Bertagna: educare istruendo


 

Educare istruendo: ambiente formativo e comunità di apprendimento

 

 

 

 

Giuseppe Bertagna, Università di Bergamo

 

 

 

 

 

 

1. Prendo a prestito l’antropologia pedagogica sottesa alla legge n. 53/03 e ai suoi decreti attuativi oggi in via di smantellamento, ma, mi pare, comunque significativi ai fini del nostro tema.

L’uomo non è un sacco vuoto e passivo che può essere riempito e plasmato così come si desidera. Non è un mero prodotto della società e dell’ambiente, per quanto essi siano potenti e influenti. Tanto meno è un robot che possa essere composto dall’esterno in maniera modulare, come fosse il prodotto di una composizione con i pezzi del Lego. Magari su un disegno stabilito da chi ha l’egemonia politica e culturale in una determinata stagione della storia.

L’uomo, per usare l’espressione di Aristotele e di Tommaso oggi ripresa anche da autori come Sen o la Nussbaum,  è, invece,  una sostanza razionale individua caratterizzata da una dynamis interna unitaria. Potremmo tradurre così: caratterizzata da un’insieme di forze in potenza che si possono chiamare capacità. Capacità di pensare, agire, fare, amare ecc.

Questa dynamis interna di ciascuno si presenta sempre con una singolarità: è sempre tutta intera anche quando si dovesse concentrare su una qualche sua specificazione. In questo senso, ad esempio, la capacità di pensare mobilità sempre, in modi e forme diverse, anche tutte le altre capacità possedute dal soggetto; in altri termini, obbedisce alla legge dell’ologramma: mostra il tutto in ogni parte, e viceversa.

Proprio perché dynamis inesauribile, tuttavia, l’uomo è sempre, allo stesso tempo, anche la dimostrazione una energheia mai conclusa: ovvero delle sue capacità potenziali messe in atto, cioè delle competenze che dimostra nel vivere, nel pensare, nell’affrontare e risolvere problemi, elaborare progetti, eseguire compiti, instaurare relazioni ecc.

Anche in questo caso, la competenza è per forza di cose, sempre, competenza in e di qualcosa, ma in questo suo mostrarsi specifico ed analitico raccoglie ogni volta in sé, in modi e forme diverse, l’intero delle competenze che qualificano una persona. In questo senso, la competenza logica, per esempio, non esiste da sola, non è possibile sostanzializzarla, ma nel mostrarsi, documentarsi ed essere ricnosciuta mostra,  documenta e fa riconoscere, in qualche modo, sempre, anche l’intero di una persona.

L’educazione, in questa prospettiva antropologica, è il processo complessivo con cui gli educatori  accompagnano la trasformazione delle capacità potenziali di ciascuno in competenze personali attuali.

 

 

Nello schema qui presentato, questo processo educativo è indicato come il frutto del combinato disposto di due assi che si incrociano.

Il primo è l’asse della formazione della persona. Formazione della persona perché le capacità di ciascuno sono una potenza, quindi non sono predeterminate, non hanno già una forma precisa, ma sono naturalmente espansive, pervasive e rizomatiche. E lo sono perfino, come si diceva, quando si concentrano su una parte e si qualificano, ad esempio,  come una specifica ‘capacità di…’.

Quando, però, esse si mostrano in atto, in un contesto preciso, diventando documentabili e certificabili intersoggettivamente, significa che non restano più in una potenza indeterminata, ma che sono diventate atti specifici con una forma ben configurata: le capacità sono, cioè, diventate competenze personali riconoscibili da tutti nell’affrontare in un certo modo determinati problemi, nell’eseguire determinati compiti e nell’elaborare determinati progetti, nel pensare, nel giudicare, nel gustare  ecc. meglio o peggio di altri.  

In questo senso, il processo educativo che accompagna e sostiene il passaggio dalla dynamis all’energheia non può che essere quello che accompagna e sostiene il formarsi di ciascuno, il darsi una forma, la propria, in mezzo alle e con le altre manifestate da ciascuno o impresse dagli uomini nelle istituzioni, negli ambienti, nei prodotti del loro ingegno.

 

 

2. Il processo educativo coinvolge tutte le figure e tutti gli ambienti istituzionali e tecnologici che hanno una qualche responsabilità nell’accompagnare e nel sostenere il formarsi di ogni giovane. Ma evidentemente un conto è formarsi, declinare le proprie capacità in competenze,  in famiglia e a casa, con i genitori, un altro nel gruppo dei pari, con gli amici, in strada e in discoteca e un altro ancora nell’oratorio, con gli animatori, o, cosa che a  noi interessa, nella scuola, con gli insegnanti.

In ogni ambiente e in ogni contesto istituzionale e tecnologico, infatti, il passaggio dalla dynamis all’energheia di ciascuno, passaggio che costituisce il fine dell’educazione, si confronta con mezzi e contenuti diversi.

I mezzi e i contenuti specifici che la scuola come istituzione e i docenti che operano in essa adoperano e devono adoperare per il formarsi di ciascuno sono quelli della cultura.

E della cultura non nel senso dell’antropologia culturale, concepita quindi come l’insieme funzionale delle abitudini, degli schemi mentali, delle conoscenze, dei saper fare, dei costumi ecc. di fatto presenti in una società ad assorbiti senza mediazioni critiche nelle esperienze ordinarie di vita (aspetto descrittivo), ma della cultura in senso intenzionalmente educativo, quella cioè costituita dall’insieme delle abitudini, degli schemi mentali, delle conoscenze, dei saper fare, dei costumi ecc. che sarebbe bene fossero presenti in una società, perché reputati migliori dei precedenti, e reputati tali sul piano della riflessione filosofica, etica, politica, scientifica (aspetto normativo).

In questa prospettiva,  la cultura intenzionalmente educativa è quella costituita dai valori e dai comportamenti riconosciuti migliori dalla comunità sociale,  dalle conoscenze (dichiarative e procedurali) giustificate come più affidabili dalla comunità scientifica e dalle abilità che si sono dimostrate più efficaci secondo la comunità tecnologica, i quali  diventano i criteri per discriminare (per giudicare) i contenuti della cultura antropologica, quella funzionale, e così  conservare o abbandonare quelli che meritano queste due azioni, al fine di contribuire al miglioramento progressivo della società, della cultura, della scienza e delle tecniche.

Ora se ciascuno è l’insieme delle capacità (dynamis) e delle competenze (energheia) che lo contraddistinguono come entelechia, fin dal momento in cui è concepito, nessuno possiede, ha  i mezzi e i contenuti che compongono la cultura, tanto più quella in senso educativo.

