare competenze specifiche che legittimino oggettivamente una scelta che non sia quella degli esiti del concorso. Si rischia così che i criteri diventino arbitrari  -perchè non ancorati a profili  professionali-   quali ad esempio l'appartenenza del docente alla Regione ove insiste la scuola.

In conclusione una disposizione nei fatti di impatto limitato e che per di più apre la strada ad un diffuso contraddittorio afferente a presunti vizi di eccesso di potere   -più o meno fondati-   da parte dei dirigenti scolastici.

 

Valutazione dei docenti in prova e premialità

Altrettanto problematica è la valutazione dei docenti, ai fini del superamento del periodo di “ prova” da parte del dirigente scolastico, sentito il “comitato per la  valutazione dei docenti”, composto, tra l'altro da genitori ed alunni.

Dubbi di legittimità costituzionale sono stati da più parti sollevati, infatti, sulla correttezza di un sistema di customer  satisfaction (soddisfazione del cliente)  che, nella scuola pubblica, appare stridere con il sopra richiamato principio della libertà di insegnamento, che, soprattutto per fattispecie così incidenti sui diritti del docente, richiede valutazioni tecniche collegiali da parte di una pluralità di profili professionali adeguati (ispettori, dirigenti, “docenti già di ruolo”), così come del resto previsto oggi dall'art 440, comma 4 del T.U. sulla scuola (parere del comitato di valutazione del servizio eletto all'interno del collegio dei docenti).

Al di là degli aspetti giuridici, come sempre controversi, sono facilmente immaginabili possibili conflitti di interesse  -e relativo contenzioso- soprattutto in caso di conflitti sui sistemi valoriali  (es, educazione alla legalità).

Nell'esperienza pratica poi appariva utile la possibilità prevista dalla pregressa normativa, in caso di giudizio dubbio o di mancata prestazione di almeno 180 giorni di servizio, di prorogare il periodo di prova per approfondirne la valutazione, possibilità -e non obbligo- oggi immotivatamente scomparsa.

Analoghe considerazioni possono farsi circa l'attribuzione al comitato per la valutazione dei docenti, composto anche da genitori ed alunni, della potestà di attribuire una somma ai docenti a titolo di premialità,  delegando allo stesso comitato la definizione dei criteri che dovrebbero attenere alla specifica sfera delle competenze professionali.

 

Competenze Contrattuali

Più in generale le O.O.S.S. contestano che la legge disciplini materie   -imputandone le relative competenze-  che rientrerebbero nella sfera del rapporto di lavoro e della contrattazione collettiva.

Al riguardo la previsione di cui all'art 22, comma 5 del disegno di legge, secondo cui le norme contenute nella legge sono “inderogabili” dalla contrattazione collettiva,  ricalca un principio già introdotto dalla legge Brunetta (art 33 del Decreto legislativo 27 ottobre 2009 n 150),  ma estendendolo non solo alla disciplina dei rapporti di lavoro, come all'epoca previsto dalla già contestata legge Brunetta, bensì a  tutte indistintamente le norme della legge.

Al di là degli aspetti giuridici e “politici” si rileva che ricondurre materie tanto complesse ed “in evoluzione” a norme inderogabili, rende troppo rigido il sistema, che invece richiede un assetto “processuale” ed evolutivo, che non escluda ma anzi promuova il consenso e la partecipazione delle rappresentanze sociali.

 

Arricchimento dell'offerta formativa

 

Sulla medesima linea “decisionista”,  lo stesso articolo 22 prevede che per l'adozione dei regolamenti, dei decreti e degli atti attuativi della legge non sia previsto il parere dell'organo collegiale consultivo nazionale della scuola (Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione), appena eletto ai sensi del decreto legislativo n 233/1999.

 E ciò pur trattandosi di fondamentali modifiche attinenti a tutto l'impianto del sistema scolastico e degli stessi ordinamenti degli studi, che richiederebbero un parere tecnico e non semplicemente giuridico amministrativo (si pensi ai contenuti dei decreti delegati ed ai criteri di introduzione delle nuove discipline)!

Uno degli aspetti più rilevanti del disegno di legge attiene all'arricchimento identitario del curricolo di istituto,  attraverso un lungo elenco di “obiettivi”,  indicati dall'art 2, da perseguirsi attraverso strumenti di “flessibilità” e di “potenziamento” dell'offerta formativa, in linea del resto con quanto già previsto dal regolamento sull'autonomia scolastica (D.P.R. N 275 del 199).