Le persone la devono acquistare nella dinamica sociale. E soprattutto i mezzi e i contenuti della cultura educativa li devono acquistare anche oggi, società dei mass media e delle telecomunicazioni, per lo più nella scuola. O comunque attraverso processi sistematici e intenzionali di istruzione messi in atto da istituzioni similari.

Se da acquistare, dunque, significa che le persone  non hanno per dotazione i mezzi e i contenuti della cultura educativa, per cui si può dire che se le capacità e le competenze riguardano l’essere di ciascuno, le conoscenze e le abilità che compongono la cultura educativa coinvolgono il suo avere.

 

 

3. Compito dell’asse dell’istruzione, a questo punto, è duplice. Da un lato, impegnarsi perché ogni studente abbia, acquisti, si impadronisca dei mezzi e dei contenuti della cultura in senso educativo da impiegare per il giudizio dei mezzi e dei contenuti che pervadono in maniera per lo più tacita ed acritica quella antropologica. È ricchezza importante. È patrimonio prezioso.

Dall’altro lato, impegnarsi perché questo acquisto non resti negli scaffali della dispensa, ma sia cucinato, gustato, digerito e trasformato, grazie agli enzimi liberati dalle capacità personali, in alimento per la maturazione e la dimostrazione di competenze personali.

Che senso ha, del resto, diceva già Platone, essere ricchi ma non sapere che farsene della ricchezza, perché non la si sa impiegare  per realizzare i propri fini e per diventare migliori? E d’altronde, «come può essere chiamata virtù quella sapienza che rimane sterile e soltanto alloggiata nella mente, senza divenir governo della vita?» (Leggi 689e).

Ecco perché il processo dell’educazione avviene soltanto quando l’asse dell’istruzione e l’asse della formazione si incrociano, si fecondano e si sviluppano a vicenda, migliorando la qualità della vita umana e facendosi ‘buona educazione della persona’.    

 

 

4. Ma come si fa a raggiungere questo risultato nell’attuale sistema di istruzione e di istruzione e formazione professionale se tutte le ricerche disponibili ci avvertono non solo della difficoltà del proposito, ma sempre più spesso anche del suo fallimento?

Bullismo, demotivazione, abbandoni, soprattutto sempre più preoccupanti disapprendimenti, dequalificazione degli studi e degradazione della qualità delle relazioni interpersonale tra docenti e docenti e tra docenti, studenti e genitori.

Per quanto la dizione esatta, inserita nella legge n. 53/03, sia «sistema educativo di istruzione e di formazione» pare proprio, infatti,  che l’aggettivo educativo si riveli sempre più abusivo.

Bisogna riconoscere che non esiste una ricetta che assicuri il recupero del carattere educativo dei processi di istruzione e di formazione che si svolgono nelle nostre istituzioni scolastiche.

Detto questo, tuttavia, almeno in negativo si è sicuri di una cosa: non è una strada da percorrere, per questo auspicato recupero, quella che si concentra soltanto sulla qualità dell’offerta, cioè dell’insegnamento e sulla sua organizzazione.

Ammettiamo, per ipotesi e per esempio, una  scuola che in Italia, certo, non c’è. Una scuola governata dai maggiori luminari esistenti, con interventi strategici giustificati da accurate analisi dei bisogni, e non da visioni per lo più  ideologiche come è accaduto finora; in cui i docenti sono selezionati con rigorosi criteri qualitativi e quantitativi tra i migliori laureati specialistici disponibili sul mercato (è di questo mese, per esempio, una ricerca dell’agenzia McKinsey che ha individuato una correlazione significativa tra ottimi rendimenti degli studenti di Giappone, Finlandia, Hong Kong, Canada e Corea del Sud in matematica e scienze e selezione dei docenti di queste discipline tra i migliori laureati di ogni anno); in cui l’esercizio dell’istruere, etimologicamente architettare il sapere da trasmettere, è condotto senza scivolare in tradimenti della natura e della complessità dei diversi saperi; in cui l’organizzazione degli insegnamenti è armonicamente integrata e programmata e in cui le relazioni tra i docenti e i dirigenti e tra questi e gli alunni sono sempre costruttive e cooperative, e mai distruttive e defezionatorie.

Perfino in presenza di questa straordinarie condizioni, in realtà, non si evita il rischio di ridurre l’istruzione ad una dogmatica enciclopedica che si può solo compostamente deglutire come le ostie intrise di tintura cefalica che Gulliver vede distribuire nell’isola di Laputa, ma, allo stesso tempo, che vede poi anche sputare di nascosto dai ragazzi[1].

Anche in presenza di questa straordinarie condizioni, insomma, il rischio che il sapere trasmesso con l’istruzione non diventi «sangue» (l’espressione è di Gentile[2]) delle persone resta in tutto il suo peso.

Lo aveva già provato sulla sua pelle Platone, d’altronde. Come si sa, egli teorizzò che solo i filosofi avrebbero potuto governare uno stato in verità e giustizia. Dione di Siracusa, consigliere del giovane tiranno Dionigi II, era diventato per questo suo discepolo. Attraverso di lui, il filosofo vide l’opportunità di realizzare il suo progetto. Si impegnò personalmente in un primo viaggio a Siracusa. Ma già al secondo gli sorsero dubbi. Dione, Dionigi e gli altri siracusani che si dichiaravano suoi entusiasti discepoli, gli davano occasione di considerare con sospetto questa loro rivendicata figliolanza.

Li mise allora alla prova, costringendoli a «mostrare che cosa sia tutta la questione (della sua filosofia, n.d.r.), come sia e per quanto grandi difficoltà si raggiunga e quanta fatica comporti»[3]. Dalle risposte non false, ma fredde, stereotipate, si accorse che «erano rimpinzati di cose malsentite riguardo alla (sua) filosofia (parakóusmata katá philosophían)».

Infatti, a partire da Dionigi, nessun discepolo siracusano «era stato davvero preso dalla filosofia come da un fuoco» [4]. Ne ripetevano molto bene le formule. Ma avevano «una verniciatura esteriore di opinioni»; erano come chi ha «il corpo abbronzato dal sole»[5]. Nessuno, infatti, esprimeva conoscenze che nascevano «dopo molte discussioni fatte su questi temi» e che «dopo una comunanza di vita» apparivano «improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla» nell’anima; scintilla che, poi, «da se stessa si alimenta» e diventa fuoco[6]. Davano l’impressione di rispondere a quiz impegnativi, ma sempre a quiz, non di vivere quanto dicevano, di aver trasformato quanto dicevano in testimonianza di un’esperienza personale che animava l’intero della loro vita. Nel linguaggio che ho adoperato prima non davano affatto l’impressione di aver trasformato le loro capacità in competenze filosofiche, ripetendo la filosofia del maestro.

Per raggiungere il risultato di far reciprocamente fecondare asse dell’istruzione e asse della formazione e così produrre autentica educazione di ciascuno è necessario, allora, considerare la questione anche dal versante opposto all’insegnamento, cioè da quello dell’apprendimento.

 

 

5. È un truismo osservare che si impianta l’insegnamento (l’istruzione) al fine di provocare l’apprendimento personale. Ed è non di meno un truismo ribadire che esiste una relazione tra i due processi.

Ma il problema non è di negare che il fine dell’insegnamento sia l’apprendimento e che tra i due processi esista una relazione, bensì di domandarsi perché, quando, come e soprattutto dove, in quale luogo, questo fine si riesca a raggiungere, e l’insegnamento diventi apprendimento.

Cominciamo allora con il dire che se ha senz’altro ragione Aristotele a sostenere che possiamo insegnare solo ciò che sappiamo è su questo ‘sappiamo’ che occorre portare l’attenzione per rispondere al problema appena richiamato. Che cosa significa, infatti, ‘sapere’, che cosa significa questo ‘che sappiamo’, l’unica cosa che riusciremmo a trasmettere con l’insegnamento?

Il dualismo in qualche modo neoplatonico a cui ci ha abituati il cartesianesimo moderno e i suoi epigoni ci hanno spesso spinto a ritenere il sapere una questione non anche, ma soltanto logica, intellettuale. Da esclusiva res cogitans. Quasi sapessimo quando abbiamo ben ammobiliata la mente e il sottoscala della memoria di conoscenze logicamente e scientificamente congrue e connesse. E che, dunque, il problema dell’insegnamento consista nel trasmettere quest’ordine logico che esiste nella mente del docente (chi sa) in quella dello studente (chi non sa).

Se fosse così, però, non si spiegherebbe perché perfino Platone avrebbe fallito con Dione e compagni.  Chi meglio di lui, infatti, poteva  ‘sapere’ la sua filosofia, nel senso di ‘sapere’ logico-intellettuale prima precisato?

Bisogna allora concludere che, forse, quando parliamo di ‘sapere’, non possiamo riferirci soltanto alla sua dimensione logico-intellettuale, ma come spiega bene il turbamento di Faust nel tradurre En arché en ho Lógos, il primo versetto del Vangelo di Giovanni, questo Lógos è molto di più della sola dimensione logico-intellettuale: è Wort, parola, Sinn, significato, Kraft, potenza, Tat, atto, azione, e, in realtà, è tutte queste cose insieme, e pure qualcosa di più spiega poi con molta chiarezza il prosieguo del vangelo di Giovanni: questo Lógos è, al fine, una persona viva e che vive perché amando ragiona e ragionando ama.   

Questo spiega, in verità, perché già per Platone la conoscenza vera, anche e soprattutto la più alta, non fosse mai trattabile come una «cosa», ma fosse sempre «una relazione viva tra la cosa che tale conoscenza significava e il modo di esprimerla da parte del soggetto»; e perché, per lui, si ricordi la sua polemica contro la scrittura nel Timeo, le conoscenze non si potessero mai cristallizzare in una sistematica, magari da ripetere a memoria, ma fosse sempre un farsi attivamente presente del pensiero personale, nel dialogo con se stesso, gli altri e il mondo.

È questo, d’altronde,  anche il senso più profondo della dottrina tomista della conoscenza come adaequatio tra intelletto e cosa, tra mente e realtà[7]. Se l’essere di una cosa conosciuta non è immanente all’intelletto (una specie di ‘invenzione’ della nostra fantasia) o non è semplicemente ciò che sta fuori da esso (se non fosse in qualche modo presente in noi, come potremmo conoscerlo?), la conoscenza non può che scaturire sempre dalla relazione inesauribile tra intelletto e cosa condotta dal soggetto; un loro assestamento continuo e progressivo che spinge incessantemente la persona a trovare la giusta misura di espressione.

Kant esprimerà queste stesse sensibilità ricordando che «il vero filosofo» non sa la filosofia, ma filosofa, ovvero che, per ciascuno di noi, la vera conoscenza non è mai un sapere conoscenze astratte e oggettuali, ma un conoscerle in atto da parte della persona[8]. Kierkegaard sottolineerà che la conoscenza è la nostra «infinita preoccupazione di rapportarsi» all’essere che diviene mentre diviene, «con la passione infinita del bisogno»[9].

Se, dunque, ogni conoscenza è conoscere, e conoscere non è un’attività separata dal vivere in pienezza la complessità e l’integralità della vita umana, ne consegue che qualsiasi conoscenza, se davvero tale, non potrà mai essere ridotta a cosa, ma sempre all’esercizio di una soggettività che, nel conoscere, si confronta con un’oggettività: sempre un incarnare la conoscenza di qualcosa della realtà nel nostro pensare che però è connesso con tutto il nostro essere[10].

Le conoscenze che restano soltanto oggettive a livello intellettuale, nei magazzini della memoria o dei supporti informatici, distaccate dall’interezza del modo di essere del soggetto, sono come le rose del roseto del Piccolo principe: «belle ma vuote» [11]. Manca loro qualcosa, per noi. Se ogni conoscenza, invece, è nostra, per continuare con l’analogia del Piccolo principe «è la mia rosa», ciascuna satura e coinvolge globalmente la nostra persona, non soltanto il conoscere; per cui perderla significherebbe perdere in un certo senso noi; e conquistarla significherebbe, in ultima analisi, conquistarci, formarci, scoprirci in una forma prima sconosciuta.

Ecco perché se avesse ragione il giovane Törless[12], l’istruzione condotta a scuola diventerebbe addirittura un impedimento alla vita umana personale, non una sua valorizzazione. Solo se ogni conoscenza è per noi bene ed è noi, infatti, essa è davvero un’occasione di crescita e di maturità non solo per noi, ma per chi sta vicino e, quindi, mediatamente,  per tutti.

Ed ecco perché Socrate può dire: «sarebbe davvero bello, Agatone, se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota. E se anche per la sapienza fosse così, io apprezzerei molto lo stare sdraiato accanto a te, perché sono convinto che sarei riempito da te di copiosa e bella sapienza» (Simposio 175 d-e). Sarebbe bello, ma non è così. Non c’è nessun imbuto di Norimberga che ci permetta di travasare il sapere da una testa all’altra. Ogni sapere, invece, coinvolge sempre l’intero di ogni persona nel suo rapporto con la realtà, e non soltanto la sua mente. Per questo è sempre, a suo modo, anche un pathei pathos, un  conoscere attraverso la sofferenza, perché coinvolge non solo la nostra parte logico-intellettuale, ma anche quella degli affetti, delle passioni e del corpo. Non a caso, gli antichi dissero questa convinzione giocando sul binomio sapére sàpere: un sapere che sia il sapore della vita non è vero sapere.