A parte la complessità del sistema di valutazione, didattica e finanziaria, dei relativi Piani triennali dell'offerta formativa, da effettuarsi in tempi brevi a livello regionale e nazionale,  mancano nel testo concrete indicazioni per superare le criticità che hanno reso in passato molto limitata l'attuazione delle auspicate azioni di potenziamento, pur in presenza di norme analoghe.

La prima causa è certamente imputabile alla condizione, che ricorre anche nell'attuale disegno di legge, per cui il “potenziamento” è possibile solo  “nei limiti delle risorse disponibili”. Considerato che le risorse finanziarie stanziate sono in larga misura assorbite dalle immissioni in ruolo dei docenti, che la stessa prevista nuova dotazione organica dell'autonomia ha una configurazione non omogenea sia come classi di concorso sia come dislocazione territoriale e che inoltre essa è prioritariamente destinata anche a sostituire i docenti assenti  -tale circostanza è infatti parte delle “coperture”-   l'offerta aggiuntiva concretamente possibile appare necessariamente episodica e marginale, tanto più considerando un intero ciclo pluriennale di discipline aggiuntive, circostanza questa necessaria per definire gli obiettivi di apprendimento e non ridurla, come fu in passato definita, ad una sorta di “Club Mediterranee”.

Ciò appare particolarmente evidente per l'implementazione dell'insegnamento dell'inglese, per la quale non sono indicate risorse e metodi, sicchè si rischia  di ripetere le negative precedenti esperienze dei docenti “specializzati”, in sostituzione dei docenti “specialisti” e quelle del Clil (content and language integrated learning), ancora limitato a un ridotto numero di scuole proprio per mancanza di adeguati finanziamenti.

La lunga lista degli “obiettivi” di arricchimento dell'attività curricolare, extracurricolare ed educativa rischia pertanto di essere concretamente incompatibile con le risorse esistenti, se si tratta di insegnamenti aggiuntivi, e poco praticabile se si tratta di insegnamenti  parzialmente sostitutivi, nell'ambito della c.d.   quota dell'autonomia,. Relativamente a quest'ultima, infatti, i collegi dei docenti sono tradizionalmente restii a ridurre l'orario di discipline esistenti a favore di altre o nuove discipline, decurtando in tal modo le ore di colleghi.

Andrebbe inoltre valutato l'impatto delle nuove discipline sull'equilibrio e l'identità del percorso formativo, soprattutto se i “potenziamenti” avranno carattere curricolare e non si intenda modificare il monte ore complessivo per gli alunni, con conseguente riduzione del  quadro orario delle attuali discipline.

Infine significative modifiche ai curricoli nazionali degli attuali percorsi di studio richiederebbero un'analisi puntuale degli effetti sugli esami di stato e sullo stesso valore legale del titolo di studio. Se infatti le attività di potenziamento hanno natura curricolare appare debole la soluzione indicata  dall'art 3, comma 2 bis, secondo cui “si tiene conto” del curricolo dello studente nell'ambito dell'esame di stato e , per altro verso, andrebbe meglio definita, per gli scrutini finali, la composizione dei docenti che ne fanno parte.

 

Sistema duale tedesco

Una breve considerazione sul “sistema duale tedesco”  che giustamente è stato di recente segnalato come sistema particolarmente efficace nel rapporto scuola-lavoro.

Va tuttavia ricordato che anche l'intero impianto della  riforma Moratti /Bertagna (legge n 53 del 2003)  si basava su tale modello, tanto da prevedere un sistema dei licei, di competenza nazionale, -che, come unica “mediazione” contemplava i “licei” economico e tecnologico-  ed un sistema dell'istruzione e della formazione professionale, di competenza regionale ma con regole stabilite a livello nazionale, in particolare circa i profili educativi, culturali e professionali, ai quali conseguivano titoli e qualifiche, di diverso livello, valevoli per tutto il territorio nazionale.

Veniva anche istituita una formale disciplina dell'alternanza scuola lavoro (art 4) come modalità dei percorsi formativi in collaborazione con le imprese.