Ecco allora perché, per finire, qualsiasi istruzione, anche la meglio impostata, non potrà mai essere solo una questione solo di critica, qualcosa che riguarda la logica e le idee, ma sarà sempre, se educativa, allo stesso tempo, anche un travaglio esistenziale,  una questione di vita.

 

 

6. La consapevolezza didattica più importante per favorire un’istruzione educativa potrebbe, quindi, essere questa: chi insegna il sapere (docente)  e chi poi sa, se sa davvero e non, platonicamente, «per cose malsentite», (cioè l’allievo), non può, da un lato, insegnare e, dall’altro lato, apprendere senza testimoniare, vivere, esibire nella sua persona ciò che insegna o che apprende.

In questo senso, il vero insegnante, proprio perché non si limita ad insegnare ciò che sa, ma testimonia anche di apprenderlo mentre lo insegna, vivendo, quindi, in ogni momento,  la dialettica tra il sapere e la sua esperienza, non potrà mai insegnare lo stesso concetto, sebbene lo possa ripeta per vent’anni. Questo concetto, infatti, non esiste in sé, in un astratto iperuranio, cristallizzato in forma intellettuale a se stante, ma è sempre «incarnato». Anche quando lo si ripeta per la millesima volta, perciò, rivive sempre ex novo, come fosse la prima volta, perché, se lo si testimonia come un’esperienza di pensiero personale, lo si esprime per forza con sfumature e risonanze che nelle 999 spiegazioni precedenti erano diverse e sfuggite. In questo modo, insomma, si dà prova di quella continua «adaequatio rei et intellectus» che, per  Tommaso, costituisce la definizione stessa di verità (De Veritate, q. I, a. I c.) e di ciò che Agostino ribadisce nell’esordio del suo De Magistro (I,1): ovvero che ogni insegnare è sempre un apprendere per conto proprio.

Se questo vale per il docente non può che valere, e a maggior ragione, sempre, anche per lo studente. Anch’egli è chiamato a ripetere la stessa esperienza: ogni suo apprendimento è chiamato ad incarnarsi e a diventare sua esperienza. Anche l’apprendimento delle conoscenze più astratte e in apparenza lontane da qualsiasi esperienza, se apprendimento, non può che concretizzarsi, sempre, nella persona che apprende, sotto la forma della testimonianza di un modo di essere personale, sollecitatogli proprio da quanto ha appreso. Davvero, quindi, avviene quanto si diceva all’inizio: le capacità possibili di sé, quando sono lievitate da un sapere (conoscenze) o un saper fare (abilità) ad esse congrui, si mostrano competenze reali, esperienza personale.

Scatta, però, a questo punto, un paradosso. Nessuno può insegnare l’esperienza. L’esperienza non si trasmette, si perde con chi l’ha vissuta. Si può trasmettere (insegnare) soltanto il sapere dell’esperienza, il sapere ricavato dall’esperienza (i concetti, le conoscenze, i saperi dei come si fa), e messo poi nei repertori scientifici che conosciamo.

Tuttavia, nessuno può insegnare il sapere ricavato dalla propria esperienza o dall’altrui esperienza e depositato nelle enciclopedie scientifiche se non lo ripropone un’altra volta dentro la propria esperienza, testimoniandolo a modo proprio e facendolo una cosa viva, non morta. Dall’esperienza al concetto all’esperienza, insomma. Per chi insegna  e per chi apprende.

Ecco perché se le conoscenze teoriche apprese nei corsi scolastici non hanno ricadute ed applicazioni evidenti nell’esperienza personale e non diventano, per esempio, mestiere, professione, azione sociale della persona che le apprende non solo decadono in fretta, ma si trasformano in quella parodia del sapere che è il sapere cosiddetto scolastico (studiare inglese per 13 anni e non saperlo poi parlare, studiare matematica finanziaria e poi non saper legge le legge di bilancio ecc.).

Ma, allo stesso tempo, ecco perché se l’esperienza personale vissuta o ciò che si fa nell’esercizio di un lavoro o nel vivo di un’azione sociale non vengono riespressi dalla persona in termini concettuali, di linguaggio, di conoscenze formalizzate, ‘scientifiche’, cioè nel linguaggio adoperato dallo schema iniziale, non vengono riespressi in termini di conoscenze (saperi disciplinari e interdisciplinari) e di abilità (saperi disciplinari e interdisciplinari del fare efficace), diventano routine senza qualità e sfuggono ad ogni processo di miglioramento.

Non esiste, quindi, un’esperienza personale professionale o sociale praticata che non sia intrisa, anche molto riccamente, di conoscenze e di abilità esplicite e, ancora di più, implicite. Sono state deposte in essa dai tanti soggetti che sono stati capaci di trasformare l’insegnamento teorico in apprendimento personale, e quindi in pratica, esperienza, lavoro, professione.

Non possiamo, tuttavia, immaginare che chi ripete, anche bene nella pratica, queste esperienze professionali e sociali (dal rifarsi il letto all’imparare ad usare il computer, dal fare il parrucchiere all’andare a votare) non le riduca a qualcosa di meccanico e di inerte se non è in grado di riesprimere in termini concettuali, formali e “scientifici” le azioni che compie grazie ad esse.

Solo a queste condizioni di alternanza scuola lavoro, teoria e pratica, studio e azione l’esperienza personale  e sociale può evolvere e raffinarsi sempre più. Siccome «la realtà dell’esperienza sfugge …a coloro che l’hanno fatta», solo raccontando ad una terza persona la propria attività il soggetto può riconoscerla. Ma questa verbalizzazione dell’esperienza ne modifica la natura: «trasformandosi in linguaggio, le competenze si riorganizzano e si modificano»[13]

Il sapere, da un lato, e l’esperienza, dall’altro lato, sono perciò, davvero due cose di diversa natura e livello. Davvero «le conoscenze messe in campo sul lavoro, vale a dire i concetti quotidiani, intrisi del senso dell’esperienza professionale, non hanno la stessa natura delle conoscenze acquisite nel corso della formazione, vale a dire dei concetti scientifici».

Questi due piani, tuttavia, se restano estranei o solo paralleli,  e non tradotti l’uno nell’altro, si danneggiano a vicenda. E l’unico agente che li può connettere è la persona. «La continuità tra queste due sfere di conoscenze è una conquista nella quale è decisiva la partecipazione del soggetto»: è il singolo, in altre parole, che può connettere sapere e esperienza[14].

 

 

7. Come favorire questi intrecci tra esperienza e sapere e viceversa, tra asse della formazione personale e asse dell’istruzione per sua natura impersonale?