Il sistema fu all'epoca contestato, non solo per la non condivisa anticipazione per gli alunni di scelte culturali  e professionali che finivano per limitare la mobilità sociale, ma anche per la scarsa collaborazione delle Regioni e delle Associazioni imprenditoriali territoriali, i cui impegno istituzionale e finanziario costituisce in realtà il segreto del successo tedesco ed altoatesino.

 L'attenzione ad un più incisivo rapporto scuola lavoro ed ad una didattica per competenze,  anche professionali, è stata successivamente ribadita  dal nuovo assetto dell'Istruzione tecnico professionale (comprensivo di una nuova disciplina degli I.T.S. E dei “poli” tecnico professionali)  definito dal ministro Fioroni a modifica della riforma Moratti.

 

Precariato

Un'ultima considerazione sul tema rovente del precariato e delle relative stabilizzazioni.

La soluzione adottata in sede di commissione Parlamentare, dopo alcune incertezze comunicative che hanno suscitato contraddittorie aspettative, è probabilmente la più coerente alla luce di quanto previsto dall'art 1, comma 605 della legge 27 dicembre 2006 n 296, per quanto riguarda i docenti inclusi nelle Gae e dal D.M. 23 maggio 2014  per quanto riguarda i docenti “idonei” del concorso del 2012.

Essa tuttavia non dà risposte soddisfacenti ai docenti di seconda fascia dopo la decisione della Corte di europea di giustizia  del 26 novembre 2014  e, soprattutto, non risolve né il problema dell'attuale precariato in servizio nelle scuole con incarico annuale, né, conseguentemente, il problema della continuità didattica. Si ricorda al riguardo che in questo anno scolastico, a fronte di più di 130000 contratti annuali conferiti, solo 58000 sarebbero stati stipulati da un docente incluso nelle Gae mentre 78000 sarebbero stati assegnati a precari, prevalentemente abilitati, non inseriti nelle Gae.

Al riguardo si osserva in particolare che, se è certamente positivo il rinvio di tre anni del del divieto di conferire incarichi oltre  la durata di 36 mesi, tale disposizione suscita comunque perplessità sotto il profilo giuridico.

Il mancato conferimento di una supplenza, anche oltre i 36 mesi, spettante sulla base della posizione nelle graduatorie di istituto di seconda fascia, sembra infatti, fino ad  un'eventuale revisione di tutta la disciplina delle supplenze,  il risultato di  un'interpretazione distorta della pronuncia della Corte europea di giustizia   , che mira ad evitare il permanere delle cause che originano la reiterazione degli incarichi precari e non a negare “a valle”, a situazione immutata, l'esercizio di un diritto alla nomina legittimamente maturato dagli interessati.

Del resto il legislatore è talmente consapevole della non sostenibilità di tale divieto in sede di contenzioso del lavoro da  prevedere   addirittura la creazione di un fondo per il risarcimento  dei danni conseguenti alla reiterazione dei contratti. Si preferisce cioè interrompere la continuità didattica e pagare i danni conseguenti piuttosto che stabilizzare un personale abilitato e qualificato da un servizio prestato per più di trentasei mesi!.

Seppure un pò provocatoriamente, si potrebbe allora riflettere su una soluzione che muove dalle seguenti due premesse.

Il fenomeno del precariato nella scuola non è legato soltanto ai ritardi, che certo ci sono stati, nel coprire con i concorsi il turnover sui posti vacanti e disponibili nei diversi anni, ma è legato strutturalmente soprattutto alla caratteristica del servizio scolastico che non consente di lasciare soli i bambini ed i ragazzi nelle classi.

Gli interventi, pur positivi, volti a superare la sfasatura tra “organico di diritto” ed “organico di fatto”, operati anche da questo disegno di legge per ridurre il fenomeno (es. possibilità di transito dei docenti comandati presso le Amministrazioni ove sono impiegati), non risolveranno  mai radicalmente il problema perchè ci saranno sempre posti con titolare temporaneamente assente  che necessitano di un supplente annuale.

Né si ritiene poi che l'organico dell'autonomia, come del resto riconosciuto anche dagli stessi documenti ufficiali, possa, nei numeri e nei termini proposti, superare sostanzialmente il fenomeno delle supplenze brevi, soprattutto nelle scuole superiori, a causa anche della varietà delle cattedre, della concreta dislocazione dei docenti delle dotazioni aggiuntive e dell'imprevedibilità della tipologia dei posti vacanti da coprire.