Qualche spunto interessante ci è offerto da una delle conquiste più rilevanti delle attuali neuroscienze, la cosiddetta teoria dei «neuroni specchio».

Secondo questa teoria, i neuroni specchio dell’uomo sono quelli che accoppiano i nostri gesti a quelli altrui, permettendoci di afferrare immediatamente il significato delle azioni degli altri, nonché le loro intenzioni ed emozioni. E di ripeterle come nostre[15].

Questa teoria ci insegna, quindi, che alla base dell’apprendimento umano c’è l’azione rappresentata e poi copiata. In pratica, vedendo qualcuno agire, prima sappiamo perché fa una cosa, poi ne possiamo rifare anche l’esperienza. Solo se vediamo fare cose da altri, in altre parole, possiamo comprenderle prima nei loro fini e poi anche ripeterle nei loro mezzo e tempi. Sarebbe il sistema nervoso che, nel senso letterale, prima intus lege, legge dentro, le azioni altrui, e poi ci permette di ripeterle .

I neuroni, infatti, non si attraggono («si sparano», in termini tecnici) in base ad un determinato movimento (per es., chiudere la mano), ma in base ad un fine (per es., afferrare un oggetto). E «si sparano» sia che il fine sia deliberato da chi compie il gesto, sia quando questo scopo è deciso da un’altra persona, che poi lo esegue. Per usare un’immagine figurata, attivano una specie di dialogo tra l’io e l’altro alla maniera della relazione esistente tra principiante ed esperto, tra mastro e apprendista: capire e sentire ciò che fanno gli altri, e perché, e addirittura prevederlo; e poi farlo pure; perfino, a volte, con maggiore efficacia.

Sarebbe questa la dinamica degli apprendimenti umani. Questa lettura, se  è una novità sul piano della dimostrazione scientifica, non è certo una novità sul piano della storia del pensiero occidentale.

Già Platone, infatti, aveva parlato dell’apprendimento umano come Paidiá: un giocare, far finta che ciò che fa una persona (nei suoi fini e nei  suoi mezzi) li ripeta anch’io, mettendomi nella sua parte. Platone dava un giudizio negativo di questo modo di apprendere. Infatti, osservava, «l’imitatore non sa nulla di valido sulle cose che imita»: non sa se sono vere, si limita a mutuarle, credendole vere, degne di stima e valore. Per questo, «l’imitazione (mimesi) è un gioco e non una cosa seria»[16]; uno «svago e piacevolezza»[17]: lo è perché non ha la serietà dello scrutinio epistemico, cioè dell’apprendimento di ciò che si è dimostrato vero, buono e bello. Ma non sfuggiva nemmeno a Platone una circostanza: se si imita qualcuno che agisce in nome di fini veri, belli e buoni, e che, per questo, adopera mezzi adeguati a raggiungerli, anche l’imitazione, il gioco, diventano cose serie. E lo sono perché accendono la dinamica esperienza-scienza a cui prima si accennava.

È stato poi Leopardi a sciogliere inni al valore dell’imitazione. Egli ricordava, anzitutto, che l’imitare tipico dell’uomo, «non è copiare, né ragionevolmente s’imita se non quando l’imitazione è adatta e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ecc. in cui e fra cui si trova l’imitatore, e per li quali imita, e a’ quali è destinata e indirizzata l’imitazione»[18]. In questo senso, «la facoltà imitativa è una delle principali dell’ingegno umano (…) non è che una facoltà d’attenzione esatta e minuta all’oggetto e alle sue parti»[19] e «in quanto facoltà d’assuefarsi, la vera imitazione non è propriamente imitazione, ma espressione (…), ed è parte principalissima dei grandi ingegni»[20]. Per questo fu convinto che «l’uomo, lo spirito umano e i suoi progressi sono frutto dell’imitazione» e che «l’imparare in gran parte non è che imitare».[21].

Il problema semmai è, appunto, chi si imita. Quale modello di azione i nostri neuroni specchio possono prendere a modello nell’orizzonte di vita con cui entrano in relazione. Se si imita, infatti, chi agisce per fini falsi  anche se si adoperano mezzi coerenti allo scopo, tutta l’azione è compromessa sul piano educativo. E imitarla sarebbe negativo. Accade il contrario, invece, se si vivesse la ricchezza di un’esperienza  nella quale si trovano modelli di azione improntati al massimo possibile alla verità, alla bontà e alla bellezza, ad una visione dell’uomo, della sua natura  e del suo destino che siano davvero pienamente umani, realizzazione del meglio dell’uomo, non una sua lettura sbagliata e deficitaria.

 

 

8. La scuola, come stabilimento istituzionale volto a promuovere formazione personale attraverso lo specifico dell’istruzione e come rete relazionale e ambientale nella quale questo processo si colloca, è un luogo in cui i neuroni specchio degli studenti possono mutuare schemi di azione che corrispondono alla visione educativa prima segnalata, e quindi capaci di accendere il circuito virtuoso tra esperienza e riflessione, tra pratica e teoria, tra lavoro e studio?  Possono imitare azioni che sono davvero da imitare perché vere, belle e buone?

Il discorso sarebbe complesso. Ma si può ridurre ad alcune linee emblematiche.

Uno dei fattori più potenti di motivazione e di affermazione dell’uomo è costituito, come si sa,  dall’esercizio della libertà e della responsabilità. Non serve evidenziare come l’una sia la condizione dell’altra, tanto la cosa si impone per intuizione.

Ebbene, la scuola è un luogo in cui gli studenti sono posti nella condizione di ‘imitare’ nel senso prima precisato, azioni personali libere e responsabili, così da duplicarle poi con la stessa natura, oppure fanno esperienza di azioni il cui fine è per lo più l’adattamento a decisioni prese da altri o lo scarico di responsabilità su chi ha preso queste decisioni verso le quali si è imparato ad adattarsi?

La risposta è scontata. Eppure difficilmente la scuola potrà essere un ambiente formativo e  una comunità di apprendimento fino a quando non saranno molto ampliati per docenti, genitori e studenti gli spazi reali di esercizio della libertà e della responsabilità, così che essi aumentino in proporzione poi geometrica non solo nella scuola ma anche in famiglia e nella società.

Oggi, infatti,  sembra ancora troppo carente questo esercizio. I docenti e i dirigenti, per esempio, sono assegnati alle scuole. E una volta assegnati alle scuole hanno ulteriormente assegnati compiti predeterminati, dall’orario settimanale al fatto di dover insegnare soltanto in una sezione di un certo ordine e grado di scuola, e sulla base di contenuti da svolgere in tempi predeterminati. La loro azione dominante non può che essere dunque quella dell’adattamento. Il miglior docente è chi meglio si adatta ai vincoli dati. Non potranno, a questo punto, che ‘insegnare’, se imitati, a loro volta adattamento.

Diverso sarebbe il discorso se, invece, precisate le condizioni professionali di accesso, potessero scegliere il più possibile le scuole, i colleghi, gli orari, gli ordini e i gradi di scuola, e sempre di più anche gli studenti. E poi la distribuzione temporale dei contenuti, magari sull’unico vincolo di raggiungere comunque nell’arco di 12 anni o di 8 anni determinati risultati. Rispondendo poi delle scelte compiute, compiacendosi dei risultati positivi e assumendosi le conseguenze di quelli negativi, e facedndo poi lo sforzo di ri-agire in maniera tale da non ri-averle.

Naturalmente il discorso vale anche per gli studenti. La  libertà loro finora assicurata nel nostro modello di scuola è solo duplice: di scegliere una scuola da frequentare e poi, eventualmente, di abbandonarla per sempre o temporaneamente (le ‘assenze’).  In mezzo, tra queste due scelte estreme ne hanno pochissime altre. L’azione dominante che è loro richiesto di ‘imitare’ è, quindi, per lo più  adattiva.

Non scelgono non si dice il piano degli studi nella sua interezza, ma almeno in sue buone parti (le discipline e le attività non obbligatorie e opzionali nei piani di studi del nostro paese, timidamente introdotti con la riforma Moratti sono stati subito cancellate); non scelgono non si dice i compagni del gruppo classe, ma almeno quelli con cui poter svolgere determinate attività, per esempio quelle elettive od opzionali; non scelgono non si dice tutti i docenti, ma almeno quelli con  cui condurre determinati percorsi; non possono scegliere di fare esperienza di attività formative svolte in scuole di ordine e grado diversi da quelli che hanno scelto; non scelgono, tra un possibile ventaglio che sia messo loro a disposizione, i mezzi e i metodi dell’apprendimento (perché i libri di testo invece che altro?, perché un metodo espositivo invece che attivo? E così via); né scelgono le esperienze d’apprendimento (perché lo stage dove ha deciso la scuola e non dove mi piacerebbe di più, per esempio?), e così via. Essi fanno, quindi, soprattutto l’esperienza di decisioni prese da altri e di condizioni d’esercizio che sono per lo più immodificabili, dove l’originalità e la libertà sono al massimo segnate o dalla tyche o dalla trasgressione, la prima condizione che esige il modello massimo di azione adattiva e la seconda che implica per definizione un’azione con un fine che si sa dall’inizio non essere ritenuto buono.

Se l’apprendimento umano che funziona sullo schema dei neuroni specchio ha a che fare con questo genere di fini delle azioni e poi con i mezzi loro conseguenti, sembra ovvio concludere che i ragazzi impareranno maggiormente fini e mezzi di questo tipo, perciò lontani da quelli scelti in libertà e dalla responsabilità personali.  E la stessa cosa faranno i docenti, e a cascata le famiglie.

Sembra naturale a questo punto la fuga della scuola nella routine amministrativa e nel modello organizzativo burocratico. La comunità di pratiche che essa promuoverà sarà per forza fondata sull’imitazione di azioni esecutive, frutto di necessità, e non creative, frutto di libertà e di responsabilità.

Ma facciamo un altro esempio. Mettere al centro dell’esperienza scolastica la libertà e la responsabilità, per tutti gli attori che la costituiscono, nessuno escluso, significa mettere al centro della scuola  un’idea di persona umana nella quale tutti siamo capaci di libertà e di responsabilità. Scegliere e pagare le conseguenze delle proprie scelte sono esperienze tipiche dell’essere umano a qualsiasi età della vita, non esclusive di qualche privilegiato.

Da questo punto di vista, significa pensare che non esistano persone che non sono in grado di scegliere ciò che è per loro bene e di rispondere delle proprie scelte. Che non siano, quindi, per dirla con la Arendt, attive.. 

Una malintesa ideologia antropologica, invece, ritiene che esistano persone e, in ogni persona, momenti della sua storia evolutiva in cui esse non saprebbero scegliere ciò che, per loro, sarebbe il loro bene, ma avrebbero bisogno di essere sostitute in questo gesto da qualcun altro che scelga per conto loro. Allo stesso modo, non sarebbero in grado di rispondere delle conseguenze delle loro scelte, così accendendo quel circuito virtuoso tra azione e riflessione, tra fatti e valori, che migliora la qualità delle azioni personali umane, ma avrebbero bisogno di qualcun altro che non gli chieda questo conto, ma lo protegga dalle durezze della responsabilità, diceva già Rousseau, privandolo della libertà.

Dovremmo concludere, quindi, secondo questa ideologia antropologica, che esistano persone che non sono in grado di essere attive, perciò persone, ma che devono solo essere guidate, anche se si spera con sollecitudine e benevolenza nei loro confronti, perché passive e, al fine, non ancora umane.   

Questa ideologia, come si sa, è molto anticristiana[22]. Se il padre eterno l’avesse avuta non avrebbe certo dato ad Adamo ed Eva la prova dell’albero della conoscenza e a Caino quella di una coscienza che gli fa dire disperato ‘che cosa mai ho fatto uccidendo mio fratello’.

Il fatto è che dietro questa antropologia sta un elitismo antropologico e sociale che diventa anche politico, il quale, al fondo, non accetta la pari dignità di ogni persona, dalla più ricca alla più debole, e nemmeno che ogni persona meriti rispetto in quanto persona, non per le scelte più o meno corrispondenti a quelle che noi riteniamo doverose, né accetta il principio che ogni persona sia anzitutto di se stessa e che sia in se stessa un fine (il “diritto sussistente” di Rosmini).  

Si può dire che ci stia la storia di tutto l’elitismo moderno, dal Marat che proclamava la rivoluzione pour il popolo, non par il popolo, tanta poca fiducia e rispetto aveva in lui ai tanti saintsimonisti contemporanei che intendono instaurare sulle masse la guida illuminata di una eletta schiera di chierici, oggi magari identitificati con gli ‘scienziati’ o con gli “intellettuali organici del principe”.

Lo statalismo, come è noto, è la concrezione ordinamentale, istituzionale e relazionale di questa mentalità, mentre la sussidiarietà costituisce la concrezione ordinamentale, istituzionale e relazionale della mentalità contraria, quella più coerente con il principio della pari dignità di ogni persona e del suo protagonismo personale e sociale.

Le comunità di pratiche, per usare la espressione di  Wenger[23], che conseguono a queste due impostazioni sono evidentemente molto diverse.