Ne consegue, tenendo anche conto dei docenti impegnati nelle scuole paritarie, che il fenomeno di docenti abilitati con più di trentasei mesi di servizio -di cui ha comunque bisogno la scuola- è  non solo ben più ampio dei posti disponibili pur nell'organico allargato, ma, soprattutto, tende a riprodursi permanentemente, seppure in misura inferiore rispetto al passato.

 Questo è stato sostanzialmente l'equivoco di ritenere che le graduatorie ad esaurimento potessero esaurire il fenomeno una volta per tutte, ricorrendo per il futuro a concorsi periodici!|

D'altra parte questo personale con trentasei mesi di servizio, comunque prestato ad insegnare agli alunni nelle scuole, non è mediamente un personale impreparato e casuale. Esso infatti viene ormai formato da tempo -e comunque lo sarà a ”a regime”-  sulla base di una laurea magistrale a numero programmato per la scuola dell'infanzia e primaria -e quindi con una selezione iniziale-  ovvero sulla base di una laurea breve, di una laurea magistrale biennale e di un tirocinio formativo attivo annuale, sempre con numero programmato.

 Tali percorsi  avrebbero pertanto pienamente giustificato -come era  del resto nelle prime ipotesi-  anche una configurazione di “corso-concorso” per l'accesso diretto ai ruoli.

Gli stessi docenti che stanno svolgendo i corsi Pas (percorsi abilitanti speciali), pur non avendo seguito l'anzidetto percorso,uniscono all'esperienza professionale derivante della prestazione del servizio per molti anni il superamento di un percorso universitario abilitante di riconosciuta qualità e con valutazioni parziali e finali.

Del resto anche l'eventuale futura disciplina in materia, quale emerge dalla delega in tema di formazione iniziale, sembra muoversi nella medesima direzione di uno stretto coordinamento e di una sostanziale continuità tra laurea magistrale accesso ai ruoli e tirocinio in vista della piena assunzione della funzione docente, rinnovando un'idea che era anche a base delle Siss e che ha creato legittime aspettative in coloro che hanno seguito tali percorsi, quale che fosse il punto in cui si stabilisse concretamente la fase formale del reclutamento.

Inoltre, sulla base di una recente sentenza del Consiglio di Stato, verranno probabilmente inseriti nelle graduatorie ad esaurimento della scuola primaria -e quindi con il diritto all'immissione in ruolo secondo il vecchio criterio del “doppio canale”- anche coloro che sono in possesso solo di una abilitazione conseguita in un istituto magistrale.

Diventa pertanto oggi difficile negare una prospettiva a detto personale ed anzi vietare il conferimento di nuovi incarichi dopo trentasei mesi di servizio, pur solo tra tre anni, per eludere il disposto della pronuncia europea del 26 novembre 2014.

Meglio sarebbe forse, prendendo atto della complessità della situazione, come proposto da recente dall'ex Ministro Carrozza, mantenere un doppio canale di assunzioni, secondo l'impianto della legge 124 del 1999, e impostare, come proposto dalle O.O.S.S. piani pluriennali di assunzioni   -in parte per i futuri vincitori di concorso, in parte per i precari “qualificati” dal servizio svolto-  su tutti i posti vacanti e disponibili ogni anno.

E' del resto almeno dubbio che un concorso selettivo, svolto nei fatti dai medesimi docenti universitari , possa essere sostanzialmente molto più  “meritocratico” di una selezione per il conseguimento dell'abilitazione basata su numero “programmato”, su due anni di laurea magistrale qualificata e su uno specifico tirocinio attivo annuale. Ciò tanto più se a questo o analogo iter (vedi Siss) si aggiungono trentasei mesi di servizio effettivo!. In ogni caso sarebbe una  soluzione più aderente alla realtà dei docenti che concretamente sono nelle scuole con incarichi annuali e con le esigenze della continuità didattica.

 In tale prospettiva di stabilizzazione pluriennale strutturale, tempi e priorità per le immissioni in ruolo diventerebbero meno rilevanti e sarebbero oltretutto coerenti con i posti annualmente disponibili, con le indicazioni della decisione della Corte europea di giustizia e con le compatibilità annuali di bilancio!

 

 
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