Bisogna allora domandarsi se la scuola è il luogo in cui prevalgono comunità di pratiche  conseguenti all‘ideologia antropologica che sfocia nello statalismo organizzativo e ordinamentale, oppure se è il luogo in cui si vive una comunità di pratiche che conseguono dalla precipitazione ordinamentale, organizzativa e relazionale del principio di sussidiarietà e della sua antropologia di riferimento.

Se, infatti, i neuroni specchio degli studenti potranno attivarsi per ‘copiare’ fini e significati delle azioni intraprese a scuola dai docenti e dai genitori che siano coerenti con l’una piuttosto che per l’altra visione avranno la tendenza a riprodurla poi anche loro  e ad  improntare l’intera propria vita anche adulta su questi imprinting. Così contribuendo, ad esempio, a quel fenomeno che tutti conosciamo e che porta poi gli stessi ragazzi diventati adulti a ritenere buona e doverosa solo la scuola che al loro tempo hanno frequentato. Un caso classico di “strano anello”[24] che, come si sa, è difficilissimo rompere.

Non occorrono molte suggestioni, quindi, per comprendere che un conto è aver attivato in una comunità di pratiche processi imitativi di azioni che intendono realizzare fini coerenti con un’impostazione antropologica e istituzionale di tipo sussidiario, che valorizza la libertà e la responsabilità delle persone, un altro se di tipo statalista-elitista, che valorizza la delega adattiva alle scelte condotte da tecnici e intellettuali che saprebbero meglio di ciascuno di noi che cosa serve e sarebbe bene per noi.

Per quanto possano apparire discorsi astratti, sono, in realtà, di una concretezza disarmante. Prendiamo un esempio oggi all’ordine del giorno. La scelta ministeriale di rimuovere in tutti i sensi la pratica dei Psp e di riaccreditare come unico segno di intelligenza professionale la collaudata strategia del curricolo. Per comprendere la posta di potere in gioco e comprendere che un conto è vivere una scuola caratterizzata da una comunità di pratiche improntate più al curricolo che ai Psp basta rispondere alle seguenti domande.

 

Il potere impersonale prevale sul servizio personale. Chi sono, oggi, in Italia, i soggetti che elaborano il curricolo? Chi, in altri termini, ha il «potere» di costruirlo e definirlo, fino a renderlo normativo? Secondo le leggi vigenti, sono i collegi dei docenti (tramite, se vogliono, i consigli di classe) e i consigli di istituto. Che essi tengano conto, in questa loro incombenza, anche dei desideri e dei bisogni degli studenti e delle famiglie è senz’altro vero. Costituisce, senza dubbio, un loro proposito. Tanto più che esiste anche una rappresentanza di studenti e famiglie, in questi organismi. Ma poiché essi devono elaborare il curricolo per presentarlo nel Pof prima dell’avvio dell’anno scolastico e poi votarlo a maggioranza, è naturale che dovranno tener conto dei desideri e dei bisogni degli studenti e delle famiglie solo in senso statistico. Dovranno cioè per forza ragionare di desideri e bisogni studenteschi e familiari in termini astratti, da minimo comune multiplo o da massimo comun divisore. Dovranno ragionare, in altri termini, non «a criterio», ma «a norma», cioè mai riferendosi alle persone reali, ma a quelle immaginarie, costruite con caratteristiche di «media». Non potranno mai considerare ai fini dell’esercizio dell’insegnamento i desideri e i bisogni concreti espressi dalle persone singole, studenti reali, con le loro famiglie, che ci saranno in classe all’inizio dell’anno. La prospettiva dei piani di studio personalizzati, in questo contesto, risulta, perciò, strutturalmente inapplicabile.

 

La logica sussidiaria e quella gerarchico-statalista..Un tempo, quando la scuola era chiaramente un apparato ideologico dei governi e dei ministri di turno, le scuole e di docenti obbedivano docilmente alle disposizioni emanate dal potere centrale. I docenti, più che intellettuali, erano o impiegati, esecutori di ordini superiori, o militanti della stessa parte ideologica di chi deteneva il potere, quindi identificati a tal punto con il potere da porsi nei suoi confronti come servi. L’atteggiamento esecutivo, adattivo e applicativo era, in ogni caso, fuori discussione, nell’un caso o nell’altro. Non c’era la kantiana «uscita dallo stato di minorità». La comunità di pratica dominante era quella ispirata a questi comportamenti.  

Con la costituzionalizzazione dell’autonomia (Titolo V, art. 117) e, soprattutto, del principio di sussidiarietà (sempre Titolo V, art. 118) la logica prima ricordata, tuttavia, non risultava più adottabile. E non risultava adottabile  non solo per ragioni pedagogiche, deontologiche, professionali e filosofico-culturali, ma, ormai, anche per ragioni giuridico-costituzionali. E ciò non solo per i docenti, ma anche per gli studenti e le loro famiglie. La scuola e i docenti, infatti, nella comunità di pratiche richiesta dall’assunzione della nuova prospettiva della sussidiarietà, dovrebbero essere chiamati ad  essere professionisti autonomi e a transitare da atteggiamenti impiegatizi e applicativi ad atteggiamenti attivi e progettuali, fondati sulla libertà e sulla responsabilità. La stessa conversione è richiesta anche a studenti e famiglie: non più consumatori di un servizio, ma attori dello stesso; non più soggetti passivi, trattati dai docenti e dalla scuola come oggetti del proprio intervento tecnico, ma persone libere e responsabili in prima persona, che cooperano da protagonisti con la scuola e i docenti (art. 1 della legge n. 53/03) nella costruzione dei percorsi della propria crescita formativa.

 

Una dislocazione della dipendenza. Con il ritorno del curricolo, tuttavia, ci troviamo dinanzi ad una singolare dislocazione. Si rompe l’atteggiamento esecutivo e impiegatizio della scuola, della periferia, dei docenti nei confronti del ministero, del centro, dell’amministrazione scolastica. C’è un significativo guadagno, in questo senso. Autonomia e sussidiarietà sono presenti, e hanno liquidato le residue tentazioni gerarchico-statalistiche del vecchio centro. Paradossalmente, tuttavia, studenti e genitori reali, quelli in carne ed ossa che entrano ogni giorno in classe, si trovano ad essere nelle stesse condizioni in cui, una volta, la scuola come istituzione e i docenti uti singuli si trovavano nei confronti del ministero e di chi comandava culturalmente al centro. Si trovano, cioè, ad essere oggetti di intervento, si spera caratterizzato da benevolenza e filantropia, da parte della scuola come istituzione e dei docenti come categoria (il collegio dei docenti). Siamo, come si vede, molto lontani dall’aver trasformato l’autonomia e la sussidiarietà  in principi di sistema, praticati a tutti i livelli dell’organizzazione sociale e statuale della Repubblica, come richiederebbe la Costituzione, e quindi praticati anche in classe, nei rapporti esistenziali tra docenti e studenti, tra istituzione scuola e famiglie. Come, in altri termini, si fosse davanti alla reincarnazione in periferia, nei confronti delle famiglie e degli studenti, di un impianto e di una filosofia che un tempo erano dati  per scontati nel rapporto tra il centro statal-governativo e le scuole.

Con una differenza, però: che più il potere e chi chiede obbedienza è lontano più è sopportabile, più vicino e più è probabile che dia origine ad insofferenze, quando non a vere e proprie proteste e ammutinamenti. Che nel nostro caso possono significare rifiuti all’apprendimento, ricerca provocatoria dell’insuccesso scolastico come occasione per l’abbandono, interiorizzazione di sentimenti di dipendenza e di svalutazione che si tenta di arginare con protervie e bullismi. Siamo, allora, sicuri che il modo migliore per risolvere i problemi della qualità della scuola sia la mera reintegrazione di spazi di autorità che non fuoriescono dalle vecchie filosofie gerarchico-statalistiche?  

Non è che, mantenendo una comunità di pratiche dentro la scuola che riproduce verso gli studenti e le famiglie e pure verso il territorio una miniaturizzazione di quelle un tempo attive sull’intera filiera del sistema di istruzione non si contribuisce affatto a rompere lo “strano anello” della mentalità elitario-statalista?     

 



[1] J. Swift, I viaggi di Gulliver, III, 5. Grande Accademia di Lagado: «Visitai, infine, la scuola di matematiche, dove il maestro impartiva il suo insegnamento con un metodo che, in Europa, si stenterebbe perfino ad immaginare. Teorema e dimostrazione venivano nitidamente scritti sopra un’ostia sottile con inchiostro composto d’una essenza cefalica. Lo studente era tenuto ad ingoiarla a stomaco vuoto e, per tre giorni successivi, a mangiare soltanto pane ed acqua. Via via che l’ostia era digerita, l’essenza saliva al cervello portando seco il teorema. L’esito, però, non era stato fino allora conforme all’aspettativa, sia per la birberia dei ragazzi, i quali, avendo a schifo quel bolo, di solito vanno a nascondersi e lo vomitano prima che esso possa fare effetto. Nessuno, inoltre, è riuscito ancora a persuaderli di praticare rigorosamente la lunga astinenza che la prescrizione richiede».

[2] G. Gentile, Genesi e struttura della società (1946), in Opere complete, Le Lettere-Sansoni, Firenze 1994, IX, 3.

[3] Platone, Lettera VII 340b-c.

[4] Ibidem, 338d-e.

[5] Ibidem, 340d.

[6] Ibidem, 341c7.

[7] «Veritas est adaequatio rei et intellectus», De Veritate, q. I, a. I c. Per suggestioni in proposito, cfr. V. Possenti, Terza navigazione. Nichilismo e metafisica, Armando, Roma 1999.

[8]«Le conoscenze filosofiche si deducono dalle sorgenti prime, cioè dai principi stessi della ragione, oppure si apprendono da coloro che hanno già praticato la filosofia? La strada più semplice è questa seconda, ma tuttavia in questo caso non si può propriamente parlare di filosofia. Anche supponendo che esista una filosofia vera, se l’apprendessimo non avremmo che una conoscenza storica. Il vero filosofo deve saper filosofare, e per far ciò non gli è necessario apprendere la filosofia» ( Cfr. I. Kant, Realtà ed esistenza. Lezioni di metafisica…cit., p. 51).

[9] Cfr. S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alla Briciole di filosofia. Composizione mimico-patetica-dialettica (1846), trad. it. di e a cura di C. Fabro,  in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 367.

[10] «Mentre il pensiero oggettivo è indifferente rispetto al soggetto pensante e alla sua esistenza, il pensatore soggettivo, come esistente essenzialmente interessato al suo proprio pensiero, è esistente in esso. Perciò il suo pensiero ha un’altra specie di riflessione, cioè quella dell’interiorità, della possessione, con cui esso appartiene al soggetto e a nessun altro» (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva… cit., p. 296).

[11] Cfr. A. de Saint Exupéry, Il piccolo principe (1943), trad. it., Bompiani, Milano 1949, cap. XX.

[12] «Non bisogna ammetterlo, ma di tutto ciò che facciamo qui a scuola dalla mattina alla sera, che cos’è che ha uno scopo? Che cosa se ne ricava? Per sé, voglio dire (…). Sappiamo di aver imparato questo e quello (…), ma dentro siamo rimasti vuoti» (R. Musil, I turbamenti del giovane Törless (1906), trad. it., Einaudi, Torino 1988, p. 121).

[13] Y. Clot, C. Ballouard, C. Werthe, La validation des acquis professionnels: nature des connaissances et développement, Cpc-Documents, 4, 1999, p. 15.

[14] Ivi p. 31.

[15] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina, Milano 2006.

[16] Cfr. Platone, Repubblica, X, 602b.

[17] Cfr. Platone, Filebo 30e, Fedro 265b e 278b.

[18] Cfr. G. Leopardi, Zibaldone, 3463.

[19] Ibidem, 1364-1365

[20] Ibidem, 3942. A conclusioni tutto sommato analoghe giunge anche la ricerca cognitiva contemporanea (per esempio A. Marshack, The Roots of Civilisation, Moyer Bell, Mt. Kiski, New York 1991 e M. Donald, The Origins of the Modern Mind, Harvard Univ. Press, Cambridge Massach. 1991).

[21] Cfr. G. Leopardi, Zibaldone, 3950 e 3463.

[22] Urs von Balthasar, Verbum caro, Jaca Book, Milano 2005, p. 85.

[23] E. Wenger, Comunità di pratica, R. Cortina, Milano 2006 («Nello stesso momento in cui si formano i confini, le comunità di pratica sviluppano soluzioni per mantenere i collegamenti con il resto del mondo. Di conseguenza, il coinvolgimento nella pratica implica il coinvolgimento in queste relazioni con l’esterno (…). Entrare a far parte di una comunità di pratica significa non solo entrare nella sua configurazione interna, ma anche nelle relazioni che intrattiene con il resto del mondo»., p. 121).

[24] D. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1994 (strani anelli: «sistemi ricorsivi sufficientemente complessi da possedere la forza necessaria per sfuggire a ogni schema prefissato. E non è forse questa una delle proprietà che definiscono l’intelligenza? Invece di considerare semplicemente programmi composti da procedure ricorsive capaci di chiamare se stesse, perché non fare veramente uno forzo e inventare programmi in grado di modificare se stessi: programmi in grado di agire sui programmi, estendendoli, migliorandoli, riparandoli e così via», p. 165).

 

 
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